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Ganso il giovane
19 lug 2016
19 lug 2016
Finalmente, a ventisei anni, Ganso si confronterà con il calcio europeo. Non vediamo l’ora.
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A metà del quindicesimo secolo due arcivescovi spagnoli, Alonso de Fonseca “Il Vecchio” e Alonso de Fonseca “Il Giovane”, il primo zio del secondo, si trovarono a dover fronteggiare una delicata girandola di assegnazioni di incarichi apostolici. Al giovane venne affidato l’Arcivescovato di Santiago de Compostela in un momento storico di grande fermenti rivoluzionari in Galizia: facendo leva (furbescamente) sulla sua inesperienza, “Il Giovane” riuscì a convincere lo zio a sostituirlo a Nord, rilevando dalle sue mani, perciò, il soglio vescovile di Siviglia.

 

Ristabilito l’ordine, il Vecchio tornò in Andalusia ma dovette scontrarsi con la ritrosia del nipote a restituirgli l’incarico (ci sarebbe riuscito solo tempo dopo e grazie all’intervento di una bolla papale). Nella maniera assurda in cui sono assurde tutte le cose più scontate di questo mondo, è da quest’avvenimento storico che prende origine il proverbio spagnolo

(chi va via da Siviglia perde la poltrona) che noi conosciamo con dinamiche geografiche alterate, con Roma al posto di Siviglia. Un proverbio che Jorge Sampaoli, da quando si è installato al Sánchez-Pizjuán, sta semanticamente

: se vuoi un posto, oggi, devi

a Siviglia.

 



 

Ganso, probabilmente, la faccenda degli arcivescovi da cui è nato il proverbio neppure la conosce, magari la imparerà durante il suo soggiorno all’ombra della Giralda. Ne interpreterà le pieghe più profonde, scoprirà che è una storia che in un certo senso racconta la sfacciataggine dei giovani che usano trucchetti per passarti avanti (ma anche che il tempo è galantuomo e riesce sempre a farsi giustizia da sé). Per ora, con quella sua aria spaesata, dà l’impressione che saprebbe a malapena identificare, su una mappa, le coordinate geografiche dell’Andalusia. Nondimeno è da questa città, da quest’epoca storica che sta vivendo il club andaluso sotto la luce di un nuovo punto di riferimento tecnico che ha deciso (o forse dovremmo dire

) di tentare, finalmente, l’approccio con il calcio al di là dell’Atlantico.

 

La storia di Ganso, come quelle di tutti noi, non è mai stata

la storia di Ganso: ci sono una ridda di incroci, corrispondenze, trait d’union e ritornelli che ne hanno costellato lo svolgersi, a volte lubrificandone gli ingranaggi narrativi, altre volte inceppandoli.

 

Uno dei punti in cui la storia di Paulo Henrique torna spesso è il Gremio di Porto Alegre.

 



 

 



 

Nel 2010 Ganso ha ventuno anni. Non è giovane in maniera svergognata, come lo sono molti giocatori la cui eccezionale abilità calcistica viene scambiata per una generica capacità di essere formidabili (e come tale venduta al mercato delle pulci delle Sensazioni). È tesserato per il Santos (la squadra paulista che vive di rimando i fasti del passaggio della Cometa Pelè anche a un cinquantennio di distanza) già da un lustro, cioè da quando Giovanni, ex calciatore del

, lo ha scovato in una via neppure troppo malfamata di Ananindeua, conglomerato abitativo da quattrocentocinquantamila abitanti nella provincia di Belém, stato del Parà.

 

La partita cui si riferisce il frame qui sopra è una gara di Copa do Brasil, giocata a maggio sul campo del Gremio. Con i suoi già in vantaggio per due reti a zero, Ganso riceve da Wesley una palla filtrante praticamente sul dischetto del rigore. Nell’atteggiamento con cui approccia la palla c’è fin troppa levità, quasi leggerezza. Controlla con troppa sicurezza di sé, così tanta da sbagliare leggermente il tocco: la palla prende una direzione imprevista, non voluta, ma Ganso è bravo nel frapporsi tra la sfera e il portiere - si possono intuire tutti i movimenti e i tentennamenti sulle gambe, il fruscio della maglia mentre le braccia si allargano per cercare l’equilibrio.

 

Quello che segue è un momento di stupore non raro nella narrativa di Ganso, che io chiamerò Epifania-Ganso: il piede disegna una parabola insensata, con una curva altissima e acutissima, che termina la sua corsa sulla traversa.  In questa azione, simbolicamente, c’è già tutto Ganso: la lentezza, snervante per l’occhio di chi osserva, con cui si muove, e però pure la genialità di un tocco inatteso, imprevedibile, anzi inconcepibile. C'è il controllo difficoltoso, per colpa sua, certo; e poi l’inconcludenza dell’azione, per colpa (anche) della sorte.

 

https://www.youtube.com/watch?v=TgDTOTRkur4

 

Un’altra costante nella vita calcistica di Ganso è il suo essersi trovato nell’infausta situazione di chi deve sempre specchiarsi nella carriera di qualcun altro. A partire dal suo

Neymar.

 

Nonostante abbiano tre anni di differenza, Ganso e Neymar hanno fatto il loro esordio per il Santos in contemporanea, nella stagione 2009. Per gli impallinati di calcio sudamericano erano una buona ragione per svegliarsi con le occhiaie dopo aver fatto nottata a guardarli. Erano giovani e strafottenti: magari gli mancavano alcuni concetti tattici e quasi completamente la nozione di squadra, per essere davvero in grado di erigersi a leader naturali. E a nessuno sarebbe passato per la testa di scegliere Neymar come il migliore della coppia.

 

In campo avevano un’intesa quasi telepatica, e la stima reciproca che due bravi aspiranti cantanti mettono in mostra quando si presentano insieme alla selezione di un talent-show e ignorano la possibilità che possano trovarsi davanti a una scelta che sia

l’uno per l’altro.  La coppia sembrava indivisibile perché complementare: uno veloce e strabordante, impetuoso; l’altro tutto pausa e tocchi,

, dotato di quella cerebralità che hanno i geni o i guru. Neymar correva, dribblava, sfidava: Ganso controllava, immaginava, creava dal nulla. Neymar chiamava Ganso: “Zidane 2”.

 

I

erano, già sei anni fa, la personificazione del concetto di hype: ne parlavano praticamente tutti, anche chi li aveva visti giocare pochissimo - e l’esotismo spesso alimenta il mito. Nel 2010 sono troppo giovani per essere parte della spedizione verdeoro ai mondiali sudafricani, o almeno così la pensa Dunga che convoca solo Robinho, il più esperto e rodato del trio delle meraviglie del Santos. Mano Menezes, che subentra a Dunga dopo la disfatta africana, sente di potersi fidare delle sensazioni e lascia spazio a Neymar e Ganso in un’amichevole agostana contro gli Stati Uniti. Paulo Enrique è considerato l’erede naturale di Gerson e Didì: contro gli yankee sembra avere sui piedi le stesse fiammelle che tremolavano sulle teste degli Apostoli.

 

https://www.youtube.com/watch?v=_beLtYdNZw0

 

Quindici giorni più tardi, però, durante una partita del Brasilerao contro il Gremio,

, Ganso avverte qualcosa alla gamba sinistra mentre sta correndo verso l’area per ricevere un passaggio di Neymar. In qualche modo somiglia all’azione culminata col tiro sulla traversa di qualche mese prima, ma anche stavolta qualcosa va storto; ancora di più, ancora prima.

 

https://www.youtube.com/watch?v=iTUPWBQRr3g

 

Ganso si accascia a terra, la diagnosi confermerà la rottura del legamento crociato sinistro con interessamento del menisco. È il punto di inflessione più enorme che la sua carriera avrebbe conosciuto, la voragine di disillusione che risucchia aspettative e potenzialità all’interno di un buco nero, e rischia di trasformare la storia di Paulo Enrique in un feuilleton ciclostilato simile a milioni d’altri, ascrivibile al genere Promessa Non Mantenuta.

 

Durante i sei mesi di stop i club europei che stavano facendo a gara per assicurarselo virano gli interessi su Neymar, su Danilo, su Rafael, su tutti gli altri gioielli del Santos.

 

Quando nel 2011 vince la Libertadores non è già più lui, le quotazioni sono in crollo verticale, e Neymar gli ha rubato del tutto la scena.

 

 



 

Ganso non ha un’acconciatura fotogenica, non ha il sorriso di una popstar né indossa scarpini fluorescenti con le parole Gioia e Osare ricamati su. Non è un arrampicatore, sembra aver perso anche quella fame di affermazione ad ogni costo che dovrebbe essere caratteristica - o meglio, istintiva - nei giovanissimi prospetti del sud del mondo.

 

Insieme a Rafael e Neymar Ganso partecipa a un cammeo, all’apice della sua carriera, nella teen novela Malhaçao. Neymar sembra uno del casting, forse addirittura più a suo agio di molte comparse, mentre in Paulo Henrique traspare un disagio papabile. Anche la scena che li vede protagonisti, col senno di poi, possiamo in qualche modo assumerla come significativa - predittiva? - di quello che sarebbe stato il futuro divergente dei due.

 

https://www.youtube.com/watch?v=nr2OmTI0Clo



La sensazione di essere stato in qualche modo

, tipica dei timidi e delle primedonne in egual misura, lo porterà presto a desiderare di cambiare aria, ma non troppo: sceglierà di rimanere in Brasile, di non tentare il salto nel vuoto europeo. Per paura, o forse per un’inibizione autoimposta.

 

La timidezza è una componente caratteriale che cozza con l’archetipo del calciatore di successo che abbiamo forgiato nell’immaginario collettivo. Anche sotto questo punto di vista Ganso è una mosca bianca. I capisaldi che influenzano la sua adolescenza sono lontani da quelli che per cliché attribuiremmo al Giovane Talento Brasiliano: la sua storia è eccezionale nella misura in cui è ordinaria (laddove l’ordinario invece è quello di un’eccezionale povertà, di un disagio diffuso). Il contesto in cui cresce è quello di una borghesia medio-impiegatizia, il padre lavora per la Petrobras e la madre di sforza di dargli un’educazione che tracimi rispetto e studiosità.

 

Il barrio Ciudade Nova II non è una favela e

, il palcoscenico della sua educazione sentimentale per il pallone, con i cestini della nettezza urbana ordinati e qualche bouganville rigogliosa nel patio delle case col tetto basso, non sembra per niente peggiore di molti altri angoli reconditi di Sudamerica maledetto.

 

Ganso è un ragazzo eminentemente timido, riservato, quasi schivo. Una sfumatura caratteriale che  però rischia di creare un discreto cortocircuito emozionale se si considera che uno degli aspetti più caratterizzanti del suo ruolo in campo finisce in una maniera o nell’altra per averci a che fare con il concetto di

.

 

Per indole, o forse solo per la contingenza del suo stile di gioco, Ganso si trova spesso a

gli avversari. Magari lo fa senza volerlo, forse prova anche dei sensi di colpa immantinenti, ma è inevitabile: l’umiliazione è il grado di misura del mismatch tecnico tra due avversari.

 

Se dovessimo scegliere di immortalare su un disco magnetico da sotterrare a ventimila chilometri di profondità alcune istantanee illustrative di chi fosse Paulo Enrique Ganso a beneficio dei nostri discendenti che dopo l’apocalisse termonucleare avessero voglia di andarsi a guardare cos’è che erano bravi a fare i loro antenati nel ventunesimo secolo, probabilmente saremmo spinti a scegliere alcune sue

, tipo:

 

1) quella in cui si fa beffe, con un doppio sombrero, di un difensore dell’Emelec

 



 

2) quella in cui

un Adriano sovrappeso (questa è buona anche per far capire

)

 



 

3) quella in cui si fa musa ispiratrice di una parola bellissima come



 

https://www.youtube.com/watch?v=AqduRbbXTis

4) quella in cui scherza con l’intera difesa del Botafogo (ottima come didascalia del verbo

usato in maniera transitiva)

 

https://www.youtube.com/watch?v=bZ6U3dTDFx8

5) quella in cui balla un tango con il centrocampo del River Plate (e spiega cos’è un tango meglio di molte elucubrazioni argentine)

 



 

Al di là del fatto che anche quando è impegnato in capolavori artistici così assurdi riesca a mantenere la caratteristica fondante d’apparire per niente

(Ganso è probabilmente l’unico autore di

che sembrano proiettate al rallentatore, e che invece si manifestano

a quella velocità, in tempo reale), Ganso sembra

, negli istanti successivi all’umiliazione, di essersi reso protagonista di un gesto così fondamentalmente

, quasi sgarbato e irrispettoso.

 

Forse è l’unico calciatore al mondo che la sera, dopo una partita in cui ha umiliato qualcuno, si mette a letto, ci ripensa e

.

 

 



 

Ganso non si limita a gettare kerosene sul sacro fuoco della genialità: spesso si spacca in quattro per farsi trovare pronto in ogni zona del campo, pronto a ricevere il pallone, dare il là a un’azione, imprimere accelerazioni o decelerazioni di ritmo, sembra impegnato in una gara a premi con il

«Ganso è un organizzatore di gioco, che sa leggere la gara nell’ottica del bene della squadra: decide il ritmo, ogni suo passaggio è funzionale; è un giocatore difficile da trovare», dice di lui Menezes.

 

La Copa América del 2011 sembra la sua grande occasione: eppure il contesto finisce per destabilizzarne quantomeno la percezione dall’esterno. Non si capisce bene dov’è che un calciatore come lui andasse collocato, in una squadra che tra pony da spettacolo (Neymar) e bestie da soma (Ramires, Lucas Leiva, Elano) conosceva poche mezze misure.

 

Anche nella percezione dello spettatore il talento di Ganso è meno evidente. Il giorno in cui troveremo video come questo qui sotto con il titolo «Passaggio di Ganso» anziché «Gol di Neymar» sarà sempre troppo tardi.

 

https://www.youtube.com/watch?v=uVt1p60KyWk

 

La colpa della mancata definitiva esplosione di Ganso, probabilmente, è stata solo dei

che lo hanno visto protagonista. Fiorettista in un periodo in cui andavano di gran moda gli sciabolatori, Ganso finirà per fare panchina alle Olimpiadi di Londra del 2012 dietro Oscar perché

era il tipo di centrocampista che il calcio del nuovo millennio chiedeva, sapeva riconoscere, apprezzava: ipercinetico, rapido, disciplinato tatticamente.

 

Ganso, invece, è sempre stato

in tutto: anche nella paradossale conformazione delle porzioni di proprietà del suo cartellino, la cui fetta maggiore, superiore al 50%, è appannaggio di un fondo di investimento, il DIS, che lo ha costretto - contrattualmente - a rinunciare più volte all’Europa e a una permanenza in Brasile. Una stasi che se da una parte gli ha impedito di elevare il suo valore estrinseco, dall’altra lo ha messo nelle condizioni di potersi forgiare nel ferro un’armatura inscalfibile di mito.

 

(Per farvi capire la peculiare qualità del feticcio di Ganso ecco due video esplicativi: quello in cui

e quello in cui

, dando evidenza visiva al suo essere anti-atletico, il contrario quasi dello sforzo fisico).

 

 



 

Il calcio sudamericano non è mai stato (e mai potrà diventare) lo stessa gioco praticato in Europa. Non c’è solidità sistemica, i giovani non fanno in tempo a esordire in prima squadra che vengono subito venduti: il

è un propulsore naturale - e produttore seriale - di next big things che solo una volta su dieci riescono a imporsi come tali. Le squadre, nell’impossibilità di una progettualità tattica non dico a lungo, ma almeno a medio raggio, si trasformano in tante cattedrali interrotte a metà dell’opera: alcune riescono ad acquisire il fascino di una Sagrada Familia, altre restano mura di cemento in una sperduta campagna di provincia.

 

Paradossalmente è proprio questa lacunosità tattica a favorire la presenza di molti spazi

, di una diffusa inattività compassata nella quale giocatori capaci di controllare i dettagli, anziché essere

su tutto il gioco, riescono ad esercitare un’arte minore: in quell’arte, Ganso è un

assoluto.

 



 

Una filosofia di gioco che disconosce il difensivismo, unita a una certa leggerezza fisica, hanno fatto sì che Ganso, a lungo, venisse considerato

: un calciatore capace di brillare solo in squadre cucitegli intorno.

 

Certo, con gli anni il suo stile si è molto evoluto, il che non significa che l’asticella dell’hype si sia abbassata: semplicemente, è diventato un altro tipo di calciatore. Nello specifico è riuscito a imprimere allo status di Giocatore Fuori Dal Tempo, nato in una generazione destinata a scansarlo per manifesta inconciliabilità, un’inerzia evolutiva che rappresenta in maniera puntuale e precisa il macroconcetto di

. Ha imparato a mettere la sua tecnica esuberante al servizio della squadra, e limato quella che poteva sembrare

(potenzialmente deleteria nei pressi dell’area avversaria) arretrando sostanzialmente il baricentro della sua presenza in campo.

 

Da trequartista - ammesso che il ruolo sia mutuabile ai canoni anche estetici del calcio brasiliano - Ganso si è via via trasformato in centrocampista centrale, e non è un mistero - anzi, è forse l’aspetto più affascinante dell’evoluzione del ruolo di Ganso - che Sampaoli voglia fare di lui il suo «Pirlo», o forse il suo Valdivia: un accentratore di gioco, basso all’occorenza, in un sistema che fa della pressione alta un marchio di fabbrica, capace di inventare, far circolare palla, verticalizzare.

 



 

Ganso ha firmato il contratto che lo legherà al Siviglia mentre la squadra si trova in ritiro a Orlando, in Florida, un luogo che ha forti legami con il São Paulo, ovvero con il suo passato recente, e che ha rischiato di essere il suo presente e futuro neppure un anno fa, quando l’arrivo di Ganso nella MLS sembrava nel novero delle potenzialità (e crocevia di due opposte visioni che vedevano il trasferimento in America come la definitiva tomba delle ambizioni o un’irripetibile opportunità di resurrezione, a seconda del livello di fiducia che si voleva riporre nell’uomo e nel calciatore).

 

Monchi, il DS degli andalusi, ha dichiarato «I giocatori che stanno arrivando sono diversi da quelli che avremmo cercato con Unai Emery allenatore. Sampaoli propone un gioco in cui il possesso di palla è fondamentale: e noi è quel tipo di giocatori che stiamo cercando. Se l’allenatore vuole puntare su bravi portatori io devo cercargli giocatori che sappiano come si pratica il possesso di palla, non è che per forza devo andare a scovare atleti prestanti fisicamente». Non l’ha fatto riferendosi direttamente a Ganso, ma forse pensando a lui, questo sì.

 

Con Ganso arrivano in Europa tutti i suoi pregi (una qualità tecnica di livello superiore) e i suoi difetti (principalmente quello di essere considerato un’eterna promessa mai sbocciata). Forse è arrivato il momento di capire se quell’

(che è il significato in portoghese della parola

) dal volo incerto che vedevamo tentennare dall’altra parte dell’Oceano, casomai, non fosse già un cigno, e non ce ne eravamo accorti. Almeno, non del tutto.

 

 

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