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Garnett: storia di una Rivoluzione
27 ott 2015
27 ott 2015
Kevin Garnett sta per iniziare la sua 21.esima stagione in NBA. Una Lega che più di ogni altro teenager ha cambiato per sempre.
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«Hey Shirley, ma tu stasera ci vieni a vedere la partita di tuo figlio?». Il problema è che Shirley, di quella partita, non sapeva nulla. In realtà non sapeva nemmeno che il figlio, di nascosto e disubbidendole, aveva iniziato da un anno e mezzo a giocare a basket nella squadra della Mauldin High School, in Sud Carolina. Per una riservata quanto risoluta donna del Sud quello era un affronto che non poteva essere perdonato.

Quella sera, allora, alla partita ci sarebbe andata e avrebbe punito il figlio riportandolo a casa. Giusto per ricordargli che “Your ass is mine”—che, edulcoratamente tradotto dall’inglese, sta a significare che in casa comandava lei. Non andò a finire proprio così. Fortunatamente.

Ne è passata di acqua sotto i ponti da quella partita, talmente tanta acqua che mercoledì 28 ottobre 2015, allo Staples Center di Los Angeles, il figlio di Shirley Garnett e O’Lewis McCullough (discreto giocatore di basket alla Beck High School), inizierà la sua ventunesima stagione su un campo NBA.

In mezzo a tutto ciò, oltre 25.000 punti, 14.000 rimbalzi, 5.000 assist, 1.800 palle rubate e 2.000 stoppate. Quell’adolescente magro magro che risponde al nome di Kevin Maurice Garnett è diventato col tempo “KG”, “The Kid”, “The Big Ticket”, “The Franchise”, ma soprattutto “The Revolution”. Rivoluzione, fuori e dentro al campo da basket, che ha reso la NBA un posto totalmente diverso rispetto a prima.

I più giovani, o chi si è avvicinato da poco al basket, pensando a Garnett avranno l’immagine di un rissoso giocatore sul viale del tramonto di cui si parla ormai solo per qualche mattana combinata ai danni del malcapitato avversario di turno. Chi lo conosce da un po’ più di tempo magari si ricorderà della cavalcata vittoriosa dei Celtics del 2008 e di un giocatore emotivo & combattivo, capace di entrare sotto pelle agli avversari rimbambendoli con il suo continuo e infinito trash talking.

Garnett è tutto questo ma, di sicuro, è anche molto, molto di più. Spesso il suo lato caratteriale, quel suo atteggiamento per cui tutti quelli con una maglia diversa dalla sua sono il “nemico”, quei—ok, sempre più ingiustificabili—comportamenti da spaccone, hanno soppiantato nelle cronache il lato tecnico.

Ma l’eredità che KG ha lasciato e lascerà va oltre tutto questo. Per usare le parole del compagno di tante battaglie Paul Pierce, così come riportate nella bellissima “A man in full: An Oral History of Kevin Garnett” pubblicata da Howard Beck su Bleacher Report: «Nessuno aveva mai visto una cosa del genere, una combinazione di velocità, abilità atletiche e versatilità allo stesso tempo. È stato il primo».

The Kid

E che quel ragazzo fosse realmente qualcosa di speciale era forse già intuibile dagli esordi alla Mauldin, quando nel suo primo anno da rookie—filiforme e ancora particolarmente acerbo quanto a fondamentali cestistici—viaggiò a una media di 13 punti, 13 rimbalzi e 7 stoppate a partita.

Ma non erano tanto e/o solo i numeri a impressionare. La capacità di Garnett di continuare a migliorare esponenzialmente, di mettere in pratica sul campo quello che aveva imparato appena il giorno prima, la dedizione al gioco assoluta e maniacale, la sua tenacia nel non mollare mai di un centimetro erano, infatti, già evidenti fin dagli esordi agli ordini di Coach Bob “Duke” Fisher. «Lo massacravo, lo sfiancavo ogni volta che veniva in palestra. Lui, alla fine dell’allenamento, prendeva il pallone e andava a giocare al playground. Non smetteva mai di giocare» dirà in seguito il suo primo coach.

Per Garnett il basket è sempre stata una valvola di sfogo rispetto a tutto quello che gli succedeva intorno. E che giocasse allo Springfield Playground di Mauldin o al Boston Garden per vincere l’anello, non faceva poi così tanto la differenza. «Quando mi sentivo solo, ero giù e andava tutto storto, prendevo la palla e andavo al playground. C’era sempre qualcuno a cui avrei potuto schiacciare in testa». Già, Kevin, già.

Ma all’epoca tutto questo era ancora in fieri e lo sviluppo globale della rete e dei social network erano ancora lontani. Anche se il nome di Garnett iniziava a circolare tra gli addetti ai lavori, KG era all’epoca poco più che un oggetto misterioso. In ogni storia di successo, però, anche il destino ci deve mettere la sua parte. Per Garnett, il destino si palesò sotto le sembianze di Bob Gibbons, uno dei selezionatori del McDonald’s All-American Game.

In realtà, quella sera, l’obiettivo di Gibson era accompagnare Jimmy Williams (all’epoca coach di Nebraska) a visionare Mikki Moore, lungo di Blacksburg High School, che poi realmente giocherà nell’ateneo di Lincoln e avrà una pluriennale quanto modesta carriera tra NBA e D-League. In programma però non c’era nessuna partita della Blackburn e quindi, finito l’allenamento di Moore, i due decisero di allungarsi a Mauldin per dare un’occhiata, appunto, anche a quel ragazzino allampanato.

Assistettero a qualcosa di totalmente diverso rispetto a quello che erano abituati a vedere. Sul campo, infatti, era appena andato in onda lo show di un ragazzino di (allora) 208 cm che non solo schiacciava e accumulava punti, ma che difendeva come un ossesso, correva su e giù per i ventotto metri del campo, palleggiava, passava e prendeva rimbalzi in una maniera mai vista per un sedicenne. L’invito al Nike Basketball Camp di Indianapolis era già scritto e fu lì che il nome e il talento di Kevin Garnett iniziarono a essere evidenti anche al di fuori del South Carolina.

Il suo anno da junior fu impressionante (28.5 punti, 18.5 rimbalzi e 7 stoppate a partita) tanto che, per la prima volta nella storia dello stato, il titolo di Mister Basketball fu assegnato a un ragazzo di quell’età. Sarebbe stata solo una questione di tempo: finire l’high school, andare in un college prestigioso (forse proprio quella Michigan University che stava vivendo la fine dell’era Fab Five) e poi spiccare il salto tra i professionisti.

Tra Kevin e quel sogno sembrarono frapporsi, però, le parole “Lynching in the second degree”, ovvero “Linciaggio di secondo grado”. Questa, infatti, fu l’accusa che nel maggio del 1994 rischio di infrangere i sogni del diciottenne Garnett, accusato, insieme ad altri quattro ragazzi di colore, di aver accerchiato e causato la frattura al piede di un ragazzo bianco. Sembrava la ripetizione del cliché visto appena un anno prima con Allen Iverson: promessa di colore del basket, piccola comunità con focolai razzisti ancora ben vivi, incidenti tra bianchi e neri, risultato: prigione per la nuova promessa nera. Kevin ebbe, però, sorte migliore rispetto al fenomeno di Hampton e se la cavò con una semplice messa alla prova. Il destino, insomma, aveva deciso per lui un’altra strada.

(NOT) Sweet home Chicago

Ma Mauldin non era più posto dove stare, KG era diventato un bersaglio troppo visibile e, quindi, la determinata & determinante mamma Shirley («Ho paura solo di due cose: Dio e mia mamma» dirà in seguito Garnett) decise che era giunto il momento di spostarsi e andare via da lì. L’occasione arrivò quell’estate quando Kevin con la squadra AAU vinse il prestigioso Kentucky Hoop Fest e fu invitato nuovamente al Nike Summer Camp. Lì, in mezzo a tutti i migliori prospetti del paese, conobbe Ronnie Fields, talentuosa guardia della Farragut Academy di Chicago.

Se seguite il basket americano questo nome non vi sarà nuovo, perché lo avrete sentito pronunciare un migliaio di volte (per la precisione 1.567) alla presentazione in campo del protagonista di questo articolo. Accettando l’“invito” di Ronnie Fields e di coach Willie “Wolf” Nelson, Garnett infatti si trasferì con mamma e sorella minore a Chicago per concludere l’high school proprio alla Farragut. Chi sia capitato nei paraggi della metropoli dell’Illinois sa bene, però, che i sobborghi della città non sono proprio il posto più accogliente per un giovane spaesato proveniente da un piccolo centro nel sud del paese. La calma piatta del South Carolina era stata spazzata via in un attimo: «Living there was total hell» dirà KG in seguito, ma da quell’inferno Garnett uscirà ancora una volta e alla grande. Era arrivato il momento, infatti, di alzare ancora l’asticella sia sotto il profilo mentale e umano che sotto quello del gioco.

Antesignano dei video super-hypizzati dei liceali americani.

Non si trattava più di essere il fenomeno della piccola comunità, protetto e coccolato dall’affetto della famiglia e dal ristretto gruppo di amici d’infanzia (quell’“OBF - Official Block Family” che lo accompagnerà poi per tutta la sua carriera, cestistica e non). Era il momento di confrontarsi con i migliori prospetti del paese, in un luogo capace di lasciare indietro chiunque, in una città che di talenti ne aveva bruciati già a decine. Se c’è però una cosa che non è mai mancata a Garnett è la costante voglia di mettersi alla prova, di sfidare tutto e tutti, di continuare a lavorare ogni giorno più del giorno precedente, di essere quel “qualcuno che si sta allenando” del motto di Fleming per i maratoneti di Boston.

E così fu anche alla Farragut, dove Kevin non solo alzò la famosa asticella chiudendo la stagione con 25 punti, 18 rimbalzi, 7 assist e 7 stoppate a partita col 66% dal campo, ma la scavalcò abbondantemente vincendo il titolo di Mister Basketball Illinois (unico giocatore ad avere vinto il titolo in due stati diversi) e quello di Most Outstanding Player al McDonald’s All-American di Saint Louis. Anche USA Today lo elesse quell’anno National Player of Year.

Ormai, però, la high school era alle spalle ed era tempo di scegliere il suo futuro. Un futuro sul quale incombeva come una spada di Damocle quel test ACT (American College Testing) necessario per iscriversi al College e che Garnett non riusciva a superare. Ma al di là del superamento del Test, passato poi al quarto tentativo, la decisione era già stata presa: era il momento del salto nei professionisti.

Ready or not

«Non è stato il primo giocatore a passare dalla High School alla NBA, ma è stato il primo a farlo sembrare così facile». Questo è quello che sentirete dire dalla maggior parte delle persone. E se è vero che già vent’anni prima c’erano stati giocatori che avevano compiuto la stessa scelta (gli ultimi nel 1975 Dawkins e Willoughby, prima ancora Moses Malone), quello che ancora oggi impressiona è l’impatto che la decisione di KG e i risultati della stessa ebbero sulle generazioni successive.

Probabilmente i nomi di Jermaine O’Neal, Tracy McGrady, Tyson Chandler, Amar’e Stoudemire e Dwight Howard vi diranno qualcosa ma, ancora di più, crediamo, quelli di un certo Kobe Bryant e di un tale LeBron James. Nel Draft del 2001 addirittura tre delle prime quattro scelte (Kwame Brown, appunto Tyson Chandler e Eddy Curry) vennero spese su giocatori provenienti dalla high school. Ricordate “the Revolution” a cui si faceva cenno all’inizio? Stava arrivando.

Il processo di crescita e ambientamento di KG fu velocissimo, ma non privo di ostacoli, proprio a partire dal periodo che portò al Draft del 1995. Che si fosse davanti a qualcosa di mai visto e fenomenale era pressoché sotto gli occhi di tutti, ma, alla fine, si stava sempre parlando di un ragazzo di diciannove anni appena compiuti, senza nessuna esperienza di college, in una Lega di uomini fisici e muscolari come in pochi altri periodi della storia cestistica.

Insomma: se Kevin Garnett fosse “Ready or not” non era solo l’interrogativo della famosa copertina di Sports Illustrated uscita due giorni prima del Draft, ma era in realtà la domanda che si ponevano metà dei proprietari e dei GM NBA. E tra questi, nonostante le smentite postume, vi erano anche Flip Saunders e Kevin McHale, all’epoca GM e vicepresidente dei Minnesota Timberwolves, possessori della scelta n. 5 al Draft del 1995.

I Timberwolves erano una franchigia nata appena sei anni prima, reduce da stagioni che definire deprimenti sarebbe stato un eufemismo (mai sopra le 29 vittorie e con un record oscillante intorno al 25%). Nuovo proprietario (l’appena subentrato Glenn Taylor), nuovo GM e nuovo vicepresidente erano davanti alla loro prima decisione fondamentale, e ovviamente usare la scelta al Draft per un liceale non poteva essere immune da rischi.

Il rischio però andava corso anche perché, come da pronostico, le prime quattro scelte andarono nell’ordine a Joe Smith, Antonio McDyess, Jerry Stackhouse e Rasheed Wallace. E così fu quindi: «With the 5th pick in the 1995 NBA Draft, the Minnesota Timberwolves select Kevin Garnett from Farragut Academy» scandì la voce del Commissioner David Stern il 28 giugno 1995 allo Sky Dome di Toronto.

Dove tutto è iniziato.

The Franchise

Ora vi chiedo un grande sforzo di immaginazione: provate a mettervi nei panni di un tifoso Timberwolves fin dagli esordi (ok, ve lo avevo detto che era difficile), pensate di avere la stessa età di Garnett e ora cercate di immaginare cosa possa significare KG per il tifoso in questione e quanto possa essere difficile parlarne.

Bene: quando a 13 anni ho pensato (sciaguratamente) “Caspita bello quel lupo sullo stemma, questi saranno la mia squadra!” non sapevo che sarei andato incontro a tutto questo. Non sapevo che avrei dovuto sopportare quasi un quindicennio di depressione generalizzata né, tantomeno, che avrei dovuto vedere scelte dirigenziali e giocatori che avrebbero fatto infuriare anche il Dalai Lama. «Ma se io avessi previsto tutto questo, dati causa e pretesto, forse farei lo stesso» cantava Guccini tanto tempo fa. E se anche io ripenso a queste parole per il mio rapporto con i Timberwolves, gran parte del merito, o della colpa, è di Kevin Garnett.

E non è solo una mera questione cestistica, anche se si sta parlando di colui che ancor oggi detiene il record di franchigia per presenze (932), punti segnati (19.079), rimbalzi (10.568), palle rubate (1.287), assist (4.154) e stoppate (1.580). I T-Wolves sono stati, sono e probabilmente saranno Kevin Garnett.

Lui non è l’uomo franchigia, lui è “The Franchise”. L’uomo che ha messo i Timberwolves sulla mappa del basket che conta. Quello che ha dato ai tifosi la speranza di poter uscire da un prolungato dimenticatoio. Quello che per dodici anni ha reso, insieme a molti altri, un bambino (e poi un ragazzo) felice di poter tifare quella sgangherata squadra del Minnesota. Ma al di là del lato personale e sentimentale della vicenda, quello che Garnett ha mostrato nei suoi primi anni in NBA è stato qualcosa di realmente incredibile.

You say you want a revolution?

Nel corso di questi anni il gioco è completamente cambiato e ci siamo “abituati” a lunghi che sono capaci di condurre il contropiede direttamente da rimbalzo concludendo al ferro, che sanno difendere su più di una posizione, che tirano da fuori o che hanno un ball handling simile a quello di un esterno.

Immaginate tutto questo 20 anni fa e avrete Kevin Garnett. La versatilità di KG fu tale che, nel suo primo anno, i T-Wolves lo impiegarono principalmente come ala piccola, cercando di sfruttare il fatto che gli avversari diretti gli rendessero almeno una decina di centimetri. Dall’altro lato del campo, invece, Garnett era in grado di accoppiarsi praticamente con chiunque, dimostrandosi un’arma illegale.

L’inizio però non fu folgorante né per la squadra né per KG stesso, che partì dalla panchina e con un minutaggio limitato. Le cose cambiarono però dopo l’All-Star Game, in corrispondenza di due fattori: la partenza di Christian Laettner, il quale aveva fin dall’inizio mal digerito la presenza di KG, e la decisione di Flip Saunders (nel frattempo subentrato a Bill Blair in panchina) di spostare Garnett in quintetto. A cedergli il posto, proprio quel Sam Mitchell che nella stagione che sta per cominciare sarà sulla panchina di Minnesota, con KG in campo e Saunders a osservare tutto dall’alto dei cieli. Strana la vita a volte, eh?

Una volta entrato in quintetto, KG non ne uscirà mai più, né in quella stagione a Minnesota né nelle sue successive diciannove stagioni in NBA. L’anno si chiuse con il record non particolarmente edificante di 26-56, ma con la consapevolezza per i T-Wolves di avere tra le mani un giocatore dal potenziale enorme a nemmeno 20 anni.

E in effetti le cose andarono meglio: il roster venne rinforzato al Draft con l’arrivo di Stephon Marbury, esplosiva guardia da Georgia Tech, che sembrava accoppiarsi perfettamente con KG e che aveva con lui uno stretto legame di amicizia. (Nota a margine: il fatto che Marbury arrivasse tramite scambio di scelte con i Bucks e che quella scelta si chiamasse Ray Allen fa parte del grande libro horror “Le scelte al Draft dei T-Wolves”, con in copertina la faccia sorridente di Jonny Flynn invece di quello sfigato di Steph Curry).

Ma detto ciò, a breve termine, quella scelta si rivelò proficua per la franchigia del Minnesota. Il duo Garnett–Marbury si intese da subito a meraviglia e, grazie a uno strepitoso Tom Gugliotta da oltre 20 punti a partita, Minnesota chiuse la stagione con un record di 40-42 agguantando per la prima volta nella storia i playoff. Al primo turno, però, i giovani T-Wolves furono spazzati via per 3 a 0 dagli Houston Rockets di Olajuwon, Barkley e Drexler. Per Garnett fu comunque una grande stagione, conclusa a 17 punti, 8 rimbalzi e 2 stoppate a partita e arricchita dalla chiamata all’All-Star Game, quando diventò il giocatore più giovane a partecipare alla gara delle stelle dal 1980, ovverosia da un certo Earvin “Magic” Johnson.

102 milioni di no

Centodue. Milioni. Di. Dollari. In. Sei. Anni. Questa l’astronomica cifra che Glenn Taylor offrì a Garnett e al suo agente Eric Fleisher al termine del secondo anno in NBA. L’originario contratto da rookie (5,6 milioni in tre anni) sarebbe, infatti, scaduto l’anno successivo e il rischio che le luci e i lustrini di New York o di Los Angeles portassero via dalle Twin Cities la neonata stella era tutt’altro che remoto.

L’offerta monstre era addirittura più alta di quanto riportato nei contratti multimilionari appena firmati da Alonzo Mourning con gli Heat e Juwan Howard con i Bullets, ovverosia giocatori con uno status assai più consolidato di quello di Garnett. Era impensabile, dunque, rifiutare un’offerta del genere per un giocatore appena al secondo anno, seppur All-Star. E infatti Garnett… la rifiutò. Il rinnovo sembrava ormai impossibile, ma, a un’ora dalla scadenza della deadline del 1 ottobre 1997, KG fu “costretto” a interrompere a malincuore l’ascolto del nuovo album di Janet Jackson “The Velvet Rope” per andare a firmare il suo nuovo contratto con i Twolves. L’accordo era stato trovato: centoventisei milioni di dollari in sei anni. Per la prima volta il “valore” di un singolo giocatore aveva superato quella dell’intera franchigia di appartenenza. Avete detto “Revolution”?

L’impatto che il contratto di Garnett ebbe sia sul lockout della stagione 1998/1999 sia sulla introduzione della nuova “rookie scale” quadriennale (sistema che prevede per le prime scelte al Draft un salario fisso predeterminato—e poi incrementale nel corso dei primi quattro anni—a seconda della posizione di scelta) sono ormai ben noti. La scelta di Minnesota aveva, infatti, minato i già (perennemente) fragili equilibri tra franchigie e giocatori in tema di ripartizione degli incassi.

Ma al di là delle cifre indicate sulla carta, ora per KG si trattava di dimostrare sul campo di meritare realmente quel “Big Ticket”. L’anno successivo lui e Marbury riportarono ancora i T-Wolves ai playoff, dove però, nonostante il 2-1 iniziale, furono di nuovo eliminati al primo turno dai Seattle Supersonics e da uno strepitoso Gary Payton.

Per KG fu comunque un’altra stagione da incorniciare, chiusa a 18 punti, 9.6 rimbalzi e 4.2 assist a partita, superando il record di franchigia per rimbalzi (786), doppie-doppie (45) e minuti giocati (3,222) in un anno. Fu anche il primo giocatore della storia di Minnesota a partire in quintetto all’All-Star Game. Tutto ciò a nemmeno 22 anni. E anche le successive stagioni furono stellari per KG, che chiuse ogni singolo anno ai T-Wolves abbondantemente oltre i 20 punti e 10 rimbalzi a partita, a cui aggiunse anche più di 5 assist a partita per sei stagioni consecutive superando, così, un certo signore che vestiva la maglia n. 33 dei Boston Celtics.

Garnett era diventato un giocatore praticamente immarcabile, capace di portare sotto canestro gli avversari più piccoli o di punire quelli più statici con il tiro di fuori, di cambiare praticamente su ogni giocatore in difesa, di andare con aggressività a rimbalzo e spingere il contropiede per conto proprio. Braccia e gambe lunghissime e veloci, propensione naturale al gioco di squadra, fondamentali e comprensione del gioco comune a pochi giocatori di quell’altezza e una ricerca della vittoria spasmodica facevano il resto. La vittoria però, alla fine, non era mai arrivata—anzi, tutt’altro. Negli anni trascorsi in Minnesota, ogni postseason era stata sinonimo di delusione cocente, nonostante le ottime prestazioni di KG.

Alle prime sconfitte con Houston e Seattle erano seguite quelle con San Antonio (1-3), Portland (1-3), di nuovo San Antonio (1-3), Dallas (0-3) e Los Angeles (2-4). Per sette volte di fila i T-Wolves erano usciti al primo turno e, nella maggior parte dei casi, senza nemmeno dare filo da torcere agli avversari. Sebbene nel frattempo Garnett avesse fatto incetta di premi e onorificenze individuali (MVP della Lega nel 2004; primo quintetto NBA nel 2000, 2003, 2004 e poi 2008; All-Star ininterrottamente dal 1997 al 2011 e All-Star MVP nel 2003; selezionato nel primo quintetto difensivo dal 2000 al 2005 e poi nel 2008-2009 e 2011) da aggiungersi alla medaglia d’oro olimpica con Team USA (Sidney 2000), c’era una sola cosa che gli interessava realmente: l’anello di campione NBA.

In realtà per KG il treno giusto sembrò passare nella stagione 2003-2004. Dalla free agency erano arrivati i problematici quanto talentuosi Sam Cassell e Latrell Sprewell, l’eterna promessa mai esplosa Michael Olowokandi, nonché, per completare la panchina, Fred Hoiberg (sì, il nuovo coach di Chicago) e Mark Madsen. E la formula funzionò. Il pick and roll tra Cassell e Garnett fu un’arma pressoché irrisolvibile per quasi tutte le difese, Sprewell fece una stagione esemplare per voglia e dedizione e anche Wally Szczerbiak diede il suo contributo nella seconda parte di stagione.

La regular season si chiuse con il record di 58-24, che valse a Minnesota il primo posto a Ovest. La stagione di KG fu semplicemente mostruosa: raggiunse i massimi in carriera per punti e rimbalzi (rispettivamente 24,2 e 13,9) a cui aggiunse anche 5 assist, vinse a mani basse l’MVP della Lega con 120 voti su 123, fu nominato nel primo quintetto difensivo per la quinta volta di fila, fu l’unico giocatore votato all’unanimità nel primo quintetto All-NBA, fu—il primo in 29 anni—il leader della Lega per rimbalzi e punti totali segnati. Chiuse la stagione regolare con 71 doppie/doppie, giocando una media di quasi 40 minuti a partita. Semplicemente pazzesco.

E anche i playoff iniziarono con il piede giusto, con una secca vittoria su Denver per 4-1 in cui KG viaggiò a una media di quasi 25 punti e 15 rimbalzi a partita. Ma il capolavoro arrivò in semifinale di conference contro i Kings di Webber, Divac e Peja Stojakovic. La serie era stata tiratissima, entrambe le squadre erano riuscite a vincere sul terreno nemico portando il risultato sul 2-2. Erano seguite poi una vittoria in casa a testa per arrivare a quell’ultimo atto andato in scena il 19 maggio 2004 al Target Center di Minneapolis.

Anche gara 7 fu teatralmente “drammatica”. Le squadre erano arrivate pressoché appaiate all’inizio dell’ultimo quarto (62-60 per Minnesota) e anche durante il quarto periodo l’equilibrio era perdurato, con i T-Wolves che non riuscivano mai a dare lo strappo finale. Con poco più di 5 minuti ancora da giocare e Minnesota sopra di 4 la palla finì, per l’ennesima volta, nelle mani di KG. Ricezione in isolamento dietro la linea da tre punti, tre palleggi di avvicinamento, partenza da guardia, crossover contro Webber, schiacciata.

Il tabellino finale, alla voce Kevin Garnett, reciterà 32 punti, 21 rimbalzi e 5 stoppate, comprensivo dei 10 punti consecutivi segnati nell’ultimo quarto giocato, per metà, nel classico ruolo di un uomo di 211 cm: playmaker.

Nella fine il principio

La vittoria con i Kings, però, fu paradossalmente l’inizio della fine dell’esperienza di Garnett in maglia T-Wolves. La ragione non fu tanto la successiva finale di conference dove Minnesota, praticamente priva di Cassell, si schiantò contro il ciclone Kobe & Shaq, ma il fatto che quella squadra iniziò da lì in poi a sfaldarsi lentamente. Tra malcontenti di spogliatoio, mancati rinnovi contrattuali, infortuni e folli scelte dirigenziali, le successive tre stagioni di KG ai T-Wolves furono un lento quanto inesorabile addio, nonostante le performance individuali di Garnett fossero rimaste d’élite.

La squadra, però, non era in alcun modo competitiva, il supporting cast dato a KG oltremodo scadente e, circostanza ancora più pesante, Garnett era arrivato al dodicesimo anno in NBA con un rotondo 0 alla voce “titoli vinti”. Giocatore forte, fortissimo, straordinario ma… perdente. Questa era ormai l’etichetta affibbiata al trentunenne nativo di Greenville.

Era arrivato quindi il momento di muoversi di nuovo e, al di là dei rispettivi scambi di colpe e accuse tra KG e la proprietà dei T-Wolves sulla responsabilità di quell’addio, il 31 luglio 2007 Garnett diventò un giocatore dei Boston Celtics. Ai T-Wolves andarono Al Jefferson, Ryan Gomes, Sebastian Telfair, Gerald Green, Theo Ratliff e due prime scelte al Draft.

Sette giocatori per uno solo, record nella storia NBA, perché non si smette mai di essere The Revolution. Per Minnesota fu la fine di un’epoca irripetibile. Per i Celtics si aprì, invece, la stagione dei nuovi Big Three con il compito di riportare a Boston quell’anello che ormai mancava dal 1986 e dal meraviglioso trio formato da Bird, McHale e Parish.

Anything is possibile

In questa frase urlata nel microfono di Michele Tafoya il 17 giugno del 2008, al termine di gara-6 delle Finals contro i Lakers, sta tutta l’essenza di KG. Quella di un uomo che in un solo momento si era tolto dalle spalle il peso di una vita complicata, di dodici anni di sconfitte e di frustrazioni per un traguardo che non arrivava mai. Quella vittoria del titolo NBA, poi, era giunta nel modo perfetto, contro l’avversario storico, contro la squadra del suo idolo d’infanzia Magic Johnson.

L’anello era arrivato al termine di una stagione che era sembrata una cavalcata trionfale. Dal famoso Patto di Roma fino al titolo era stato un percorso lungo, durante il quale KG aveva anche modificato il suo modo di giocare per essere più funzionale alla squadra e per poter permettere la convivenza con gli altri due futuri Hall of Famer come Pierce e Allen. «Diciamo tutti che vinceremo l’anello, ma a cosa siamo disposti a rinunciare?» questa era stata la domanda di KG agli altri due Big Three e a coach Rivers durante il primo allenamento.

La risposta era arrivata prima durante le 66 vittorie in regular season e poi durante i playoff e le faticose serie vinte contro Hawks, Cavs, Pistons e Lakers. Da parte sua, KG in quella stagione rinunciò a parte della propria produzione offensiva (prendendo meno tiri, ma con il 53.9% dal campo che rappresentava il massimo in carriera) per diventare il vero totem della difesa. Arrivare al ferro, strappare un rimbalzo, riuscire anche solo a prendere la linea di fondo era diventato un problema per gli attacchi avversari quando in campo c’era Garnett. In poche parole Miglior Difensore dell’Anno, a mani bassissime, in quell’Ubuntu che rappresentava la filosofia di quei Celtics. Lasciare da parte i traguardi e i successi personali per arrivare alla vittoria comune.

«I just knocked the bully out», Garnett aveva appena sconfitto il suo demone, quel compagno fastidioso che lo accompagnava fin da piccolo: la sconfitta. Finalmente le cose sembravano andare per il verso giusto. Anche l’anno successivo iniziò alla grande, sia per Garnett che per i Celtics. Con un record di squadra vicino all’80% di vittorie e praticamente in doppia doppia di media, KG venne nuovamente convocato per l’All-Star Game.

Tutto si modificò a metà febbraio quando, nella trasferta di Salt Lake City contro i Jazz, Garnett subì una distorsione al tendine del ginocchio destro che lo costrinse a saltare praticamente tutto il resto della stagione nonché a operarsi per la ripulitura di alcuni frammenti ossei a fine anno. Quell’infortunio sarà condizionante anche per le stagioni a seguire. Quell’anno i Celtics, senza KG, uscirono al secondo turno contro i Magic che poi sarebbero andati in finale NBA.

Il resto, lo conoscete, è storia recente: una nuova finale contro i Lakers persa in gara-7 (preceduta da due serie mostruose di KG contro Miami e Cleveland), il quasi miracolo del 2012 quando Boston andò a un LeBron James in versione Kaiju dal giocarsi un’altra finale NBA totalmente insperata, il passaggio ai Nets insieme a Pierce e Terry, il ritorno ai T-Wolves. Il cerchio che si è chiuso.

"Forever in my heart...".

In estate Garnett ha firmato un nuovo contratto biennale con Minnesota, dove avrà il compito di fare da chioccia a un gruppo che non manca certo di talento, ma difetta di tutto quello in cui KG eccelle(va): esperienza, comprensione del gioco, difesa, leadership, coesione di squadra. Dice che per convincerlo ancora a giocare, il compianto Flip Saunders gli deve aver messo qualcosa di strano nel bicchiere. Aveva detto la stessa stessa cosa quattro anni fa riferendosi a Danny Ainge. Che dire… Same old Garnett.

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