“I didn’t know it at the time, but what he was handing me
was a blueprint to follow, and the things I hated him for…
I would become”
Lamar Joseph Odom è nato il 6 novembre 1979 nel Queens da Cathy e Joe. Il padre era un veterano della guerra del Vietnam colpito da una sindrome post-traumatica che lo spinse verso la depressione, la paranoia e, come se non bastasse, il consumo di eroina. La pace nell’appartamento di Far Rockaway, Queens in cui i tre vivevano durò solo pochi anni; i primi nitidi ricordi d’infanzia di Odom riguardano le violenze perpetrate sotto i suoi occhi dal padre verso la madre. Joe entrava e usciva di prigione e, quando non era dietro le sbarre vedeva il figlio circa una volta al mese. Lamar non poteva far altro che provare risentimento per un padre assente e violento, a cui avrebbe voluto fare mille domande circa il suo comportamento: nonostante ciò, il rapporto tra i due non si è mai interrotto.
Nel frattempo, Lamar e la madre Cathy si erano trasferiti in pianta stabile nell’appartamento della nonna materna Mildred, risalendo l’Hudson fino a Kingston, nel Jersey. Mildred è una figura fondamentale nella vita di Lamar e si prenderà cura di lui quando la malattia della madre e i problemi legali del padre lo lasciano solo. Nel 1991 infatti la madre si ammalò di cancro al colon, tanto che alcuni mesi dopo fu costretta a lasciare il suo lavoro di guardia penitenziaria a Rikers Island, una delle più famose e famigerate prigioni al mondo.
L’anno successivo, quando Lamar e Mildred erano appena tornati a casa da una delle tante visite fatte alla madre, il telefono squillò: era l’ospedale, che comunicava loro la morte di Cathy. Lamar allora salì le scale, andò in camera, prese il pallone da basket e si fiondò al campetto senza proferire verbo o versare lacrima, ma sfogando il dolore nell’unico modo che conosceva.
In quel momento Lamar aveva 13 anni e già da diverso tempo il basket riempiva le sue giornate. Se la scuola non gli interessava particolarmente – aveva grossissimi problemi di concentrazione pur non essendogli mai stato diagnosticato alcun disturbo dell’apprendimento – e la vita di tutti i giorni gli risultava insostenibile, dentro il campo da gioco il piccolo Lamar poteva trovare la pace e la gioia di vivere che altrove non avrebbe mai trovato.
Come tantissimi suoi concittadini, Odom mise in mostra le sue abilità al Lincoln Park, dove iniziò a farsi conoscere da avversari e spettatori. Fu lui stesso a convincersi di essere una sorta di reincarnazione di Magic Johnson: non era un attaccante immarcabile, ma ce n’erano pochissimi con la sua tecnica e la sua visione di gioco, specialmente per un ragazzo ben più alto della media per la sua età.
Un altro dei suoi modelli cestistici di Odom era un prodotto della Grande Mela - Lloyd “Swee’ Pea” Daniels - tanto che in giro Lamar iniziò ad essere soprannominato “Little Lloyd”. Curiosamente, e sinistramente, Daniels fu un giocatore tanto talentuoso quanto problematico: una guardia-ala di quasi 210 centimetri con problemi di droga che lo avrebbero condizionato per gran parte della sua carriera, spesa peregrinando nel mondo - anche in Italia in più di un’occasione - tra una squadra all’altra.
Nell’autunno del 1993 Odom si iscrisse alla Christ the King High School, a pochi minuti da casa. Il suo nuovo liceo era attrezzato per dargli un’educazione di livello sia sui banchi che soprattutto dove gli interessava veramente, ovverosia sul parquet. La scuola era infatti inserita in uno dei campionati liceali più difficili d’America, la New York City’s Catholic High School Athletic Association. La squadra era fortissima: insieme a lui c’erano Speedy Claxton, point guard con un discreto futuro in NBA, ed Erick Barkley, con cui Odom divenne molto amico. All’epoca Barkley, che avrebbe poi avuto una modesta carriera in giro per il mondo, era considerato uno dei più forti prospetti liceali del paese: a 9 anni ne mise 48 in faccia a Stephon Marbury, più grande di lui di due anni, e nel suo anno da freshman al liceo venne premiato con il titolo di Mr. Basketball per lo stato di New York.
La crescita di Lamar a cui si è accennato non è solo un concetto metaforico. Tra il 1993 e il 1994 Odom passò da circa 187 centimetri (6 piedi e 2) a 208 centimetri (6 piedi e 9) senza ovviamente perdere le qualità di playmaking che lo hanno reso un giocatore unico nel suo genere. Alla crescita fisica si unì quella delle prestazioni: Odom terminò la sua stagione da sophomore da assoluto protagonista, non arrivando al titolo statale – Christ the King perse in finale contro St. Raymond, un liceo del Bronx – ma finendo comunque la stagione come miglior giocatore del torneo, facendo registrare 36 punti (pareggiato il massimo di punti segnati da un singolo giocatore nella finale del campionato), 10 rimbalzi, 5 stoppate e 4 assist nell’atto finale. Nel frattempo, L.O. aveva portato i suoi talenti nella AAU, il più importante torneo amatoriale per ragazzi: Odom era una delle stelle dei Riverside Church Hawks, una vera e propria corazzata che nel 1996 concluse la stagione con 69 e una sconfitta. Tra i suoi compagni di squadra c’erano molti futuri giocatori NBA: Elton Brand, Ron Artest (entrambi saranno compagni di Odom anche in NBA) ed Erick Barkley.
Una delle squadre AAU più forti di sempre.
Verso la gloria (o quasi)
L’anno da junior di Odom fu trionfale, concluso con la vittoria nel campionato e con il premio di MVP grazie a medie da 17 punti, 11 rimbalzi, 6 assist e 4 stoppate. Ormai era uno dei giovani giocatori più forti di New York, una fama arrivata non solo grazie alle conquiste con la squadra del liceo, ma anche grazie alla scelta della sua nuova squadra di AAU. Gary Charles era un giovane afro-americano che allenava la squadra dei Long Island Panthers; come tanti altri suoi colleghi, aveva messo gli occhi su Lamar, sperando di poterlo portare alla propria corte, nonostante il nativo del Queens avesse già una propria squadra, e anche piuttosto forte. L’asso nella manica di Charles però era la nonna Mildred, la quale avrebbe preferito che suo nipote venisse allenato da un allenatore nero piuttosto che da un bianco. Quando Odom e Charles si presentarono, Lamar consegnò al coach il numero di telefono di sua nonna, come fosse il suo procuratore. Charles non ci mise molto a convincere Mildred che per suo nipote cambiare squadra fosse la cosa giusta, e così fu.
L’organizzazione dei Panthers era di un altro livello anche per la AAU. La squadra, oltre ad essere molto competitiva, era sponsorizzata da Adidas, che forniva circa 15mila dollari all’anno per scarpe, divise e trasferte. Non è un caso che dietro a tutto questo ci fosse Sonny Vaccaro, figura leggendaria dell’abbigliamento sportivo americano, l’uomo che portò Michael Jordan in Nike e che all’epoca lavorava per le tre strisce. Era anche il fondatore del Dapper Dan Roundball Classic, conosciuto come il primo All-Star Game per giocatori delle high school americane, nonché dell’ABCD (Academic Betterment and Career Development) Camp, un evento di esibizione della durata di una settimana a cui negli anni hanno partecipato tutti i migliori prospetti liceali del paese. Odom, ovviamente, non faceva eccezione.
L’unico suo problema era, come abbiamo detto, la scarsa disciplina sui banchi di scuola. Arrivato all’anno da senior, i suoi voti non erano abbastanza buoni da permettergli di giocare nella squadra della scuola e soprattutto le sue assenze dalle lezioni erano diventate ormai la regola. Iniziò così un peregrinare che lo avrebbe portato a cambiare altri due licei, Redemption Christian Academy e St. Thomas Aquinas. In quest’ultima avrebbe incontrato un allenatore fondamentale per la sua crescita personale tanto come uomo che come giocatore: Jerry De Gregorio, coach della squadra del liceo nonché “il mio padre bianco”, per usare le parole dello stesso Odom.
La scelta del college fu ardua: le offerte erano tante, ma Odom aveva ristretto il campo a quelle di UNLV, lo stesso college di Lloyd Daniels, e UConn, con la prima a spuntarla. Per i Runnin’ Rebels però non giocò nemmeno un minuto. Il primo ostacolo che il ragazzo del Queens si trovò ad affrontare fu il SAT, il test accademico che i ragazzi in uscita dal liceo devono fare per poter essere ammessi a qualsiasi college. Come detto Odom non era uno studente modello e per ovviare il test fu effettuato al suo posto da qualcun’altro che, però, non ebbe l’accortezza di mascherare le deficienze nell’apprendimento del ragazzo. Il punteggio fu di 1200, stile Ivy League: decisamente sospetto per uno studente con i suoi trascorsi.
Detto, fatto: alcune settimane dopo, Sports Illustrated pubblicò un articolo che mise in luce le incongruenze del test. Dopo le verifiche del caso, UNLV decise di stracciare la borsa di studio di Odom. Fu un bruttissimo colpo per lui, che si sentì abbandonato dalle persone che più gli erano state vicino in questo percorso verso il professionismo: Gary Charles e Sonny Vaccaro. Le brutte notizie, però, non erano finite.
In preda allo sconforto più totale, decise di prendere in prestito la macchina di un amico di Las Vegas a cui aveva chiesto ospitalità; pur senza patente si avventurò per le strade della città in cerca di compagnia a pagamento. Quando trovò la ragazza che faceva per lui, iniziò a contrattare sul prezzo. A questo punto, la sua interlocutrice rivelò la sua identità: si trattava di una poliziotta sotto copertura, che non poté far altro che arrestarlo per sfruttamento della prostituzione. Sarebbe stato rilasciato su cauzione pagata da David, l’amico e collaboratore di UNLV che lo ospitava.
Il capitolo successivo della sua vita lo portò all’Università di Rhode Island, dove approdò grazie alle amicizie di Gary Charles. Fu sempre grazie a lui ed a Vaccaro che l’università decise di affidare uno dei posti di assistente allenatore a De Gregorio, unica persona fidata che potesse prendersi cura di Lamar. Il suo unico anno a RIU finì per lui con medie di oltre 17 punti, 9 rimbalzi e 3 assist: queste cifre servirono alla squadra per raggiungere il torneo NCAA e a Odom per ottenere i premi di rookie dell’anno della Atlantic 10, nonché quello di Second Team All-Atlantic 10. Il mondo del college gli stava già stretto: il passo successivo fu quello di dichiararsi finalmente per il draft NBA.
Lamar vince sulla sirena il Torneo della Atlantic 10 per i Rams.
Salvatore della franchigia
Le prime cinque squadre a scegliere al Draft 1999 erano Bulls, Grizzlies, Hornets, Clippers e Raptors: Odom aveva già le idee piuttosto chiare circa le proprie preferenze, ma soprattutto sulle squadre che avrebbe voluto a tutti i costi evitare. Con i Bulls Odom aveva un workout programmato, da cui però riuscì a liberarsi con una scusa; mentì all’amico Greg Nunn, suo vecchio compagno di squadra in AAU e membro del suo entourage, dicendogli che il provino era stato cancellato. Jerry Krause e Tim Floyd, rispettivamente GM e coach dei Bulls, lo aspettarono invano all’aeroporto e, dopo che Lamar diede loro buca, virarono le loro attenzioni su altri prospetti. La verità è che Lamar non si sentiva pronto di affrontare le aspettative che indossare la maglia di una Chicago all’inizio della ricostruzione post-Michael Jordan avrebbe inevitabilmente comportato.
A essere onesti, Odom non sarebbe voluto andare in nessuna delle squadre che sceglievano in alto, se fosse dipeso da lui. Alla fine, volente o nolente, i Clippers lo scelsero con la quarta chiamata assoluta per farne il perno del loro ennesimo tentativo di ricostruzione. I Clippers erano una delle peggiori squadre dello sport professionistico americano, sia in campo che nei quadri dirigenziali. La prima scelta assoluta dell’anno precedente, Michael Olowokandi, aveva steccato, e anche nell’anno da rookie di Odom la squadra fu pessima. Le vittorie finali furono solo 15, ma Odom si impose come uno dei migliori prospetti con medie di quasi 17 punti, 8 rimbalzi e 4.2 assist a partita vincendo anche il premio di rookie del mese a novembre. Il suo debutto tra i grandi contro i Seattle Supersonics fu da incorniciare: 30 punti, 12 rimbalzi, 3 assist, 2 stoppate e 2 rubate.
Nelle successive due annate i Clippers migliorarono progressivamente grazie a innesti giovani in grado di contribuire fin da subito: Keyon Dooling, Corey Maggette, Quentin Richardson, il liceale Darius Miles e soprattutto Elton Brand, arrivato via trade da Chicago. L’allenatore era Alvin Gentry, che mise in piedi una squadra di culto che sembrava pronta a prendersi la scena negli anni successivi. Brand, Odom e Miles finirono anche sulla copertina di SLAM, in quella che ancora oggi è una cover storica (tanto da essere stata recentemente ricreata con protagonisti Lou Williams, Montrezl Harrell e Patrick Beverley). I tre vennero descritti come membri di una generazione cresciuta a ritmo di hip-hop e sufficientemente sfacciata per pensare di essere pronta a prendersi tutto. Con le divise al contrario, snapback, fascetta e du-rag in testa, sembravano a tutti gli effetti un collettivo hip-hop in posa per la copertina del loro mixtape di debutto.
La "two taps to the head" Era.
Brand era l’uomo che in teoria avrebbe dovuto far fare il salto di qualità alla squadra, ma quello che l’avrebbe tenuta in piedi era Odom, che non a caso era il capitano. Fu Miles ad ammetterlo non troppo velatamente dicendo: «Finchè i Clippers tengono Odom, tengono anche noi. Se mandano via Lamar, sarò io il primo ad andarmene».
In realtà, come sappiamo, la seconda squadra di L.A, non fu in grado di ripartire dalle 39 vittorie della stagione 2002-03: complici le personalità problematiche di alcuni dei pilastri della squadra, nonché una sequela di infortuni che non risparmiò nemmeno Odom, la squadra si squagliò prima di arrivare alla post-season.
Heat Culture
L’avventura di Odom a L.A. non finì esattamente come lui si sarebbe augurato; nella stagione 2002-03 la squadra non riuscì a mantenere le attese di grandeur fatte intravedere nelle stagioni precedenti e finì per vincere solo 27 partite, dodici in meno rispetto all’anno precedente. Per lui era arrivato il momento di testare per la prima volta la free agency, visto che la sua ormai ex-squadra, quando si trattò di scegliere se confermare lui o Brand, optò per quest’ultimo. Furono i Miami Heat ad assicurarsene le prestazioni con un contratto da 63 milioni in 5 anni, compreso un bonus di 15 milioni alla firma. Il primo ad accoglierlo fu Pat Riley, che gli fece capire che tipo di organizzazione fosse quella in cui era appena arrivato, a parole ma anche coi fatti. Dopo il loro primo incontro, Riley congedò Odom dicendogli «Ci vediamo domattina alle 7 per l’allenamento». «In realtà ho un volo tra un’ora, torno tra qualche settimana», replicò il giocatore. Riley, imperterrito, rispose «Forse non ci siamo capiti, domani ci alleniamo». Odom non potè far altro che attenersi agli ordini.
Come ammesso in più circostanze dall’ex Rhode Island, l’anno agli Heat fu estremamente formativo. Il concetto di “Heat Culture” non è un modo di dire o un hashtag per i social, ma è un modus operandi: quello del lavoro duro e dell’allenamento spasmodico. Lamar lo aveva capito subito dopo la conversazione con Riley, ma tutto gli fu anche più chiaro alcuni mesi dopo, al termine di una partita di pre-season giocata contro i Philadelphia 76ers. Odom aveva tirato malissimo e segnato poco, ma aveva comunque messo un paio di canestri pesanti nel crunch time e, soprattutto, era andato a rimbalzo e aveva difeso forte. Lui non era per niente contento della propria prova, ma Riley sì: era questo che voleva da lui, fargli capire che su un campo da basket si poteva essere utile in mille modi, soprattutto tenendo un atteggiamento aggressivo.
«Guidaci tu», gli disse Pat Riley prima della partita. E Odom eseguì.
Drinking in L.A.
La trade che rimandò Odom a Los Angeles, stavolta sponda Lakers, squarciò la sua vita come un fulmine a ciel sereno. Riley e gli Heat lo adoravano, ma erano già da tempo alla ricerca di un lungo che permettesse loro di competere ad alti livelli, e lo trovarono in Shaquille O’Neal. Riley aveva tentato di imbastire una trade senza fare il suo nome, ma i Lakers, comprensibilmente, non avrebbero neanche cominciato ad ascoltare senza inserirlo nell’affare.
Odom comunque non ci mise molto a godere dell’opportunità di giocare per “gli Yankees della NBA”, come lui stesso li ha definiti, e con una stella del calibro di Kobe Bryant. Con lui Lamar passò il test del carattere in allenamento; come MJ, anche Kobe amava provocare con le parole e con i colpi proibiti durante le partitelle, ma Odom non si scomponeva mai e rispondeva anche lui con le parole e con i fatti.
Come rivelato nella sua biografia, durante un allenamento, Kobe si rivolse direttamente a Odom spiegandogli in quanti modi potesse rivelarsi utile per Bryant stesso e quindi per la squadra: «Quando mi raddoppiano, io te la passo, e sarai tu a decidere cosa fare: nessuna squadra ha un altro giocatore abbastanza grosso e alto capace di passarla come te». Prima dell’arrivo di Pau Gasol in maglia Lakers, la seconda opzione offensiva era proprio Odom, il coltellino svizzero della squadra, che poteva essere usato in tante situazioni diverse.
Nel 2005 il ritorno in panchina di Phil Jackson significò anche il ritorno all’attacco triangolo, che però Odom non riuscì a padroneggiare immediatamente. Un attacco che aveva bisogno di un ulteriore interprete di alto livello, visto che i Lakers non riuscivano a superare il primo turno dei playoff. Nel 2008 quindi dai Grizzlies arrivò con una controversa trade Pau Gasol per Kwame Brown, Javaris Crittenton, Aaron McKie, i diritti su Marc Gasol e due prime scelte.
Ad inizio stagione i Lakers non erano certo accreditati come una delle favorite ad Ovest; eppure iniziarono la stagione col piede giusto, grazie soprattutto ai miglioramenti di Andrew Bynum, finalmente cresciuto e pronto ad aiutare la squadra come auspicava Kobe. Complice la presenza di Bynum, però, diventò proprio Odom l’uomo di troppo nel quintetto, finendo quindi per essere riutilizzato nel ruolo di sesto uomo.
Non fu una transizione facile per un giocatore abituato fin dalla giovanissima età a guidare le proprie squadre. In riferimento al suo nuovo ruolo, Odom disse: «È un’esperienza che mi ha reso più umile, anche se io mi sentivo già umile. Ad ogni modo, se devo farlo per i miei compagni di squadra e per questa organizzazione, lo faccio». Odom era il giocatore perfetto per quella squadra, per la sua abilità di condurre il contropiede dopo un rimbalzo catturato o di giocare spalle a canestro e cambiare lato con un passaggio dal post, ma anche aprire il campo con il suo tiro da tre e difendere su più ruoli.
Dopo l’iniziale e comprensibile ritrosia a riciclarsi in questo nuovo ruolo, Odom vi si calò pienamente: alla fine si trattava pur sempre di guidare un quintetto, seppur non quello iniziale. Quando uno dei due lunghi era infortunato, era Odom quello che veniva chiamato in causa per farne le veci; è stato così, ad esempio, per Bynum, fuori per oltre 20 partite nella stagione 2010-11, e sostituito in quintetto da Odom. Quando a Gasol fu fatta una domanda sul suo compagno e il suo nuovo ruolo, lo spagnolo diede una risposta molto onesta, ma anche molto indicativa: «Se me l’avessero proposto, non l’avrei presa altrettanto bene. Mi ci sarebbe voluto molto più tempo per accettarlo».
Dopo l’arrivo di Gasol i Lakers avrebbero giocato tre Finali consecutive, vincendo le ultime due contro Magic e Celtics. Erano le Finali della redenzione di Kobe, che arrivò nuovamente al titolo senza l’ingombrante presenza di Shaq. Ma niente di questo sarebbe diventato realtà senza la squadra alle sue spalle, quella che montava il palco per il Kobe Show. Dietro l’iconica esultanza di Bryant alla fine della battaglia contro i Celtics in Gara-7 delle Finals 2010 c’è infatti lo zampino di Odom, che prima contesta il tiro disperato di Rondo e poi scaglia la palla nell’altra metà campo, dove solo Kobe può raggiungerla. La sua versatilità e la completezza del suo gioco in una scala gerarchica che lo vedeva solo come terzo giocatore più importante lo hanno reso perfetto per quella squadra.
Il quinto titolo di Kobe, il secondo di Lamar.
L’inizio della fine
La storia tra Odom e i Lakers sembrava fosse destinata a durare a lungo, come testimoniato dal rinnovo di contratto firmato nel 2009 dopo le vittoriose Finals contro i Magic. Quindi trade che lo mandò a Dallas fu molto più dolorosa da mandare giù rispetto a quella che lo portò a L.A.. In quel caso, almeno, Miami aveva l’opportunità di prendere un giocatore dominante come Shaq e cambiare le sorti della franchigia. I Lakers invece si erano fatti ingolosire dalla possibilità di aggiungere al proprio roster Chris Paul, in una delle più controverse operazioni di mercato dell’ultimo millennio, per il quale furono disposti anche a sacrificare Lamar. Quando poi come bene sappiamo quello scambio saltò per il veto di David Stern, Odom era talmente deluso dalla mancanza di fiducia da parte della dirigenza gialloviola che pretese di essere ceduto.
Alla fine fu spedito a Dallas per una scelta e spazio salariale. Fu informato dello scambio da Jeff Schwartz, il suo agente; il GM Mitch Kupchak, che pochi mesi prima ne aveva tessuto le lodi durante la conferenza per la premiazione come Sesto Uomo dell’Anno, neanche si degnò di chiamarlo. In un attimo Odom sentì la propria energia e il proprio amore per la pallacanestro risucchiato via: non voleva andare a Dallas, e sapeva già sarebbe stata una stagione molto problematica.
La parentesi ai Mavs è senza dubbio la peggiore della sua carriera. Arrivò in Texas scarico, senza voglia e in cattiva forma fisica (era anche l’anno del lockout). Durante il loro primo incontro, Mark Cuban fu molto cordiale con lui, ma Lamar gli confessò direttamente di non essere nelle migliori condizioni mentali e fisiche per avere successo su un campo da basket. Il rapporto tra i due si deteriorò ben presto. Le prestazioni del numero 7 erano ampiamente sotto la media, e Cuban non mancò di farglielo notare a più riprese, insultandolo da bordo campo o direttamente nello spogliatoio in faccia ai compagni, come successe dopo una partita contro Memphis.
Lamar Odom su Mark Cuban.
Durante una partita casalinga, Odom fu richiamato in panchina e andò a sedersi in fondo; Cuban ne approfittò per mostrargli il proprio disappunto tirandogli un calcio e dicendogli “Come on, motherfucker!”. Non era la prima volta che il proprietario dei Mavs gli si rivolgeva così, e per Odom la misura era colma. Fece per alzarsi e mettere le mani addosso a Cuban quando Vince Carter, suo compagno di allora e suo grande amico, lo fermò evitando conseguenze peggiori.
La morte dietro l’angolo
«Mi sembra che la morte sia sempre al mio fianco». Sono parole dello stesso Odom pronunciate dopo uno dei tanti lutti che lo hanno coinvolto, quello di un cugino adolescente morto per arma da fuoco a New York.
La prima fu la madre Cathy, che lasciò un vuoto enorme colmato solo dalla pallacanestro. Poi la nonna Mildred, la capofamiglia, e infine il figlio neonato Jayden, morto nel sonno per una malattia infantile chiamata SIDS (Sudden Infant Death Syndrome). Odom non è mai stato capace di piangere i suoi lutti; a detta sua, non voleva neanche farlo, perché sapeva di essere l’uomo di famiglia, quello da cui gli altri si aspettavano fosse forte e fosse lui di supporto agli altri. Come rivelato all’amico Vince Carter nel podcast “Wing It”, probabilmente ancora oggi non è riuscito a lasciar andare il dolore causato dalla morte improvvisa del figlio. Magari non ci riuscirà mai, abituato com’è a tenersi tutto dentro fin dall’adolescenza.
Lo strumento per la sua catarsi è sempre stato la pallacanestro, dapprima quando gli bastava scendere in strada, andare al campetto e fermarsi a tirare per ore, e poi quando tutto questo è diventato un mestiere, esercitato sotto i riflettori. Ad un certo punto però il basket non gli è bastato più, come avesse perso il suo potere curativo, e nella vita di Lamar sono entrate altre distruttive dipendenze. Odom ha iniziato a fumare marijuana da ragazzo e non ha smesso nemmeno una volta entrato in NBA. Anzi, ha più volte rischiato che la sua carriera terminasse sul nascere per via di una squalifica di troppo per doping. Una volta ha persino dovuto ricorrere a un fallo finto comprato su Internet e riempito di urina di un uomo del suo entourage per scampare alla terza, e probabilmente fatale, squalifica per droga.
Durante il suo anno a Miami, oltre alla Heat Culture, ha conosciuto quasi per caso anche la cocaina, finendo poi per farla diventare la sua migliore amica senza la quale il dolore non si poteva attenuare. È sopravvissuto a due overdose, la prima delle quali a casa del produttore discografico Scott Storch. La seconda, la più recente e più nota, gli ha fatto capire quali dovessero essere le priorità della vita, in primis un soggiorno in una clinica specializzata per aiutarlo nella riabilitazione da dipendenza da droghe e sesso.
Gli ci è voluta però una esperienza al di là della vita per capire come stesse buttando via tutto. Dopo una lenta ripresa da un punto di vista fisico, Odom è migliorato molto anche da un punto di vista mentale, ma è lui il primo a sapere di non essere ancora uscito da un tunnel molto lungo, quello della dipendenza. Anzi, magari non ci uscirà mai, come ammette lui stesso nel pezzo scritto tre anni fa per The Players’ Tribune.
Quello che gli dà la forza di andare avanti sono i suoi figli, il suo migliore amico, e la sua personal trainer, che da qualche mese è diventata la sua nuova compagna dopo la fine del matrimonio con Khloe Kardashian. Il basket ormai non fa più parte della sua vita, se non per qualche comparsata al torneo Big3. Gli è stato vicino però negli anni più difficili della sua vita, quando i vizi e le debolezze di una mente fin troppo fragile lo stavano trascinando verso il baratro.
Odom è uno di quei giocatori di cui si dice “se fosse nato dieci anni dopo, nella NBA attuale sarebbe una stella”. Ed in effetti nella lega di oggi Odom, magari giocando da 5, sarebbe ancora più devastante: giocatori di quasi 210 centimetri con quelle abilità sui due lati del campo se ne vedono pochi e valgono oro. Ma probabilmente questo discorso ad Odom non interessa.
Tra tutti i fenomeni che hanno messo piede su un parquet NBA è facile dimenticarsi di Lamar Odom. Quei Lakers erano guidati da uno dei più forti giocatori di sempre e lui, dal canto suo, non ha mai messo su cifre strabilianti né ha mai giocato un All-Star Game. Forse stiamo parlando di un “semplice” giocatore feticcio, ma Odom è pur sempre stato un inconsapevole precursore per gli esterni tuttofare che ora sono estremamente ricercati nella NBA attuale. La sua storia personale è molto umana: un ragazzo molto sensibile, forse fin troppo per essere un giocatore NBA, segnato da un’adolescenza difficile. Le cicatrici che ci facciamo da ragazzi, poi ce le portiamo avanti e crescono con noi. Certe ferite di Odom, però, non si sono mai cicatrizzate, perché venivano periodicamente riaperte da altri lutti.
Quando vedrete un giocatore vicino ai 210 centimetri portare palla, creare gioco e difendere come un esterno, pensate a Lamar: non ve lo dimenticherete più facilmente.