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Foto di Lionel Bonaventure / Getty Images
Calcio Andrea Costanzo 27 luglio 2018 7'

Come la politica francese ha utilizzato la vittoria al Mondiale

Venti anni dopo la vittoria del primo Mondiale, la Francia torna a specchiarsi nella sua nazionale.

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Venerdì 13 Luglio, a meno di 48 ore dalla finale di Mosca, Blaise Matuidi incontra i giornalisti nell’ultima conferenza stampa prima della finale di Coppa del Mondo. Un cronista chiede al centrocampista della Juventus cosa significhi per lui giocare in una Nazionale composta da giocatori dalle origini differenti. «Penso che le nostre diversità siano l’immagine del nostro magnifico paese» risponde Matuidi. «Siamo fieri di rappresentare la Francia. Per noi è una sensazione straordinaria».

 

Provate ad immaginare la faccia di un calciatore brasiliano, inglese, argentino o italiano mentre cerca di rispondere a una domanda simile prima di una finale Mondiale. Sarebbe impossibile farlo restando sereni, senza andare nel panico. Per Matuidi, invece, non c’è nulla di strano, perché sa che l’Équipe de France è vista da almeno vent’anni come un’espressione del sentimento identitario francese, che non deve solo vincere, ma deve farlo rispettando i valori dell’universalismo repubblicano francese. Dal 1998 la nazionale francese non è solo una questione sportiva, ma anche politica.

 

Un Paese cambiato

La Francia è cambiata molto nei vent’anni che separano il trionfo di Saint Denis dalla seconda stella del Lužniki. Anzitutto, oggi nessun francese si scandalizza più se il Front National accede al ballottaggio per le Presidenziali; nel 2002, invece, quando Jean Marie Le Pen sfidò Chirac per il posto all’Eliseo, il Paese si mobilitò per frenare l’avanzata dell’estrema destra. Gli elettori del Partito Socialista, escluso al primo turno, votarono Chirac convinti che si trattasse di un evento eccezionale.

 

Nel 2018, invece, il FN è il secondo partito del paese, con un sostegno in costante crescita (nel 2002 incassò 5 milioni di preferenze, mentre al secondo turno delle Presidenziali del 2017 il partito guidato da Marine Le Pen ha raccolto più di 10 milioni di voti) e un ruolo di primo piano nello scenario politico nazionale.

 

Che cosa è cambiato rispetto ad allora? Cosa è successo nel frattempo alla Francia “Black, Blanc, Beur”, all’idea di una società aperta e multiculturale di cui l’Équipe de France campione del Mondo nel ’98 divenne l’immagine vincente?

 

Per molti, quel Paese ideale non è mai esistito. È stata un’invenzione, una montatura creata ad arte dalla politica per convincere i francesi di aver finalmente chiuso i conti con il proprio passato coloniale. Più concretamente, il Mondiale non ha eliminato le contraddizioni che, quotidianamente, emergevano dalle banlieues, le periferie. Se fino a qualche anno fa, però, gli abitanti delle periferie erano semplicemente considerati racaille, feccia da tenere confinata ai limiti della città per mantenere il decoro pubblico, gli attentati terroristici del 2015 hanno complicato le cose.

 

La percezione generale è cambiata e le banlieues sono diventate anche il rifugio in cui i terroristi progettavano i loro attacchi. L’insicurezza provocata dalle stragi ha messo ancora più in crisi l’idea di integrazione “alla francese”. D’altra parte, però, la minaccia terroristica ha stretto ancora più saldamente gran parte dei francesi attorno alla bandiera tricolore.

 

E niente più del calcio può far sentire unita una nazione grande e complessa come la Francia. Per questo, già François Hollande in tempi recenti aveva utilizzato i Bleus come strumento per ridare fiducia ai francesi: nel 2016, alla vigilia dell’Europeo giocato in casa, l’allora presidente comunicò ai giocatori che il Paese si trovava di fronte ad una minaccia mai affrontata prima, e che doveva essere fatto di tutto per permettere alla Francia di ritrovare la speranza nel futuro.

 

«Siamo stati feriti dagli attentati» disse Hollande. «Ora però – attraverso gli Europei – dobbiamo ritrovare la gioia, la felicità».

 

Come hanno usato questo Mondiale i politici?

Ma quella Francia ha perso l’Europeo di casa, in finale contro il Portogallo, e Macron, alla vigilia dei Mondiali in Russia, ha augurato un buon torneo ai giocatori dicendo: «Io e il Paese crediamo in voi. Siete tra coloro che aiutano i francesi a ritrovare la fiducia nel futuro». Più esplicito di così, non poteva essere.

 

Il discorso di Macron prima della partenza della squadra per la Russia.

 

Ai Bleus viene di nuovo affidata una responsabilità enorme, che va aldilà dell’aspetto puramente sportivo. La politica, che non riesce a risolvere da sola i problemi del Paese, chiede ancora una volta aiuto alla Nazionale. Un’abitudine pericolosa, come ha ricordato l’ex Presidente François Hollande in un’intervista rilasciata al quotidiano Le Monde poco prima dell’inizio dei Mondiali: «Negli ultimi vent’anni l’Équipe de France ha fatto da cassa di risonanza per le questioni identitarie francesi. Per uscire da questa situazione, che ha creato problemi sia alla Nazionale sia alla nostra società, credo sia necessario che la politica si allontani il più possibile dalla squadra».

 

Macron, che ad Hollande ha sempre disubbidito, non lo ascolta neanche questa volta. Nel suo discorso a Clairefontaine, infatti, il Presidente non fa nulla per passare inosservato. «Nelle prossime settimane», prevede, «ci potranno essere dei momenti difficili ma non dovrete mai dimenticare tre valori cardinali: l’unione, il merito e la fiducia in voi stessi. Spero di ritrovarvi il 10 luglio (Macron aveva deciso di volare in Russia solo per le semifinali, ndr) e prima della nostra festa nazionale (il 14 luglio, ndr) per riportare la Coppa a casa».

 

Il Presidente è a suo agio tra Lloris e compagni. A differenza di Chirac, che nel ’98 in occasione della Coppa del Mondo, finse un interesse mai provato prima per il calcio, Macron ha persino giocato come terzino sinistro nella squadra dell’École Nationale d’Administration (l’istituto superiore in cui ha studiato). È un grande tifoso dell’Olympique Marsiglia e i suoi idoli di gioventù sono stati Jean Pierre Papin e Chris Waddle, anche se sulla sua effettiva conoscenza del mondo del calcio ci sono dei dubbi, visto che dopo il Mondiale ha chiesto a Mbappé , tifoso del PSG, di giocare un giorno a Marsiglia.

 

Macron mentre si allena alla Commanderie con i giocatori dell’OM.

 

Il 10 giugno Macron è addirittura ospite del programma calcistico più seguito in Francia – Teléfoot – primo ed unico Presidente ad essere invitato in quarant’anni di trasmissione.

 

Seduto sulla poltrona solitamente occupata da Bixente Lizarazu, Macron suggerisce ai ragazzi francesi di seguire l’esempio di Kylian Mbappé. L’attaccante del PSG, cresciuto a Bondy, nella periferia parigina, è cresciuto all’INF di Clairefontaine, il centro federale più prestigioso del paese ed è il risultato perfetto del modello socio-sportivo dei pôles espoirs, in cui il Presidente crede fermamente. «I soldi sono importanti» dice «ma la formazione dei calciatori rimane l’elemento chiave».

 

Per questo in occasione dei festeggiamenti all’Eliseo per il ritorno dei Bleus campioni del mondo sono stati invitati 1.500 bambini di cui molti provenienti dalle scuole d’origine dei giocatori: da Suresnes come N’Golo Kanté, da Roissy-en-Brie comme Paul Pogba e da Bondy proprio come Mbappé.

 

Sul palco, Macron indica i bambini e i loro entraîneurs, gli allenatori. «Non vi dimenticate mai da dove venite» dice rivolgendosi ai giocatori. «Voi arrivate dai club che vi hanno formato grazie all’impegno di questi tecnici».

 

È un omaggio alle migliaia di persone che, attraverso il calcio, svolgono una funzione sociale nelle banlieues più difficili del paese. È anche grazie a questi allenatori di periferia infatti che Macron, sceso negli spogliatoio del Lužniki dopo la vittoria in finale contro la Croazia, può dire a Deschamps che «ci sono 66 milioni di francesi che vi hanno guardato. Siete un esempio per i più giovani».

 

Senza le scuole calcio che hanno cresciuto Pogba, Matuidi e Areola, il Primo Ministro Edouard Philippe non potrebbe dire che «questi giocatori rendono orgoglioso il paese»; e il sindaco di Parigi Anne Hidalgo non potrebbe dichiarare che si tratta di «una vittoria che fa bene alla Francia intera. È bello vedere di nuovo tutti questi sorrisi e questa gente che festeggia nelle strade».

 

In questo clima di euforia generale, persino il nemico giurato delle banlieues, Nicolas Sarkozy, twitta una foto con Mbappé dicendosi «senza parole per l’emozione».

 

Il n’y a pas assez de mots pour exprimer l’émotion que vous nous avez procurée. Celle de toute une Nation 🇫🇷🇫🇷🇫🇷🇫🇷 ! Bravo et merci l’@equipedefrance. – NS #fiersdetrebleus pic.twitter.com/uPYyNaQ2op

— Nicolas Sarkozy (@NicolasSarkozy) 15 luglio 2018

 

Marine Le Pen sembra quasi costretta a far sapere di essere «molto contenta per la vittoria della Francia contro una bella e coraggiosa Croazia», affrettandosi però a denunciare i disordini provocati dai “soliti” teppisti durante i festeggiamenti, chiedendo di «assumere i provvedimenti più severi contro questi atteggiamenti anti-francesi».

 

La Francia del futuro

Nonostante Le Pen sia convinta del contrario, la multietnicità della società francese è ormai un dato di fatto e le trasformazioni che negli ultimi vent’anni hanno cambiato il Paese si riflettono inevitabilmente sulla Nazionale.

 

In Russia, i leader dello spogliatoio sono stati Pogba, Mandanda e Umtiti. Una differenza sostanziale rispetto al 1998, quando furono Deschamps, Blanc e Barthez a guidare i compagni. È impossibile paragonare i silenzi di Zidane agli show di Pogba, padrone di casa in sala stampa come all’Eliseo. La politica, che in passato ha usato questi ragazzi per i propri interessi, oggi ha meno possibilità di farlo, perché i giocatori hanno una consapevolezza diversa del loro ruolo all’interno della società.

 

Nel 1998 i social network non esistevano e i calciatori erano nelle mani di chi ne voleva sfruttare l’immagine o le parole. Nel caso di Zidane vale la pena ricordare che quella di proiettare il suo volto sull’Arc de Triomphe dopo la vittoria fu una trovata dell’Adidas. Ora invece è il Presidente della Repubblica a stare al gioco di Mendy che gli chiede di dabbare.

 

I giocatori francesi campioni del mondo nel 2018 sono cresciuti in un paese diverso rispetto a quello del loro allenatore. Le loro origini, senza essere rinnegate – al punto da festeggiare con canzoni e balli africaneggianti dopo le partite – non sono più un tema rilevante, e i partiti che lo negano sembrano portare avanti una lotta di retroguardia destinata alla sconfitta. E se qualcuno semplifica superficialmente la loro complessità, oggi sono i giocatori stessi a correggerli, come ha fatto proprio Mendy.

 

🇫🇷 Pogba
🇫🇷 Tolisso
🇫🇷 Mendy
🇫🇷 Umtiti
🇫🇷 Rami
🇫🇷 Fekir
🇫🇷 Kimpembe
🇫🇷 N’Zonzi
🇫🇷 Matuidi
🇫🇷 Mandanda
🇫🇷 Sidibe
🇫🇷 Kante
🇫🇷 Lloris
🇫🇷 Hernández
🇫🇷 Dembele
🇫🇷 Mbappe
🇫🇷 Griezmann
🇫🇷 Giroud
🇫🇷 Lemar

fixed 😉

— Benjamin Mendy ⭐️⭐️ (@benmendy23) 17 luglio 2018

 

Macron ha capito meglio degli altri che il settore calcistico è quello più integrato della società francese, come sostiene Simon Kuper. È l’ambito in cui, tra l’altro, ha deciso di puntare, investendo nelle società sportive parte dei fondi destinati all’educazione. Il presidente sa che il pallone è una delle poche cose che unisce Parigi alla sua periferia, con le squadre della capitale costrette ad andare a giocare nelle banlieues perché è lì che si trovano quasi tutti i campi da gioco.

 

Come dice uno splendido spot che è diventato virale dopo la vittoria di Mosca, è su quei campi che la Francia ha vinto la sua seconda stella. Ed è su quei campi che il calcio, senza l’aiuto della politica, che ha costruito il paese del futuro. L’importante, però, è che quei campi non siano gli unici in cui la parte più svantaggiata della società francese possa investire le proprie speranze. E che il calcio non venga usato per nascondere quei problemi che il pallone, da solo, non può risolvere.

 

 

Tags : franciamondialepolitica

Andrea Costanzo vive e lavora a Torino. Legge molto e sa rispondere a tutte le domande sportive di Trivial Pursuit.

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