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Tommaso Clerici
Chi combatte non perde mai davvero
01 mar 2023
01 mar 2023
Abbiamo parlato con Francesco Lezzi, pugile dalla storia unica.
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Tommaso Clerici
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Negli anni Cinquanta il coach di football americano Henry Russell Sanders pronuncia una frase che passerà alla storia: «Vincere non è importante; è l'unica cosa che conta». Parole che sono state riprese in diverse occasioni nel mondo dello sport, suggerite poi da un collaboratore a Gianpiero Boniperti che le fa diventare lo slogan della Juventus. L'ossessione per la vittoria è il carburante di qualsiasi atleta, ma non solo. I media e il pubblico di oggi non sembrano poter accettare risultati diversi. Chi perde è un fallito, chi vince un eroe; una dicotomia accentuata dai social, dove ognuno può esibire i propri traguardi. In un contesto del genere il rischio è che anche la passione per uno sport, che dovrebbe essere prima di tutto una ricerca del proprio benessere, diventi una mera ricerca della vittoria. Nella boxe la sconfitta è un momento critico perché corrisponde a una netta, implacabile e a volte spietata superiorità sia fisica che psicologica di un atleta su un altro. Chi perde, e magari lo fa incassando un KO o un KO tecnico, è nudo. Ma spesso rappresenta anche un momento di grande crescita personale. Nello sport, insomma, si può guardare oltre il risultato, prendere quanto di buono ha da offrire nella sua natura salvifica. È quello che fa Francesco Lezzi, pugile professionista 33enne, un peso superwelter che registra 43 incontri disputati, 17 vinti, 22 persi (ma solo uno prima del limite), 3 pareggiati e uno finito in No-Contest. Lezzi ha boxato per un totale di 284 round vincendo tre titoli, tra cui il mondiale IBF Youth e combattendo ben quattro volte per il campionato italiano. È soprannominato “il pugile viaggiatore” perché ha solcato i ring di mezza Europa, disputando un match persino in Africa. Lezzi è nato e cresciuto nel quartiere Libertà, a Bari, uno dei più estesi e popolosi della città, nato all'inizio del Novecento a ridosso del centro e chiamato così perché i primi palazzi costruiti erano in stile Liberty. È uno di quei quartieri lasciati morire tra incuria e degrado. “Ciò che non c’è al Libertà è il lavoro” denuncia un articolo, “e senza di quello è difficile poter immaginare il futuro”. La popolazione è composta da spacciatori, immigrati, clochard e malavitosi, ma anche studenti.

Foto da Facebook

La famiglia di Lezzi è di umile estrazione e quando lo raggiungo al telefono me ne parla con grande orgoglio: «I miei genitori gestiscono una piccola bottega di frutta da più di quarant’anni. Spesso lavorano fino a quattordici ore al giorno, soffrendo il freddo d’inverno. Abbiamo sempre avuto un ottimo rapporto, siamo uniti, anche con mia sorella: sono i miei primi tifosi, con mamma ho un’intesa speciale. Da ragazzino ero una testa calda, ho lasciato la scuola dopo qualche mese di liceo. Il contesto in cui sono cresciuto ha avuto subito una certa influenza su di me, frequentavo cattive compagnie e crescevo con esempi negativi da seguire. Ammiravamo i ragazzi più grandi, i delinquenti. Non avevamo alternative, il quartiere non ci offriva nulla di diverso, adesso è cambiato in meglio, ci tengo a dirlo, vado fiero delle mie origini. Incontravi gli amici e ti dicevano: “Fra, ma che fai qua, vieni con noi a rubare”. Non ho commesso reati per fame, ma per la realtà che mi circondava».«Mi hanno arrestato la prima volta a 14 anni, per reati contro il patrimonio, poi è successo di nuovo poco dopo, quando ero sedicenne» racconta Lezzi. «Sono stato mandato al carcere minorile finendo di scontare la pena ai domiciliari, ma non mi è bastato. Mi hanno arrestato anche da maggiorenne con l'accusa di oltraggio a pubblico ufficiale, una cosa del genere. Ero ancora immaturo. Per fortuna sono stati periodi di detenzione brevi, ma quando sei dentro il tempo sembra non passare mai, come se si fermasse l'orologio e la tua vita si bloccasse, mentre invece trascorre inesorabile e ti stai perdendo l'opportunità di godertela». «Dopo l'ultima esperienza carceraria ho capito che avrei dovuto cambiare strada, anche perché sono sempre stato… Qua da noi si dice uno scissionista, nel senso che mi ero fatto furbo e avevo capito in fretta di non voler far parte delle famiglie criminali, mi muovevo da cane sciolto. Lo facevo per i fatti miei. E questo mi ha messo molto in pericolo, stavo diventando fastidioso».

«Mia madre si è sempre battuta per farmi rigare dritto, ma ho cambiato davvero vita quando l’ho deciso io» continua il pugile barese. «Sin da piccolo sentivo una certa energia, come se fossi stato diverso dagli altri. Solo che in quel momento non riuscivo a incanalarla né capivo come poterla sfruttare. Non avrei mai potuto fare un lavoro ordinario e avevo detto addio ai trascorsi da criminale. Però volevo distinguermi, ce lo avevo dentro». Il rapporto di Lezzi con lo sport non è scoccato subito, ci è voluto del tempo e soprattutto il momento giusto: «Ho cominciato a fare boxe da minorenne ma non la prendevo sul serio nonostante fossi promettente. Andavo in palestra ma non m'importava più di tanto. Dopo l’ultima carcerazione ho scelto il pugilato come strada di riscatto, passando a professionista. Era il 2012. Sono diventato un pugile per essere indipendente. Ho trovato la mia libertà nel pugilato».Il percorso di Lezzi inizia con qualche difficoltà, che però non lo abbatte, anzi: «I primi tre match li ho persi, il quarto l'ho pareggiato» spiega. «Ho esordito contro un veterano, un pugile che aveva 29 incontri di cui 25 vinti. Quel match l'ho disputato gratis, non mi hanno neanche pagato. A me interessava solo combattere. Ho perso ai punti ma è stato un grande incontro. Non mi è mai importato delle sconfitte, sin dall'inizio. Ero felice di poter vivere di pugilato, di riuscire a guadagnare con la boxe. Era un sogno ad occhi aperti, finalmente mi sentivo realizzato. Lo facevo più per me che per costruirmi una carriera. Volevo cambiare vita a tutti i costi». «Così ho iniziato a girare l'Italia. Ancora oggi non ho un manager né un promoter di fiducia. Mi trovo i match da solo e i titoli vinti li ho conquistati in eventi che ho organizzato mettendo insieme sponsor e attività locali».Dunque il suo impegno non è solo quello sul ring: «Sono stato costretto a diventare organizzatore perché volevo combattere per un titolo: nel 2015 ero nel momento migliore della mia carriera, avevo 25 anni, così ho disputato e vinto quello mondiale IBF giovanile a Bari. Da quel momento ho cominciato a combattere spesso, mi cercavano da tutta Europa. La mia valigia è sempre pronta anche adesso, ovunque mi chiamino, prendo e vado. Non lo farebbe nessuno, ma io faccio il pugilato perché mi piace, senza troppi calcoli». https://www.youtube.com/watch?v=yO3qyvEGO0U

Lezzi dopo la vittoria del titolo mondiale IBF Youth.

«Sono stato anche a Kiev, nove giorni prima che scoppiasse la guerra. Nel 2021 ero volato ad Abidjan, in Costa d'Avorio, per il titolo intercontinentale IBA, che mi hanno rubato ai punti. Mi hanno dato una borsa importante, una cifra che mio padre ci mette otto mesi a guadagnare. Capisci? Io li ho presi per un combattimento e in più mi sono divertito, sono stato in Africa per 11 giorni. Lì ho visto la povertà, la miseria vera. Non stavo in hotel, ma andavo in giro per la città. Portavo le bottiglie d'acqua ai bambini che giocavano a rotolarsi per terra e con i copertoni delle gomme, in un posto dove c'era uno smog allucinante. Ero a 100 chilometri dal Burkina Faso. Per me la boxe è questo, un'occasione per vivere esperienze che altrimenti non avrei mai potuto fare, di conoscere il mondo».«Ormai sembra che si debba essere sempre vincenti, la sconfitta non è più contemplata» dice. «Invece se ami davvero qualcosa vai avanti a prescindere dai risultati. Oggi riesco a vivere di pugilato, mi ci mantengo, quindi ho già vinto. E vengo da Bari, non dalla culla della boxe, qua se vuoi combattere devi organizzarti per i fatti tuoi». «Molti miei incontri sono state battaglie durissime, ma ho perso solo una volta prima del limite, perché nel professionismo prima della tecnica ci dev'essere l'intelligenza e la furbizia, bisogna essere smaliziati, duri da boxare, scorbutici. Nonostante abbia molti combattimenti alle spalle se mi guardi in faccia ho solo il naso deviato, non ho cicatrici o segni. Non sono un pugile incassatore, altrimenti adesso non riconoscerei neanche Maria, la mia compagna, che è fondamentale per me. Sono uno schermidore, uno che schiva, che a corta distanza lega, ci metto l'esperienza, so fare il mio mestiere. L'ultimo match l'ho fatto a 9 giorni di distanza da un altro incontro, 6 round dopo averne appena fatti 10. Ero stanco – mi hanno chiamato apposta - ma ho accettato e quando ci vado lo faccio sempre per vincere».

Il pugile pugliese viene omaggiato da Luigi De Laurentiis, Presidente del Bari calcio (via Instagram, @francescolezziofficial).

Nel suo futuro, quello che sembrava ormai compromesso ma di cui ha deciso di riprendere il controllo, Lezzi vede ancora tanta boxe: «Ho ancora molto da dare al pugilato, sono integro fisicamente. Vorrei combattere per 12 anni e tagliare la soglia dei 100 match disputati, vincere il titolo italiano, a cui tengo particolarmente, e togliermi nuove soddisfazioni a livello internazionale. Pochi mesi fa ho vinto e poi difeso il titolo intercontinentale UBO, ho tante ambizioni. Anche se non avendo un manager è difficile fare dei programmi. A volte le chiamate arrivano, altre no e devo arrangiarmi. Infatti quando non mi alleno sto al telefono a scrivere, chiamare, mandare email per trovare avversari, match, sponsor». E nel frattempo? «Insegno boxe. Mi piacerebbe aprire una palestra mia per togliere i ragazzi dalla strada, rieducarli grazie allo sport. Vorrei essere un esempio per loro, la guida che è mancata a me. Ma ora è presto, devo ancora combattere. Sto organizzando un grande evento a Bari per maggio dove sarò protagonista con una cintura in palio». Alla fine della nostra telefonata sento tutto l’orgoglio di Lezzi, delle sue scelte e del coraggio che ha avuto rimettendosi in gioco: «Ho voluto cambiare il mio destino, volere è potere, la boxe mi ha salvato e perciò la onoro a prescindere dai risultati. Ne sono convinto: non esistono pugili che vincono o perdono. Esistono solo uomini che combattono. Io sono uno di quelli».

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