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Foto di FRANCK FIFE/AFP
Calcio Daniele Manusia 23 giugno 2020 7'

Gattuso era solo un giocatore grintoso?

Anche Gattuso stesso si ricorda sempre come un giocatore meno eccezionale di quello che era in realtà.

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Dopo la finale di Coppa Italia, vinta la finale di Coppa Italia, con il carico emotivo che sappiamo, Gennaro Gattuso ha detto ai microfoni Rai: «Io penso che noi, chi fa ‘sto lavoro qua, deve avere rispetto per questo lavoro, perché siamo fortunati. Ed è per questo che io tante volte mi arrabbio, perché io voglio vedere gente che ci mette passione, perché io l’ho fatto così per tantissimi anni e non ho nessun rancore, nessun rimorso che potevo fare qualcosa di più. Ho fatto di più di quello che potevo fare. E io dai miei giocatori voglio questo».

 

L’idea che l’esperienza di Gattuso calciatore sia la prova che con umiltà e spirito di sacrificio si possono ottenere grandi cose – quasi cinquecento presenze con la maglia del Milan, più di settanta con quella dell’Italia, vincendo tra le altre cose due Scudetti, due Champions League, il Mondiale del 2006 e un Mondiale per club – anche senza un talento fenomenale è radicata nel nostro immaginario come quelle verità ovvie (una delle pochissime, a dir la verità, quando si parla di calcio) che è inutile discutere.

 

Che Gattuso fosse uno scarpone con molta grinta e voglia di faticare è l’idea che anche Gattuso ha di se stesso e su cui scherza spesso e volentieri. Gattuso è sempre stato quello fuori posto, quello che si può togliere dal paesino di dodici mila abitanti ma a cui non si può togliere il paesino da dentro, quello che dopo più di metà vita al nord al milanese mescola ancora la cadenza calabrese. Quello che non si prende mai sul serio, quello disposto a passare per il più scemo o ignorante della stanza pur di strappare una risata, quello che dopo aver vinto il Mondiale come prima cosa in diretta nazionale dice: «Come so’ brutto, c’ho una moquette in faccia».

 

Quello più piccolo delle coppe che ha vinto, il più piccolo e il più buffo tra i suoi compagni, svantaggiato tecnicamente e fisicamente. Quello che però con una grinta fuori dal comune ce l’ha fatta – una grinta non normale, esagerata, ma tutto sommato innocua, diversa dalla semplice rabbia, anzi si confonde con l’affetto. Quello che ha realizzato il sogno che tutti volevamo realizzare da piccoli e che se ci è riuscito lui ci potevamo riuscire anche noi. Quello che si definiva un “cagnaccio” – come l’american staffordshire che la Nike gli ha affiancato per una pubblicità – e che vedendo come toccava la palla Pirlo si chiedeva se potesse davvero considerarsi un calciatore come lui.

 

Per questo dopo averlo sentito di nuovo sminuirsi dopo la finale di Coppa Italia mi è tornato alla mente il video dei suoi highlights contro la Juventus nella finale di Champions League del 2003, che era girato molto giusto qualche settimana fa, il 28 maggio, nell’anniversario di quella partita. Perché guardando quel video è evidente che Gattuso non può corrispondere a quello stereotipo: qualcosa di eccezionale lo aveva anche lui, e il posto che ha occupato nella storia del calcio italiano se l’è meritato anche per il talento che aveva.

 

Gennaro Gattuso vs Juventus en la final de la Champions de 2003.

Espectacular.

pic.twitter.com/BOgN3azVWG

— AC Milan 🇮🇹 (@ACMilanGoleador) May 27, 2020

 

Dopo l’ infortunio che ha fatto saltare a Gattuso l’inizio del Mondiale del 2006, Gianni Mura ne ha tessuto un breve elogio su La Repubblica, dicendo che in una sua squadra ideale avrebbe sempre una maglia da titolare: «Perché nel calcio servono anche quelli come lui, quelli capaci di correre per due, quelli che annusano il momento di difficoltà della squadra e se la caricano in spalla, quelli col cuore grande come i polmoni». Oltre al cuore e al coraggio, però, Ancelotti ha sottolineato di Gattuso anche altre doti: «applicazione, attenzione, perseveranza, volontà, impegno». Steven Gerrard, invece, ricordando il suo “sorrisetto” nella finale di Istanbul, ha detto di non capire cosa ci vedeva la gente in uno come Gattuso, un finto-duro che non spaventava nessuno.

 

Ma basta davvero guardare gli highlights individuali di quella singola partita per capire cosa c’era di speciale, calcisticamente parlando, in Gattuso. Non è solo merito della sua grinta, o per usare una terminologia più moderna dell’intensità mentale e atletica, se Gattuso piomba sul pallone sempre all’improvviso per i suoi avversari e glielo sottrae spesso in modo pulito. La sua è anzitutto una forma di intelligenza tattica alla fine non così dissimile alla visione di gioco di un playmaker, o di un trequartista. Solo che la sua “visione” agisce soprattutto senza palla.

 

Gennaro Gattuso era un giocatore intelligente: suona strano, vero?

 

In altre parole, Gattuso legge l’azione meglio di chi lo circonda. Non è solo il grande equilibrio, la rapidità e la forza – con il bacino spostava giocatori come Edgard Davids ma, in altre partite, anche atleti soprannaturali come Cristiano Ronaldo – ma anche le traiettorie di corsa e gli angoli con cui interviene sulla palla, come un pugile capace di entrare nella guardia dell’avversario. Per questo quando interviene in raddoppio o arrivando da una posizione non frontale sembra un ninja uscito da una parete invisibile.

 

Il dinamismo e la frequenza altissima di passi con cui copre una porzione di campo davvero enorme gli permetterebbero di giocare ad alto livello ancora oggi, in un calcio dove gli spazi sono più stretti e ci si difende spessissimo in transizione, aggredendo in avanti o recuperando all’indietro, ma la pulizia tecnica con cui la stragrande maggioranza delle volte sottraeva palla al giocatore in possesso e se ne appropriava, o la passava al compagno più vicino, è la cosa che lo distingueva da giocatori simili ma che hanno avuto meno successo. Certo a volte arrivava in ritardo, o trovava sulla sua strada un giocatore superiore a lui ed era costretto al fallo, ma penso si possa dire che Gattuso faceva parte di quel tipo di giocatori “difensivi” che però come obiettivo nei duelli, anche in quelli duri, aveva sempre la palla.

 

Il video della finale con la Juventus raccoglie due minuti e mezzo di giocate brillanti e persino raffinate. Sì, Gattuso è un giocatore persino raffinato. Suona ancora più strano, ma a me sembra le cose stiano proprio così: non è elegante la scivolata di punta con cui recupera Del Piero, da dietro la sua spalla sinistra, e la passa a Seedorf? Non sono ricercati i due palleggi di testa con cui taglia la traiettoria tra Davids e Tacchinardi e si procura il fallo? Non è una finezza il modo in cui soffia via la palla a Trezeguet come uno scippatore e poi gira su stesso per passare la palla all’indietro ed essere sicuro di aver recuperato un possesso? Non è una sciccheria il tocco con cui salta la scivolata di Tacchinardi, dopo aver recuperato una palla uscita da un contrasto tra Pirlo e Trezeguet? 

 

Nei suoi interventi c’era una scelta del tempo e un senso della posizione che oltre a un grande lavoro presuppongono un istinto ancora più grande. Il talento di Gattuso, quello che gli veniva più naturale fare in campo, non era aggredire a caso chi passava dalle sue parti, quanto cercare di mettersi lì dove sarebbe dovuta passare la palla e poi usare il proprio corpo per allontanarla dal controllo avversario.

 

Ma anche con la palla tra i piedi Gattuso non è sciatto o impreciso e se scavo nei miei ricordi non torna a galla un giocatore veramente limitato, ma uno che vuole fare bene le cose semplici, consapevole di giocare in squadra con veri e propri fenomeni (quindi è vero che quel Milan – che giocava con Pirlo, Seedorf, Rui Costa, Sheva e Inzaghi tutti contemporaneamente in campo – aveva bisogno di un giocatore “di fatica” come Gattuso per sostenere il peso di così tanti giocatori offensivi, ma è vero anche che Gattuso ha esaltato quell’aspetto del suo gioco sfruttando l’occasione unica). Non era un playmaker, d’accordo, ma poteva correre palla al piede e far salire anche di parecchi metri il baricentro della squadra, o sbrogliare situazioni confuse con grande lucidità. Poi perdeva pure la testa, almeno un paio di volte a partita, ma non era certo quello il motivo per cui gli allenatori lo facevano giocare.

 

Allora perché non lo ricordiamo come un grande giocatore difensivo? Perché in onore di Makélélé si parla di “Makélélé role” (come una specie di quinto difensore, che copra i centrali e raddoppi in fascia, efficiente e disciplinato nel gestire il possesso) mentre abbiamo trasformato Gattuso in una macchietta del giocatore con la schiuma alla bocca? Perché non ne ricordiamo la modernità, il fatto che non avesse un vero e proprio ruolo, una “posizione” cioè, ma delle funzioni che svolgeva praticamente in tutta la metà campo difensiva, se non in tutto il campo? (Tra l’altro il meccanismo selettivo si sta ripetendo con il suo Napoli, per cui alcuni hanno parlato senza cognizione di causa, e soprattutto non tenendo conto di cose come la costruzione dal basso, la ricerca delle mezzali dietro il centrocampo avversario, di “catenaccio”).

 

A mio avviso ci sono due ragioni. La prima è che per qualche ragione continuiamo a pensare che i giocatori difensivi debbano compensare un qualche tipo di deficit tecnico di partenza, perché altrimenti avrebbero giocato in posizioni più avanzate o con responsabilità più creative. È un luogo comune che resiste al tempo, anche se abbiamo chiaro che si tratta di due specializzazioni diverse e a nessuno salterebbe in mente di criticare Pirlo per le scarse doti difensive.

 

La seconda ragione tira in ballo quell’antimeridionalismo che per decenni ha permesso che chi come Gattuso arriva in una città del nord da un paesino del sud di dodicimila persone, in effetti venisse discriminato, o sminuito al di là delle sue reali competenze. E che magari per Gattuso è diventato anche un complesso di inferiorità, che lo costringe a raccontarsi sempre con qualche attributo in meno di quelli che effettivamente possiede. Come un pittore che in un autoritratto accentui la sua gobba sul naso e dimentichi di dare risalto alla bellezza dei suoi occhi.

 

So che c’è dell’orgoglio, paradossalmente, nell’umiltà di persone come Gennaro Gattuso. Per questo motivo dovremmo essere noi a ricordargli che no, non ha ottenuto più di quello che poteva, ma che è stato un giocatore eccezionale, uno dei migliori centrocampisti italiani degli ultimi vent’anni e uno dei migliori al mondo senza palla. 

 

 

Tags : gennaro gattusomilannapoli

Daniele Manusia, direttore e cofondatore dell'Ultimo Uomo. È nato a Roma (1981) dove vive e lavora. Ha scritto: "Cantona. Come è diventato leggenda" (Add, 2013) e "Daniele De Rossi o dell'amore reciproco" (66th & 2nd, 2020) e "Zlatan Ibrahimovic, una cosa irripetibile" (66th & 2nd, 2021).

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