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Il miglior cestista italiano di sempre
11 set 2025
Nonostante gli infortuni e le scelte sbagliate.
(articolo)
18 min
(copertina)
IMAGO / Panoramic by PsnewZ
(copertina) IMAGO / Panoramic by PsnewZ
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C’è un'affermazione che deve essere fatta subito e cioè che Danilo Gallinari è il miglior cestista italiano di sempre, almeno fino a quando non arriverà qualcuno più forte di lui.

È un'affermazione che è in conflitto con la storia, che scarta di lato Dino Meneghin, un nome che potrebbe tranquillamente fare una generazione più vecchia della mia, capace di dominare in Italia e in Europa come pochi altri nella storia, o Carlton Myers, che nella nostra Serie A di basket ha semplicemente fatto le onde per un decennio, e che con la Nazionale ha vinto (come Meneghin prima di lui).

È un'affermazione radicata nel presente, il presente globalizzato in cui anche i giocatori europei hanno iniziato a confrontarsi con la NBA, riscrivendo totalmente la geografia di questo sport, ma su cui qualcuno potrebbe ancora discutere: non è forse meglio Andrea Bargnani, il cui talento, come aggettivo puro, non è stato pareggiato da nessuno in Italia? O ancora: non è forse meglio Marco Belinelli, che in NBA un titolo l’ha vinto, più una gara del tiro da 3 punti e, sostanzialmente, è stato più solido, costante, affidabile?

Sono tutte ragioni su cui si può discutere, e stiamo parlando di un titolo onorifico che lascia il tempo che trova, ma, magari di poco, la realtà resta questa: Danilo Gallinari è il miglior giocatore di basket italiano di sempre: semplicemente perché è quello che ha giocato meglio, più a lungo, con più talento, con più capacità di fare canestro, di reinventarsi in base al tempo che passa, all’evoluzione del gioco e agli infortuni.

È un’affermazione che va ripetuta dopo l’Europeo, l’ultimo torneo con la Nazionale del Gallo, un torneo per lui difficile, fino a un finale che poteva essere eroico e non lo è stato contro la Slovenia. Gallinari è arrivato in ritiro tardi, per la scelta di giocare a Portorico certo, e magari - se davvero la sua ambizione era arrivare pronto all’Europeo - avrebbe potuto scegliere di tornare in Serie A, ma come ha giustamente sottolineato anche lui, ora la sua vita è lì, oltreoceano.

Nei pochi minuti in campo agli Europei è apparso stanco - stanco perché ha 37 anni, ma anche, probabilmente, per le fatiche degli ultimi mesi con i Vaqueros de Bayamon (23 partite tra il 10 giugno e il 12 agosto) a cui aggiungere lo spavento per la moglie morsa da uno squalo. Stanco e anche stravolto, o stralunato, con gli occhi grandi e i capelli scompigliati, è apparso mentre ritirava lo strano omaggio della FIBA, una di quelle mappe di tiro rese celebri da Kirk Goldsberry.

La sua intenzione sembra quella di continuare ancora almeno un anno, come veterano in NBA vorrebbe lui (difficile) o comunque da qualche parte, anche se non lo vedremo a Milano, forse l’unico posto per finire in maniera romantica una carriera che di romantico ha avuto poco. Ma già oggi possiamo tessere le fila, guardare ai numeri che ci raccontano di un atleta che è stato giocatore vero in NBA per più di 10 anni: 828 partite giocate, tra regular season e playoff, 12.250 punti segnati, 3882 rimbalzi, 1547 assist, tutto con percentuali da attaccante di alto livello (qui se volete affondare tra i numeri NBA di Gallinari).

Per alcune stagioni è stato, magari non sui 48 minuti ma in maniera significativa, la prima opzione offensiva di una squadra NBA, un traguardo che, da solo, basta a giustificare quanto detto sopra, visto che solo Bargnani ha avuto lo stesso privilegio, e con risultati di squadra inferiori (Meneghin era stato scelto alla 182 dagli Atlanta Hawks nel Draft 1970 e chissà cosa sarebbe cambiato se fosse andato, ma come detto erano altri tempi). Andando oltre i numeri, poi, la sensazione di tutti quelli che lo hanno visto giocare è che, come attaccante, avesse un potenziale anche più alto di quello che abbiamo visto. Certo, massimizzare il talento fa parte degli obblighi di un atleta, ma pochi sono stati più sfortunati di lui: un misto di infortuni al momento sbagliato, occasioni perse per colpe sue e non sue, e bivi sbagliati.

UNA CRONISTORIA SFORTUNATA IN NBA
Si parte dall'inizio, perché già dall’inizio il Gallo è stato qualcosa di speciale. Quando è spuntato fuori con l’Olimpia Milano come figlio di Vittorio, era davvero troppo giovane per essere il fulcro di un attacco di Serie A, ma già allora si vedevano i lampi di un giocatore diverso da tutti gli altri. È quel mix di centimetri, atletismo, mani morbide e una certa creatività che, negli anni, gli ha permesso di segnare anche dei canestri veramente incredibili, fuori dal mondo.

Un talento che lo ha catapultato molto presto in NBA, scelto alla sesta dai New York Knicks al Draft 2008, ancora prima di compiere 20 anni. Mentre sale sul palco per stringere la mano a Stern e ricevere il cappellino è subissato dai fischi del Madison Square Garden. Impassibile, il Gallo va da Stephen A. Smith per l’intervista di rito e dice: «Mi piace vincere e giocare duro, permetterò alla squadra di vincere».

Il suo anno da rookie lo mette davanti al suo più grande limite: gli infortuni. Un lungo stop, non il primo, dovuto a un problema alla schiena, concluso con una operazione delicata, che ne complica l’ambientamento in una realtà distante ancora anni luce dal basket FIBA. Che impatto può aver avuto su di lui, così giovane, e sullo sviluppo futuro come giocatore quell’infortunio e quelli prima? Sui giornali italiani, in quegli anni, in cui la NBA è ancora un posto lontano, a essere messa sotto accusa è la cultura sportiva americana: troppi carichi di lavoro, troppe partite, troppo stress (“un'attenzione particolare che forse alla NBA non si poteva chiedere? Di certo quello che gli sta succedendo lo si poteva ampiamente prevedere” scrivono sul Corriere della Sera).

In panchina a New York c’è Mike D’Antoni, ex compagno di squadra del padre, e una città che sogna di tornare grande dopo l’arrivo di Stoudemire. Anche per le disastrate scelte del passato, Danilo il secondo anno trasforma i fischi dei tifosi in applausi, dimostrandosi una buona presa per i Knicks. Per D'Antoni: «Gallinari è il più grande tiratore che abbia mai visto ed è il giocatore con maggior intelligenza cestistica di questa squadra». Non è una delle prime opzioni offensive della squadra, ma gioca bene, è giovane, italiano e smaliziato in campo. Lo avrebbe raccontato lui stesso anni dopo: «A New York stavo giocando bene, i tifosi mi amavano, la città era impazzita e appena uscivo mi trovavo circondato dai paparazzi». Poi, all’improvviso, viene inserito nello scambio che porta Carmelo Anthony a New York e lui a Denver. Sempre secondo il suo racconto D’Antoni e il GM non volevano inserirlo nello scambio, ma era stato James Dolan a dare il via.

Obiettivamente è difficile criticare quello scambio, o almeno il suo potenziale, visto che se proprio vogliamo fare un po’ di dietrologia si può dire che per i Knicks sia stato un errore, ma per Gallinari vuol dire ricominciare sostanzialmente da capo. Una nuova città, una nuova franchigia, un nuovo modo di giocare. Non c’è stata solo sfortuna in questa storia, però: l'incontro con George Karl è una piccola benedizione. In una squadra giovane e strafottente, Gallinari inizia a diventare davvero uno dei giocatori da guardare in NBA. Al ritorno al Madison Square Garden da avversario segna 37 punti, di cui 11 nel supplementare per vincere la partita.

Per chi in quegli anni si alzava la mattina per vedere i risultati NBA o la notte rimaneva in piedi per guardare le partite degli italiani, quello è stato il momento in cui abbiamo pensato che sì, un italiano sarebbe potuto entrare nell’élite della Lega, partecipare agli All-Star Weekend, dire la sua nei playoff. Mentre la parabola di Bargnani stava rapidamente volgendo verso la mediocrità, nel 2012/13 Denver vince 57 partite (terzo record a Ovest), Karl è l’allenatore dell’anno e Gallinari, a 24 anni, è il giocatore con più potenziale della franchigia. Quella è una squadra particolare: in cinque chiudono la stagione in doppia cifra e le responsabilità offensive sono davvero divise in maniera armonica, ma si capisce presto che l’italiano è pronto a prendersi un posto privilegiato.

Poco prima dei playoff, però, Gallinari si rompe per la prima volta in carriera il crociato. A oltre 10 anni di distanza è inutile mettersi a discutere, a dire cosa sarebbe successo se avesse evitato quella penetrazione a battere dal palleggio Dirk Nowitzki, col ginocchio che salta malamente nel momento del secondo passo. È però inevitabilmente la più grande sliding door della sua carriera.

Quando torna in campo, dopo uno stop lunghissimo, non c’è più Karl in panchina e a Gallinari tocca il ruolo scomodo di primo violino in una squadra disfunzionale. Vederlo avere il pallone in attacco rimane un’esperienza divertente, e si torna a parlare di lui come di un possibile All Star, ma intanto la NBA sta cambiando e lui, mi sembra, sia rimasto incastrato in un contesto che non lo ha spinto a dare di più.

Lo racconta bene Zach Lowe in questo articolo ai tempi di Grantland: “Danilo Gallinari è ancora qui, uno dei pochi sopravvissuti ai Denver Nuggets del 2012-13, la squadra da 57 vittorie che sembrava poter sfidare il dogma NBA secondo cui serve una superstar top-10 per competere. La sua rottura del crociato, poco prima dei playoff, fu l’evento che fece crollare quel progetto. Da allora Gallinari è diventato il simbolo delle difficoltà di una franchigia intrappolata nella mediocrità”. Eppure in questo contesto Lowe non può non esaltare ciò che lo rende speciale: “In campo, Gallinari è un tiratore capace di segnare canestri difficili e al tempo stesso un giocatore versatile che può creare vantaggi come portatore di palla o come bloccante. La sua abilità nel pick and roll e la possibilità di punire i cambi difensivi lo rendono prezioso”.

Se sai giocare così, in NBA, quantomeno, vieni pagato bene. Nell’estate del 2017 firma un contratto da 65 milioni di dollari in tre anni con i Los Angeles Clippers, che ne fanno lo sportivo italiano più pagato al mondo. In Italia è una scelta che fa storcere il naso: Gallinari che sceglie i soldi invece della possibilità di vincere un titolo, al contrario di quello che ha fatto Belinelli. Con lui, per tutta la carriera, il tema dei soldi sarà centrale, fino ad arrivare al vergognoso racconto di Pupo - vergognoso per come viene trattata la famiglia di Gallinari.

Una lettura più tecnica e tattica del suo approdo ai Clippers avrebbe evidenziato come una franchigia ambiziosa, o comunque in un mercato ricco, nel momento di passaggio tra il basket di Lob City e uno più moderno, lo avesse scelto come il perfetto prototipo di ala piccola per aprire il campo. Un giocatore con taglia, tiro da fuori e playmaking secondario, l’unico italiano di sempre ad avere queste caratteristiche e per questo a essere pagato così bene.

Il risultato è la stagione 2018/19 di Danilo (dopo una prima martoriata dagli infortuni), che è senza mezzi termini la migliore di sempre di un italiano, nel miglior campionato di basket al mondo. Come già a Denver, Gallinari è il facilitatore di un attacco spettacolare ed efficiente: segna 19.8 punti a partita, soprattutto tira da 3 con il 43.3% (5° migliore della Lega) e i liberi con oltre il 90%.

Ora che le sto mettendo in fila, tutte queste stagioni, queste squadre costruite e smantellate con all’interno Gallinari mi sembra raccontino qualcosa. Succede anche ai Clippers: il premio per la miglior stagione della sua vita è quello di essere scambiato all’interno di un pacchetto che viaggia in direzione Oklahoma in cambio di Paul George. È lo scambio che svolta la storia recente dei Thunder, dato che insieme a Gallinari ci sono Shai Gilgeous-Alexander (oggi top 5 in NBA a voler essere larghi) e 5 prime scelte, che Sam Presti trasformerà in oro.

La stagione, a suo modo, è un successo: partiti come squadra da smantellare alla prima occasione, intorno a una strana strutturazione con tre guardie, Gallinari da 4 e Steven Adams da 5, i Thunder fanno anche meglio della stagione precedente, con il quinto posto che vale i playoff nella bolla di Orlando, dove vengono eliminati in gara-7 dai Rockets con un finale di partita surreale.

In estate Gallinari è free agent e firma con gli Atlanta Hawks. Il Gallo sceglie di nuovo il contratto più remunerativo possibile (quasi 62 milioni in tre anni) e non una contender. È di nuovo l’attaccamento ai soldi che gli viene rinfacciato dall’Italia - Gallinari agli Atlanta Hawks, super contratto da 61,5 milioni di dollari per 3 anni (ma nessuna prospettiva di titolo) è uno dei titoli, Gallinari sceglie Atlanta sarà più ricco ma senza titoli è un altro pescando a caso - con una morale che funziona bene dal divano. In una lega in cui il posto giusto per competere per il titolo è difficile da trovare se non ti chiami LeBron James, è la prassi cercare il miglior contratto possibile, e poi il resto si vede.

Con gli Hawks, comunque, raggiunge il miglior risultato della sua carriera NBA (finali di Conference). In gara-7 delle semifinali contro Philadelphia fa una delle giocate più ricordate della sua carriera, stranamente difensiva, rubando il pallone decisivo a Embiid prima di andare a schiacciare il canestro della vittoria.

A 33 anni, e con tanti infortuni alle spalle, Gallinari riesce ad adattarsi all’evoluzione del gioco, diventando un role player di lusso, soprattutto grazie alle sue abilità al tiro da fuori, sempre più preziose. Una capacità che gli vale, finalmente, la chiamata da una contender: i Boston Celtics.

LE DELUSIONI IN AZZURRO
È questo il momento in cui la carriera in NBA di Gallinari e quella in azzurro, fino a quel momento due rette parallele, si incontrano. Nell’estate dopo la firma con Boston, Gallinari è in campo contro la Georgia, per le qualificazioni mondiali. In una maniera sinistramente simile alla prima volta, mentre prova una penetrazione in corsa, si rompe di nuovo il legamento crociato del ginocchio sinistro.

È, possiamo dirlo, la fine della sua carriera ad alto livello. Non solo è costretto a saltare l’Europeo, quello in cui l’Italia verrà eliminata nei quarti, al supplementare contro la Francia, coi due liberi di Fontecchio per vincere la partita e la prospettiva di incontrare la Polonia in semifinale, ma con Boston non giocherà mai una partita, finendo per perdere un posto sicuro nelle rotazioni di una squadra che l’anno successivo il titolo lo avrebbe vinto. Sarebbe stata quella la certificazione necessaria per considerarlo il miglior italiano di sempre nel basket?

Per paradosso, possiamo dire, che la rottura del crociato con la Nazionale ha pacificato un po’ il rapporto di Gallinari con il nostro Paese. Come detto, forse perché più “continuo” di Bargnani e più “talentuoso” di Belinelli, abbiamo visto in lui il possibile leader della generazione d’oro, quella dei ragazzi NBA, la “Nazionale più forte di sempre”, per citare Petrucci, ma non lo è mai stato, e forse non glielo abbiamo perdonato, come non gli abbiamo perdonato la ricerca dei soldi, il volersi costruire la vita negli Stati Uniti e una qual certa timidezza che è sembrata sfociare nell’arroganza.

In ogni caso il bilancio di quella squadra lo conosciamo ed è impietoso: mai superati i quarti di finale, mai una partita per le medaglie, soltanto occasioni mancate e tanti rimpianti. Ci sono state partite in cui è sembrato inevitabile che con quel talento qualcosa avremmo vinto. La più citata, ovviamente, è quella con la Spagna agli Europei del 2015. È strano rivederla ora e pensare che fosse solo una partita del girone, contro la squadra che poi quel torneo lo avrebbe vinto. In quella partita Gallinari è, semplicemente, eccezionale, una prestazione impreziosita dalla famosa telecronaca di Flavio Tranquillo.

La colpa più grande di Gallinari: il pugno rifilato a Kok in una balneare amichevole contro l’Olanda nell’estate del 2017. È senza dubbio l’errore più grande della carriera, arrivato nel momento peggiore possibile. Dopo la sconfitta contro la Lituania nel 2015, Gallinari aveva alzato la voce, dicendo «mi sono rotto le palle di perdere», poi era arrivata la tragica sconfitta nel Preolimpico a Torino contro la Croazia (forse la delusione più grande di tutte, mancando una Olimpiade piuttosto aperta come possibilità). L’Europeo del 2017, allora, poteva essere un po’ l’ultima occasione di riscatto di quella generazione, ma viene frustrata dal gesto assurdo di Gallinari, visto che nel tirare il pugno si frattura la mano, ed è costretto a saltare il torneo.

Se il tutto è abbastanza surreale di suo, quello che succede dopo racconta bene il rapporto tra Gallinari e l’Italia. In un’intervista al Corriere della Sera, fatta per provare a scusarsi, gli chiedono se forse non sia stato provocato da Kok perché «lei è un giocatore Nba da 20 e passa milioni di dollari l'anno e che qualche invidia in un avversario che si guadagna da vivere nel Rapla Korvpalliklubi è inevitabile?». Kok scrive sui social: “Fate in modo di farvi picchiare da uno che notoriamente ha problemi di infortuni”. Messina lo scarica, addossandogli la colpa di un eventuale fallimento agli Europei ai microfoni.

Qualche mese dopo, da Los Angeles, Gallinari racconterà che non aveva sentito «né il presidente Petrucci, né i compagni. Sinceramente mi aspettavo di sentire qualcuno, in particolare dalla federazione. Io mi sarei comportato in modo diverso. Lo sanno tutti che ho commesso un errore. Del gruppo dell’Europeo ha chiamato solo il Beli, e mi sono sentito via mail con Messina». Una frase abbastanza indicativa di cosa fosse quel gruppo, per colpe di Danilo, dei suoi compagni, ma anche di allenatori e federazione.

La storia di Gallinari con gli Europei, il torneo per Nazionali dove avremmo avuto più possibilità di andare a medaglia, è abbastanza indicativa: ha saltato quelli del 2007, 2009, 2013, 2017 e 2022 per infortunio (2007, 2009 e 2017 per infortuni avuti con la Nazionale). L’unica estate in Nazionale ad aver saltato per scelta è quella del 2010, dopo l’infortunio alla schiena che aveva fatto temere per la sua carriera, mentre nel Preolimpico del 2021 era assente perché impegnato negli stessi giorni nei Playoff NBA.

Ma è tutta la sua carriera ad essere così: è stato scambiato da New York nel momento in cui aveva iniziato a diventare un giocatore importante, si è rotto il crociato con Denver a una settimana dalla fine della stagione regolare, in attesa di giocare dei playoff da protagonista. È stato scambiato dai Clippers dopo la miglior stagione della carriera, si è rotto di nuovo il crociato poche settimane dopo aver firmato per Boston, quando per la prima volta in carriera aveva la possibilità di giocare per un titolo. Il fatto che poi, questo benedetto titolo, sia arrivato in questa strana appendice di carriera, a Porto Rico, da MVP del campionato, aggiunge magari un finale meno amaro, ma sicuramente più malinconico a tutta la sua carriera.

Tutte queste io le ho chiamate sfortune, ma esiste quella regola per cui la fortuna aiuta gli audaci. Gallinari si è trovato in quel limbo per un giocatore di basket: non abbastanza forte da avere una squadra costruita a sua immagine e somiglianza, non abbastanza scarso da accettare un ruolo di comprimario. Lui, di suo, non ha fatto nulla per provare a cambiare questo destino. Ha giocato bene a basket, ha guadagnato molti soldi, ha superato gli infortuni senza piangersi addosso. Uno qualunque di questi bivi poteva cambiargli la carriera, magari scegliere di rimanere a Denver e vincere insieme a Jokic per dirne uno. Ma la storia non si fa con i se.

Quella di Gallinari, a mio avviso, rimane la storia del miglior giocatore di basket italiano di sempre. Non il più carismatico, o simpatico, o capace di superare più ostacoli. Quelli sono stati gli altri. Lui è stato il più forte, quello che sapeva giocare meglio a basket. So che è poco per giustificare ancora la mia affermazione, ma ci sono due singole azioni che lo spiegano bene.

La prima è questo assist dietro la schiena per Faried. Gallinari, 210 centimetri di essere umano, che su un pallone volante, mentre deve tenersi in equilibrio per non uscire dal campo, ha la visione, il tempismo e la precisione per vedere e servire il taglio del compagno con una giocata fuori dal mondo.

Il secondo è questo irreale circus shot, letteralmente il tiro che si fa al circo, per vincere una partita contro Milwaukee. Non è l’unico segnato in carriera, e si può dire che questo strano senso acrobatico è stata una delle sue specialità, una capacità innata di sentire il canestro, più che vederlo.

Shot of the century lo definisce il telecronista con forse un po’ troppo entusiasmo. 

Mi accorgo che per celebrare Gallinari sono dovuto andare a spulciare due giocate nel fondo della mia memoria di spettatore. È strano, personalmente non sono mai stato un suo fan sfegatato, come lo sono stato invece per Bargnani, su cui avevo riposto tutte le mie speranze di tifoso e in cui, per origini e modo di essere, mi sentivo più vicino. Ho iniziato ad apprezzare il suo basket in parte perché è impossibile non farlo, in parte proprio perché mi sembra che la sua grandezza non sia stata davvero riconosciuta. Forse da lui per primo, per carattere e anche per caratteristiche. Come ha detto Melli, uno che spesso usa le parole giuste, il Gallo: «è stato uno dei giocatori italiani più forti di sempre. Sfortunato con gli infortuni, ma deve essere orgoglioso della sua carriera. lo lo sono di aver condiviso con lui spogliatoio e campo. Gli faccio un grande in bocca al lupo per il prossimo capitolo della sua vita».

Il basket è il secondo sport più praticato in Italia, ma non esiste una grande cultura a riguardo se non nella nicchia dei grandi appassionati o in generale non trova spazio nel discorso pubblico. L'Italia poi ha sempre avuto difficoltà come "movimento" e la storia di Gallinari mi sembra confermarlo. Se avesse avuto un Paese più vicino e disponibile, sarebbe cambiato qualcosa?

La carriera di Danilo intanto volge al termine e in azzurro non lo vedremo più. Da parte mia sento che un ringraziamento sia dovuto: magari non avrà avuto il successo che meritava ma almeno è stato divertente.

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