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(di)
Patrizio Bati
Gattone
31 mar 2023
31 mar 2023
Breve storia di una mascotte infelice.
(di)
Patrizio Bati
(foto)
Michael Allio/Icon Sportswire
(foto) Michael Allio/Icon Sportswire
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Lui è l’idolo dei social. Io sui social sono uno sconosciuto. Il suo nome compare in decine di siti. Il mio in nessuno. Innumerevoli i video su Youtube di cui lui è protagonista. Su di me nemmeno un fotogramma. Lui è Gattone (nome di fantasia), mascotte di una famosa squadra di calcio del nord. Io sono Gennaro (nome reale), ex cameriere, ex venditore di automobili, ex di mille altri lavori, aspirante attore.Lui è una celebrità. Io il suo anonimo ripieno. L’essere umano che, felinopellicciato, durante le partite casalinghe del club, dal tartan dello stadio incita i tifosi, agitando le zampe al ritmo di inni e cori. Naturalmente non sono l’unico ad impersonare Gattone: tra partite ed eventi benefici, ad alternarci siamo almeno quattro o cinque. Il gesto di indossare quella maschera mi costringe ogni volta a fare i conti con la mia personale inconsistenza: 38 anni di vita, zero traguardi raggiunti.Tutte le mie scelte professionali sono precedute dalla parola “ex”: costumi che l’esigenza di pagare le bollette mi ha costretto ad indossare e ai quali, controvoglia, ho cercato di adattarmi. L’unico lavoro che davvero vorrei fare è costantemente preceduto dal termine “aspirante”. Le luci, l’attenzione e gli applausi - io che li sogno come attore - invece li ricevo solo come gatto.Il costume da mascotte occulta ma accentua il mio più grande dolore: io, Gennaro, tifo Napoli da quando avevo 4 anni.Dei miei fallimenti mi ritengo il primo responsabile. Sicuramente il principale, invero non il solo. Sarò forse vigliacco ma non riesco a non attribuire i miei insuccessi ad una malsana situazione familiare. Titolare di una storica barberia del Rione Sanità, Nando (così lo chiamavano tutti e così avrei potuto chiamarlo anch’io, tanto lo sentivo estraneo) sfogava in famiglia il suo costante giramento di coglioni, tenuto a freno solo in presenza dei clienti. Tiranneggiava abitualmente me e mia madre sottoponendo al suo puntuale e immancabile giudizio qualsiasi cosa lei, povera donna, e io, bambino, adolescente o adulto, cercassimo di fare. Nel timore di quel giudizio sono quindi cresciuto. Nella consapevolezza, instillata dalle sue continue censure, che non sarei mai riuscito a realizzarmi. Il mio curriculum è un elenco di mestieri abortiti, inutili e frustranti tentativi di deviare dal mio grande sogno, quello di fare l’attore. E così, un fallimento dopo l’altro, sono diventato Gattone. In una maschera pelosa ho seppellito le mie velleità di artista.Residente al nord ormai da cinque anni (trasferimento per amore, anch’esso terminato con un licenziamento da parte della mia morosa) e stufo di servire risotto all’amarone e luccio con polenta, decido di cercarmi un altro lavoro. L’amico dell’amico di un amico mi mette in contatto con la persona incaricata di selezionare i Gattoni.Mi preparo al colloquio come a un’audizione, cercando in me un italiano standard che non tradisca le mie origini. Bar anonimo, zona stadio, fare sbrigativo, occhi fissi sul cellulare. Per quell’uomo sono solo uno dei tanti nomi scarabocchiati sull’agenda.-Ho saputo che vieni dal teatro… - dice senza guardarmi (sorridendo allo schermo del suo telefonino, in un ping pong di messaggi Whatsapp). Emozionato comincio a descrivere la difficoltà di interpretare ruoli impegnativi come Enrico V e Willy Wonka ma lui calpesta con le sue parole l’entusiasmo delle mie, spiegandomi che non è richiesta solo la presenza alle partite casalinghe della squadra, ma anche a una serie di eventi, pubblicitari o benefici. Contratto a prestazione, cachet, modalità di pagamento… mi spiega tutto, con cortese efficiente nordico distacco, come se mi servisse un piatto freddo già più volte somministrato ad altri. Io però ho bisogno di conferme, di sentirmi dire che sono il profilo giusto. Una fame di consenso che risale alla mia infanzia. -Che requisiti servono? - chiedo, ansioso di mostrargli che li possiedo tutti.Alza la testa di scatto e, per la prima volta, guarda me.-Devi saperti muovere a tempo. Essenzialmente questo.Sul suo viso si apre un sorriso non benevolo.-Vediamo come inciteresti al tifo.Il cellulare, nelle sue mani, smette di essere strumento di conversazione e si trasforma in cassa acustica. Le note sono quelle dell’inno della squadra. Di nuovo guarda me. A disagio muovo le braccia a ritmo, dopo essermi velocemente assicurato che nessuno presti attenzione a quello che sto facendo. Lui aumenta il volume e, a quel punto, non posso più tirarmi indietro. Mi alzo. Tra sorrisi di scherno e di sconcerto. Mi alzo e comincio a ballare.Cerco di prenderlo come un lavoro qualsiasi. In fondo quello che mi chiedono è di interpretare un ruolo. Ciò che ho sempre sognato. Peccato che la parte assegnatami sia totalmente avulsa dalla mia vera identità e che l’impellenza di bollette e cure a madre anziana (ancora residente al Rione Sanità) mi obblighi a rinnegare la mia fede calcistica.Nessun altro tifoso del Napoli avrebbe mai accettato. I maltrattamenti e le umiliazioni di mio padre mi hanno impedito di sviluppare una dose di cazzimma sufficiente a non rinnegare la mia identità partenopea. È un lavoro come tanti altri, mi ripeto. Mentre divento Gattone. Mentre agito a tempo le braccia sotto la curva sud, fissando negli occhi migliaia di nemici. Un giorno il mio reclutatore mi convoca di nuovo.-Gennaro, si vede che non ti impegni. Gli altri Gattoni si danno più da fare. Inventano contenuti sempre nuovi per i social… Guarda!Prende il cellulare e fa partire un video. Vicino a un gabbiano (photoshoppato malamente), un mio collega Gattone finge di intonare una canzone.-La riconosci? “Povero gabbiano…”, il tormentone social. È questo che ci serve: idee, genialità! Tu non ti impegni. Tu non ci stai dando niente. Mi bruciano, le sue parole. Riportando a galla il dolore, mai scordato, di antiche e ancora più profonde bruciature. E allora succede. Domenica pomeriggio, stadio. Succede che, nel momento in cui la squadra per cui dovrei fare il tifo prende un gol, quella rabbia accumulata, quella frustrazione, quella voce a cui non ho mai dato ascolto, escano fuori tutte insieme. Succede (vedere il bellissimo film “Biagio - Una storia vera” di Matteo Tiberia) che io capisca di essere prigioniero di una maschera. A sua volta prigioniera di una seconda maschera. Succede che cominci ad esultare. Scardinando quella doppia armatura. Esulto. Solo qualche secondo, poi mi ricompongo. -Che casso fai, festeggi? Ma va’ in mòna, cojón! - mi dice un fotografo. L’unico ad essersene accorto.Sento la sua mano tirare, fino quasi a strapparmi, il pelo del braccio. Mi divincolo. Cerca di darmi un calcio. Lo spintono, affondandogli una zampa nel petto e riuscendo così ad allontanarlo. Provo a calmarmi ma, passato il confine, indietro non si torna. La prossima volta che mi chiederanno di fare Gattone in una partita contro la mia squadra del cuore, quel giorno, diretta tv, migliaia di occhi addosso, quel giorno, giuro, mi sfilerò la testa di gatto e la maglia dai colori che odio, scoprendo la mia faccia e la maglia biancazzurra. Quel giorno sarà la mia data di nascita.

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