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Gallinari e Boston sono fatti l’uno per l’altro
12 lug 2022
I Celtics hanno chiuso in fretta il mercato e puntano anche sull’azzurro per arrivare al titolo.
(articolo)
8 min
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Al netto delle eventuali simpatie o antipatie e delle notevoli attese con cui era iniziata, a ormai 14 anni di distanza dallo sbarco negli Stati Uniti la carriera di Danilo Gallinari rimane una delle più difficili da valutare nel suo complesso. Gli infortuni di varia entità, purtroppo, hanno rappresentato l’unica variabile costante di un percorso che l’ha portato a spasso per la lega, passando da squadre in piena ricostruzione ad altre con l’etichetta di possibili outsider e incontrando soddisfazioni più sul versante economico che su quello agonistico. Di certo c’è che al ragazzo di Graffignana era fin qui mancata l’occasione di giocare per il titolo – obiettivo immateriale, aleatorio, relegato alla categoria dei sogni. Un sogno che ora, alla soglia dei 34 anni e della 15° stagione in NBA, appare infine realizzabile.

Capacità adattive

Se si considera l’impresa degli Atlanta Hawks arrivati alle finali di conference nel 2021 per ciò che è, ovvero un exploit frutto in gran parte di errori altrui, la cosa più vicina a una contender in cui a Gallinari è capitato di giocare sono forse stati i Denver Nuggets della stagione 2012-13. Era un Gallinari parecchio diverso da quello di oggi, molto vicino allo status di All-Star e motore di una squadra che in pochi a Ovest avrebbero gradito incrociare durante i playoff.

Tra le altre cose combinate da Gallinari nella stagione 2012-13: una tripla in faccia a Kevin Garnett.

Il terribile infortunio ai legamenti del ginocchio sinistro maturato il 5 aprile del 2013 alterava la parabola di quei Nuggets e ancor più quella di Gallinari. È innegabile infatti come dal rientro, avvenuto dopo oltre 18 mesi di stop, l’ex Olimpia abbia dovuto modificare il proprio repertorio offensivo, fattosi via via meno dinamico, e accettare un ruolo sempre più marginale nelle logiche delle squadre in cui ha militato. A Gallinari va riconosciuto il merito di essersi reinventato come role player di lusso, puntando sulla capacità di eccellere in alcuni aspetti del gioco, soprattutto in fase realizzativa, adattandosi al contempo all’evoluzione vissuta dalla pallacanestro durante l’ultimo decennio. E sono proprio le capacità adattive ad aver regalato a Gallinari una seconda parte di carriera ad alti livelli, coronata ora dalla possibilità di vestire la maglia dei Boston Celtics e di provare a mettersi al dito un anello di campione NBA.

Cosa significa per Gallinari

L’accordo biennale da 13.3 milioni di dollari – che comprende una player option per il secondo anno, porta aperta verso un contratto più remunerativo o un eventuale ritorno anticipato in Europa – sottoscritto con Boston dopo il passaggio, in verità solo virtuale, a San Antonio all’interno della trade che ha visto Dejounte Murry prendere la direzione di Atlanta è stato accolto con un entusiasmo tutto sommato comprensibile. L’impressione è infatti che le caratteristiche tecniche di Gallinari corrispondano in maniera pressoché perfetta alle esigenze dei Celtics. Al nuovo arrivato, con ogni probabilità, verrà chiesto di partire dalla panchina e fare ciò che sa fare meglio: crearsi un tiro; andare in lunetta (dove Gallinari realizza con l’87.7% in carriera, specialità nella quale i Celtics sono risultati 24° durante la scorsa regular season e ottavi ai playoff, e risorsa che avrebbe fatto comodo nei momenti in cui l’attacco biancoverde s’inceppava); agire da playmaker secondario; segnare sugli scarichi (41.9% da 3 nella scorsa stagione). Già a Oklahoma City e poi ad Atlanta Gallinari ha dimostrato di sapersi rendere utile anche con minutaggi ridotti e gravitando spesso lontano dalla palla, ora dovrà mettersi al servizio di coach Ime Udoka e sfruttare al meglio l’intesa con i nuovi compagni.

Non è difficile immaginarsi Gallinari giocare in pick & pop con uno dei tanti portatori di palla dei Celtics, a partire dal neo arrivato Malcolm Brogdon con cui dovrebbe condividere i compiti realizzativi nella second unit.

Considerata anche la partenza di Daniel Theis, a Boston Gallinari dovrebbe agire di fatto da terzo lungo dietro a Robert Williams e Al Horford, entrambi giocatori con cui sulla carta ha un buon grado di compatibilità, dando alla squadra un apporto che l’altro lungo a roster, Grant Williams, non può fornire a causa di limiti tecnici e di taglia fisica.

Altra specialità che Gallinari ha sviluppato nella seconda metà di carriera: il gioco spalle a canestro, sfruttando in altro modo l’abilità innata di andare a prendersi un fallo.

La doppia dimensione offensiva, perimetrale e interna, assicurata da Gallinari potrebbe rivelarsi fondamentale per alleviare la tendenza manifestata dai Celtics a sovraccaricare Jayson Tatum e Jaylen Brown – rispettivamente 28.6% e 26.5% di usage rate durante gli ultimi playoff - nella gestione dei possessi a difesa schierata, oltre ad aprire il campo per le penetrazioni al ferro delle due stelle designate. Con le 1.426 triple segnate in carriera, Gallinari è il 5° miglior realizzatore da tre di sempre tra i giocatori dai 208 centimetri in su, dietro solo a leggende come Dirk Nowitzki e Kevin Durant e a specialisti come Rashard Lewis e Peja Stojakovic. Al di là di qualche passaggio a vuoto, la sua efficacia dalla lunga distanza è fuori discussione e i Celtics, noni per triple tentate a partita la scorsa stagione e solo 14° per percentuale realizzativa, potrebbero trarne notevole beneficio. Dal punto di vista difensivo, poi, Smart e compagni sembrano essere ampiamente in grado di compensare i limiti che Gallinari si porta dietro da tempo, ampliati da una mobilità laterale sempre più scarsa e dal peso degli anni e degli infortuni accumulati. Magari nei turni più avanzati dei playoff può diventare difficile tenerlo in campo, ma per la regular season e i primi turni a Est non c’è dubbio che sia una presenza sostenibile e, con l’intelligenza che lo contraddistingue, sicuramente non negativa.

In definitiva, il ruolo di Gallinari a Boston non dovrebbe essere poi così diverso rispetto a quello ricoperto ad Atlanta, solo all’interno di un contesto di una squadra molto migliore, con meccanismi ben più definiti e che si presenterà ai nastri di partenza con lo sguardo fisso verso il traguardo di un pronto ritorno alle Finals. Traguardo che l’ex Knicks e Clippers potrebbe aiutare a raggiungere offrendo la sua ormai notevole esperienza a un gruppo che, a dispetto dei ripetuti e lunghi viaggi ai playoff e con la lodevole eccezione di Horford, rimane comunque piuttosto giovane (25.8 anni di età media nel roster della scorsa stagione, sotto la media della lega di 26.2). Anche perché l’azzurro non è l’unico veterano arrivato in Massachusetts quest’estate.

Cosa significa per i Celtics

Per i Celtics la firma di Gallinari arriva dopo quella di Brogdon, altro elemento in teoria perfetto per colmare le lacune emerse in alcune fasi dei playoff e risultate fatali contro gli Warriors. Brogdon porta con sé buone doti di playmaking, ma è anche in grado di crearsi un tiro da solo. Come per Gallinari, l’ex Bucks e Pacers appare in grado di coabitare un po' con tutti i compagni, condividendo il backcourt con Marcus Smart in un quintetto più da corsa oppure come ballhandler principale in sostituzione del fresco difensore dell’anno, che spesso è alle prese con acciacchi vari.

Tutto il repertorio di Malcom Brogdon nella stagione che gli è valsa un’estensione contrattuale da 45 milioni di dollari.

A proposito di difesa: Brogdon, sia per attitudine che per caratteristiche fisiche, si configura come un incastro eccellente nei meccanismi dei Celtics. Certo, il suo rendimento nella metà campo amica è crollato dopo il passaggio a Indiana – da 102.7 a 111.1 di defensive rating nell’arco di due stagioni – ma si tratta di un crollo imputabile in gran parte alla diversa consistenza dei compagni di squadra e agli infortuni che lo hanno bersagliato. Visto anche il prezzo pagato per portarlo a Boston e il robusto impegno economico assunto, è proprio la condizione fisica del rookie dell’anno 2017 a rappresentare in prospettiva l’incognita maggiore. Nelle tre stagioni trascorse a Indianapolis Brogdon ha saltato un totale di 81 partite, mettendo in mostra una fragilità che è quasi ossimoro della sua solidità dentro e fuori dal parquet. Un ruolo e un minutaggio più ridotti potrebbero aiutarlo a gestire meglio i carichi di lavoro, o almeno questa è la speranza in casa biancoverde.

Il rischio legato alla tenuta fisica, d’altronde, vale anche per Gallinari ed è un elemento imprescindibile quando si decide di scommettere su giocatori con alle spalle un lungo percorso in NBA e tutto il logorio a esso connaturato. Nondimeno, puntando sui due veterani i Celtics sembrano aver fatto le scelte giuste per rinforzarsi senza stravolgere ruoli e gerarchie, aggiungendo elementi che per esperienza e acume cestistico potrebbero risultare decisivi nell’evitare quei cali di lucidità costati cari alla squadra nelle ultime finali.

L’idea è che all’interno di un mercato NBA alquanto caotico, i Celtics abbiano individuato in fretta le loro priorità e, chiudendo lo scambio coi Pacers prima e firmando Gallinari poi, si siano portati avanti rispetto ad una concorrenza che, in buona parte, a luglio inoltrato rimane appesa alle velleità dei transfughi di Brooklyn. Oggi come oggi è impossibile dire se i due nuovi innesti saranno sufficienti per arrivare a sollevare quel Larry O’Brien Trophy sfuggito d’un soffio il mese scorso, ma nel frattempo Brad Stevens e Ime Udoka si sono regalati un’estate libera da interrogativi in cui lavorare su un roster già definito. Per quella che durante tutta la seconda parte della stagione 2021-22 è stata per distacco la miglior squadra della lega, ma che viceversa aveva trascorso i primi mesi alla faticosa ricerca di un’identità, chiarezza e stabilità potrebbero rivelarsi vantaggi non da poco.

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