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Fabrizio Gabrielli
La formazione colombiana di Alfredo Di Stefano
06 feb 2024
06 feb 2024
Le origini di una leggenda incompiuta.
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Fabrizio Gabrielli
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Illustrazione di Manfredi Ciminale
(foto) Illustrazione di Manfredi Ciminale
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Elegante, con passo fermo ma traballante, Alfredo Di Stefano fa il suo ingresso nello studio televisivo fuoriuscendo da una pensilina simile a quelle che accompagnano l’ingresso dei calciatori in campo. Lo studio è addobbato a festa: è la vigilia di Natale del 1989, si sta per consegnare a Marco Van Basten il Pallone d'Oro per la stagione precedente a quella dei Mondiali d’Italia. Sullo sfondo, un albero di Natale spelacchiato, che non rende giustizia alla sacralità del momento. Quella stessa sera è infatti prevista, oltre alla celebrazione dell’olandese, la prima assegnazione di un premio particolare, fortemente voluto da France Football: il Super Pallone d’Oro. Un piedistallo rosso-lava, costellato di piccoli palloni d’oro, dal quale esplode un geyser di fuoco che sorregge un’ulteriore sfera aurea, finirà nelle mani del più forte calciatore (europeo) degli ultimi tre decenni. Non possono quindi esserci, tra i candidati, Pelè (che saluta il pubblico da uno studio televisivo, o forse da Cape Canaveral) né Maradona. Oltre a Di Stefano, però, ci sono una serie di personaggi più o meno vincenti, in ogni caso rappresentativi di un’epoca calcistica: Franz Beckenbauer, Keevin Keegan, Johan Crujiff – in collegamento da un salotto elegante –, Rummenigge – che, in contumacia, si fa rappresentare da una copertina di una rivista – e, ovviamente, Michel Platini. A decretare il vincitore sono stati convocati tre collegi: uno è composto da tutti i direttori degli ultimi sei lustri di France Football, e gli spettatori della tv pubblica francese, una giuria – diciamo – popolare. Poi ci sono i giornalisti, alcuni dei quali – ci tiene a specificare il direttore di France Football – «vecchi abbastanza da aver visto giocare Stanley Matthews». Infine: i vincitori del Pallone d'Oro dal ‘56 in poi, esclusi i candidati, e quelli che non sono più di questa Terra. ___STEADY_PAYWALL___

Il vincitore di due collegi su tre – non è difficile immaginare in quale collegio abbia stravinto Platini – è Alfredo Di Stefano, che riceve il premio tra il commosso e il contrito, a disagio. Lev Yashin, che sarebbe morto di lì a un paio di mesi, siede alle sue spalle: interviene dicendo che per lui è stato un esempio, che ne osservava le gesta nei cinema e sognava di giocare contro di lui. Non sarebbe mai successo, perché la Dynamo Mosca non avrebbe mai incrociato il Real Madrid, né la Spagna l’Unione Sovietica. La trasmissione finisce pochi secondi dopo la consegna: non vediamo neppure Di Stefano toccare il trofeo. Sembra l’elogio di una sconfitta, e invece è la celebrazione di un calciatore che è stato tra i più forti al mondo, che è riuscito a giocare con tre Nazionali diverse e a non partecipare neppure a un Mondiale, le cui gesta sopravvivono però soprattutto nella memoria, mentre le immagini, le poche che lo ritraggono in movimento, che dovrebbero confermarci o farci confutare quel che diamo per scontato, per sentito dire, sbiadiscono, si sfilacciano. A cosa è servito, quel Super Pallone d'Oro, allora?Un Bengodi di talento e giudizioAll’origine di Don Alfredo c’è un quartiere pieno di immigrati, al sud de La Boca e a nord di Avellaneda, gli epicentri bonaerensi del calcio, Barracas. Un padre italiano, originario di Capri, che vendeva patate al mercato di Abasto, e che dopo uno screzio con certi grossisti era dovuto scappare dall’Argentina. Nel quartiere, per come si muoveva in campo, lo chiamavano “Minellita”, in onore di José Minella, una delle figure mitiche del River Plate di inizio secolo. Oppure “el Alemán”, il tedesco, per i capelli biondi, la pelle chiara. Con la palla Alfredo viveva in simbiosi: «mi querida vieja», «mia cara vecchia», la chiamava, come gli argentini chiamano la madre. A sedici anni era entrato nelle giovanili del River Plate: pochi anni più tardi, in prima squadra, avrebbe raccolto il testimone di Adolfo Pedernera in quella linea offensiva mitica e leggendaria, che non avrebbe mai avuto eguali nel calcio argentino, che aveva portato il River Plate a essere ribattezzato "La Máquina". Il suo modo di giocare, però, in qualche modo stava superando certi meccanismi, o meglio li declinava in una maniera nuova: Di Stefano inglobava in una sola figura le caratteristiche di una linea offensiva di cinque elementi.

«Il suo campo d’azione in campo è di 105 metri per 70», scriveva Juvenal, mitico colonnista della rivista argentina El Gráfico. Vale a dire: tutto il campo. Il patio di casa sua, il suo tempio. Si muoveva incessantemente per tutta l’ampiezza del rettangolo verde. Partiva dalla posizione di centravanti, rientrava a centrocampo per impostare, si involava sulle fasce: nel cielo sereno del gioco di controllo del River era il proverbiale fulmine. Per questo lo avevano cominciato a chiamare "Saeta Rubia", letteralmente: fulmine biondo. Nonostante giocasse con il nove sulle spalle, Di Stefano era tutt’altro rispetto a ciò che a quei tempi si credeva fosse un nove. Metteva ordine, conduceva le transizioni; attaccava, difendeva. Rallentava il ritmo, imprimeva accelerazioni. Era veloce, ma anche potente, ma anche cinico. Un delantero atrasado – che sta al falso nueve come il Cro-Magnon al Sapiens Sapiens. Giocava un calcio totale, ante litteram. Dicevano che non sudasse sangue, ma che ci irrigasse i campi in cui giocava. Era passionario, veemente, esigente: non amava la mediocrità e se la prendeva con chi non dava il massimo. Un vero caudillo, un leader perfetto: il più laborioso e il meno compiaciuto. L’Equipe, più avanti, avrebbe coniato per lui un soprannome eloquente: El Omnipresente, che si traduce da solo. Perché giocava come fosse una lega metallica in cui erano stati fusi tre giocatori differenti: era un centrocampista quando conquistava il pallone e orchestrava la manovra; un dieci nel momento in cui spalancava la visione del gioco e forniva l’ultimo passaggio; un nove quando insaccava. Era vasto: «Se Pelé era il violino solista», avrebbe detto un giorno Helenio Herrera «Di Stefano era l’intera orchestra».Per lui c’erano tre aspetti non negoziabili: la puntualità; la maniera di allenarsi; la maniera di giocare. E giocare significava, esattamente, tautologicamente, giocare: il pallone non doveva solo passare di piede in piede, ma essere interpretato. Peucelle, l’allenatore di quel meraviglioso River, una volta in allenamento gli aveva chiesto, mostrandogli un pallone: «sai di cosa è fatto?». «Di cuoio», gli aveva risposto lui. «E da dove viene il cuoio?», aveva continuato. «Dalla mucca», aveva risposto Di Stefano. «E la mucca che mangia?», aveva aggiunto Peucelle. «Erba». «Ecco, ecco dove dovete far passare la palla. Sull’erba». Diceva che stare in campo senza passarsi la palla, senza scambiarsi posizioni, senza pianificare una manovra non era giocare al calcio, ma correre al calcio.Peucelle si era trovato tutto questo ben di Dio - un Bengodi di giudizio e talento - a disposizione quando aveva raccolto l’eredità, alla guida del River, del "tano" Cesarini. Aveva fatto di Di Stefano una delle pietre preziose del collier del calcio argentino. Quel River, come la Grande Ungheria del '53, come il Brasile del '58, aveva reinventato il gioco, utilizzando per prima il doppio centravanti. Di Stefano e Angelito Labruna, nel 1947, avrebbero messo a segno, insieme, 90 gol: una media di tre per partita. La "Saeta Rubia", a quel punto, aveva ancora soltanto 21 anni. Guillermo Stábile, il capocannoniere del Mundial del ‘30, che ora sedeva sulla panchina dell'Argentina, nel 1947 lo aveva convocato per la Copa América che si giocava in Ecuador. In sei partite, Di Stefano aveva messo a segno sei gol. L’Albiceleste aveva portato a casa il titolo, il primo con Di Stefano in campo, e chissà quanti altri ne sarebbero seguiti se l’anno successivo la categoria dei calciatori non avesse incrociato le braccia, se Di Stefano non avesse sentito così sue le questioni rivendicate dal sindacato, se le strisce della maglia della Nazionale non avessero cominciato a sbiadirsi, scomparendo pian piano, in dissolvenza.Nel 1948 c’è già Perón alla guida di un governo che, surfando su un’ondata massimamente populista, decide di imporre un tetto salariale ai guadagni dei calciatori. I giocatori, ora, si trovano a guadagnare non solo una fetta infinitesimale rispetto al volume di affari che proprio loro, ergendosi a nuovi idoli sociali, hanno contribuito a movimentare, ma anche molto – moltissimo meno rispetto a quanto guadagnano i loro colleghi nel resto del Sudamerica. In Colombia, sul finire degli anni ‘40, il paese è sull’orlo di una guerra civile. Jorge Gaitán, il candidato liberale alla presidenza, viene assassinato sotto mandato dell’oligarchia conservatrice. Si scatenano rivolte nella città di Bogotà, che presto divampano per tutto il paese in quella scossa tellurica che prenderà il nome – che lascia poco spazio alla fantasia – de "La Violencia". Il calcio è l’ultimo dei pensieri, ma non il meno importante, visto che è da sempre panacea inarrivabile, meccanismo di distrazione delle masse. «Non c’è miglior antidoto alla violenza di una buona partita di calcio», scriveva la rivista Estadio. «Le scintille del rovente ambiente politico arrivano fino ai cancelli degli stadi. Ma non li oltrepassano», si leggeva sulle pagine della stessa rivista nei giorni più caldi del 1949, dopo un massacro nella sede del partito liberale a Cali. Il Governo spinge per la creazione di una lega piuttosto glam, incaricata di sollevare l’umore dei colombiani – e la reputazione a livello internazionale. Alfredo Senior, presidente dei Millonarios di Bogotà, è il primo a pensare di far coincidere l’esigenza di portare in Colombia la crème del calcio continentale con la contingenza dello sciopero argentino. Il primo colpo è Adolfo Pedernera. Il secondo: Alfredo Di Stefano.Tra il 1949 e il 1953, in Colombia sarebbero arrivati 55 calciatori argentini, più i migliori talenti peruviani, cileni, paraguayani. Quell’epoca passerà alla storia con il nome di "El Dorado". Ma il migliore in assoluto, quello che tutti avrebbero identificato come il più grande ad aver mai calcato i campi cafeteros, capace di far vincere tre titoli in quattro anni ai Millonarios, quello sarebbe sempre stato la "Saeta Rubia". C’è chi parla di quasi 270 reti segnate in assoluto, tra partite ufficiali e non. A El Campín, lo stadio dei Millonarios, che non ospitava più di 25mila persone, i tifosi facevano la fila la notte precedente alla partita, pur di accaparrarsi un posto. Di Stefano era un idolo: fuori dallo spogliatoio, alla fine di ogni allenamento, o di ogni partita, c’era la fila per gli autografi. E lo stesso all’Hotel Embajador, la sede del ritiro preparatita dei Millonarios. Il calcio colombiano era piuttosto grezzo, primitivo: Di Stefano, mai arrogante, mai presuntuoso, si metteva però a disposizione, con il suo entusiasmo, e con il suo talento, affinché l’intero movimento – e non solo i Millonarios – potesse crescere. Il movimento, in realtà, cresce. Magari non nella maniera sperata, o più cristallina, perché il calcio, a questo punto, diventa uno strumento di reputation washing, diciamo così. Di fronte ai contadini rimasti senza campi da coltivare, o alle città in preda al divampare quotidiano di proteste, il governo investe i suoi fondi nell’ampliamento dell’Estadio Nacional Nemesio Camacho, El Campín appunto. Tutti devono avere l’opportunità di vedere Alfredo Di Stefano.

Dominare in lungo e in largo El Dorado, magari, non è la miglior forma di allenamento. Però Alfredo Di Stefano è giovane, nel prime della sua carriera, e il Mondiale brasiliano del 1950 può – deve – essere quello della sua consacrazione, dopo la pausa dovuta alla Seconda Guerra Mondiale. L’Argentina ha davvero uno squadrone, sostanzialmente quello che ha stravinto la Copa América del 1947. C’è un problema, però.Perón, dal momento in cui i calciatori sono scesi in sciopero, ha sostanzialmente abbracciato una politica protezionista: il calcio argentino non si esporta, nel senso che chi abbandona il Paese per giocare all’estero è un traditore della patria, e nessuna Nazionale partecipa a competizioni internazionali, così da non potersi fare vetrina. La vera ragione dell’autarchia autoindotta, però, è più complessa. La verità è che l’Argentina si era proposta di ospitare il Mondiale del 1950, ma la FIFA aveva respinto la candidatura, optando per il Brasile. Per di più, a pochi mesi dal Mondiale brasiliano, al quale l’Argentina era qualificata di diritto, la federazione brasiliana (CBF) aveva proibito a uno dei suoi club di affrontare in amichevole un club argentino in Cile. Se deve essere protezionismo, sostenevano in Brasile, che lo sia in tutto e per tutto. I rapporti diplomatico-calcistici sarebbero scesi al minimo storico, e a farne le spese sarebbe stato soprattutto il movimento calcistico argentino.Per la parossistica tendenza, tutta sudamericana, a complicare le cose, a privarsi della gioia o a dover rimpiangere l’impossibilità di potersela godere, l’Argentina quindi si castra deliberatamente. La Colombia, in cambio, avrebbe tutto l’interesse a mettersi in mostra a livello internazionale. Peccato che la FIFA, a fronte della scissione tra Lega Professionistica ufficiale e Dimayor, di fatto la Lega che aveva dato origine a "El Dorado", avesse deciso di sospendere i "Cafeteros" dalle competizioni continentali e intercontinentali, un embargo che terminerà soltanto nel 1951. Di Stefano, tuttavia, viene selezionato in quella che, di fatto, è una selezione dei migliori calciatori colombiani in circolazione, che prende il nome di Combinado XI. Con quella maglia, Di Stefano gioca 4 partite. Il suo secondo esordio in una Nazionale.Se non poteva passare attraverso la propria Nazionale, l’unico modo in cui il calcio colombiano potesse acquisire prestigio era organizzare amichevoli con grandi club europei. E a tenere alto il nome del calcio locale non potevano non essere che i Millonarios di Di Stefano, club che finisce quindi per guadagnarsi il soprannome di "Los Embajadores", gli ambasciatori. In effetti la miglior campagna propagandistica al Governo, in quegli anni, la fa proprio Di Stefano, ambasciatore nel mondo – non si sa come – di una "colombianità" che non ha. Nessuno si concentra sul fatto che in Colombia ci siano 50mila morti ogni anno: in Colombia c’è Di Stefano, e tanto basta. Ai colombiani, e in qualche incomprensibile modo pure a Di Stefano, sta benissimo, e a un altro tipo di carriera neppure ci pensa. È tutto impegnato a disegnare una parabola di successo che raggiunge il punto più alto nel 1952, quando il Real Madrid, in occasione del cinquantesimo anniversario della sua fondazione, invita i Millonarios – o per meglio dire, invita lui – a giocare un’amichevole in Spagna.

Il Madrid affronta i Millonarios e il Norrköping in un triangolare celebrativo. Nello scontro diretto tra Real e Millonarios, Di Stefano segna due reti. Il trofeo viene vinto dai colombiani. La vittoria più grande, in verità, è di Santiago Bernabeu, il presidente delle "merengues", che quando vede Di Stefano correre, dribblare, lasciarsi alle spalle tre dei suoi, con una velocità vertiginosa, con uno stile tutto suo, si invaghisce perdutamente. Di Stefano diventa la sua ossessione, e i successivi sei mesi diventeranno un quotidiano pretesto per portarlo a Madrid.Nel frattempo, mentre si svolgono le trattative, nelle quali si inserisce anche il Barcellona, Real e Millonarios si affrontano altre volte. A una di queste sfide, a Bogotà, assistono anche due giovani compatrioti di Alfredo, invitati direttamente dal campione. Si sono incontrati il giorno prima della sfida, all’Hotel Embajadores: i ragazzi con gli abiti lisi, stracciati, le barbe lunghe di chi ha trascorso gli ultimi mesi in giro per l'America Latina in sella a una motocicletta, a dormire sotto le stelle; Di Stefano con un impeccabile abito di lino. Alberto ed Ernesto hanno abbandonato Leticia, al confine con il Perù, per dirigersi a Bogotà per osservare una partita di questo club leggendario di cui tutti parlano. Insieme bevono mate, chiacchierano di calcio. Ernesto, che è un giovane medico, racconta a Di Stefano le disuguaglianze che ha riscontrato nel Paese, le sue idee utopiche su una società più giusta. Non si capisce come una partita di quella Liga, così piena di soldi, di interessi corporativi, potesse affascinare quel giovane, Ernesto Guevara de la Serna: infatti, non lo affascinò. Di Stefano, invece, spinse Alberto Granado a scrivere, nel suo Memorias de un gitano sedentario, che quella tra Millonarios e Real Madrid fosse stata una delle più belle partite che avesse visto nella sua vita. «Che non sono poche», scrisse «ma neppure troppe».

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E quindi un bel giorno, mentre stanno acquistando mortadella in una rosticceria, Di Stefano dice al fratello «guarda, me ne vado in Spagna. Questi me li lascio alle spalle, li dribblo tutti e me ne vado». Certo, la Spagna è tutta un’altra cosa. L’immaginazione, la creatività, il suo combustibile quotidiano in Colombia come in Argentina, viene sostituito dalla fisicità, in Spagna. «Qua è tutta una questione fisica. Tutti a saltare di testa, tutti a giocare di sfondamento», scrive al fratello. In Argentina se pioveva la partita veniva sospesa. In Spagna sembrava quasi si eccitassero, quando il campo era pesante.Pesante è anche l’atmosfera.Di Di Stefano non si è innamorato soltanto Santiago Bernabeu, ma anche Pep Samitier, l’ex stella del Barça che ora per i blaugrana fa il direttore tecnico, e che solo due anni prima ha portato a Barcellona Laszlo Kubala. Il Barça avvicina i Millonarios, negozia la transazione. Ma la proprietà di Di Stefano è un argomento complicato, un vero rompicapo giuridico, in mezzo ci sono il River, i Millonarios, Di Stefano stesso. La FIFA, salomonicamente, sentenzia che la "Saeta Rubia" possa giocare in Spagna, e questo è pacifico, ma a patto che sia un semestre per il Real, l’altro per il Barcellona. Il Real è la squadra per la quale fa il tifo, in maniera neppure troppo velata, Francisco Franco: ora, anche se non sono sempre infallibili, le sillogi hanno il grande pregio di aiutarci a instradare una conclusione. È stato Franco a forzare il trasferimento di Di Stefano al Real? Può darsi. È una mossa che favorisce anche Di Stefano? Non del tutto: il Real è a secco di titoli da un ventennio, e non è di certo la più forte tra le due. E Di Stefano, tra gli obiettivi, ha quello di giocare finalmente il suo primo mondiale. Nel 1950 l’Argentina, come abbiamo visto, ha boicottato il Mondiale in Brasile per non averne ricevuto l’assegnazione. A distanza di quattro anni si aspetta che la FIFA sappia sdebitarsi: ma il Mondiale viene assegnato alla Svizzera e ancora una volta lAlbiceleste per ripicca decide di disertare. Di Stefano, in limine al Mondiale del 54, milita già nel Real Madrid: il sogno di giocare una competizione iridata gli sta sfuggendo ancora di mano. Guillermo Stábile, che a quella competizione assiste da delegato, scrive in uno dei suoi rapporti: «Se l’Argentina a questo Mondiale avesse partecipato avrebbe fatto una gran bella figura». Lo stesso Di Stefano, molti anni più tardi, avrebbe dichiarato: «La Selección di quegli anni era fortissima. Il fatto è che non giocavamo mai. Per una questione o per un’altra, per politica o per fosse quel che fosse, non giocavamo mai». La "Saeta Rubia" è stanca di non potersi mettere in mostra, di non poter giocare la competizione più importante per un calciatore. Forse è per questo che comincia a cullare l’idea, una volta ricevuta la cittadinanza spagnola, di cominciare a indossare la maglia rossa della Spagna.A spingere affinché diventasse cittadino spagnolo era soprattutto il Real: se non fosse diventato suddito del Re Juan Carlos I non avrebbe potuto giocare la Copa del Rey.

Quando riceve la prima convocazione con la Spagna ha ormai trent’anni. Il che non gli avrebbe impedito di giocare trentuno partite, e segnare ventotto gol. Di diventare il massimo marcatore della Spagna fino al 1990, quando lo superò Butragueño.Nei due anni che precedono il Mondiale di Svezia cerca di qualificarsi con la Spagna senza riuscirci: una sconfitta contro la Scozia gli sarà fatale, gli spagnoli si classificheranno secondi nel loro girone. Dall’altra parte dell’Oceano, l’Argentina torna a vincere la Copa América, in Perù, con una squadra gonfia di talento: Maschio, Angelillo, Corbatta, Sivori tornano a far nutrire all’Albiceleste ambizioni altissime sugli scenari internazionali. Avesse voluto, Di Stefano avrebbe potuto compiere un’inversione a U, e finalmente giocare – non vincere, gli sarebbe bastato giocare – un Mondiale. Ma l’Argentina, si sa, è la terra degli eterni rimpianti, dell’autocommiserazione indotta, del rendersi complicata la vita. La federazione argentina (AFA) decide di non convocare per il Mondiale svedese i calciatori che militano all’estero, di smantellare la squadra che aveva trionfato in Perù, di mandare al macello un movimento stroncato sul nascere – che esce al primo turno, dopo aver subito un’umiliazione dalla Cecoslovacchia, che gliene inanella sei. Quel Mondiale lo vincerà il Brasile, che nel’ultima Copa América, dall’Argentina, ne aveva presi tre.Di Stefano vince tre Coppe dei Campioni consecutive, è capocannoniere con 10 reti dell’edizione 1957; e poi ancora Coppe dei Campioni, Palloni d’Oro, Coppe Intercontinentali. Nel 1960 la Spagna arriva all’ultima fase di qualificazione agli Europei: il tabellone la mette di fronte all’Unione Sovietica, ma Franco – per ripicca ideologica o convenienza geopolitica – impedisce che si svolga la doppia gara. E quando finalmente la Spagna si qualifica ai Mondiali del 1962, in Cile, il destino arriva a presentare il conto, salatissimo, insospettabilmente incattivito, a Di Stefano.In una partita di preparazione, a San Sebastián, allo stadio Atocha, contro una selezione tedesca, Di Stefano – che ha 35 anni, e che sa di essere di fronte alla sua ultima possibilità – avverte un fastidio al nervo sciatico. Si ferma, viene sostituito. Negli ultimi tempi ha perso molto peso: la muscolatura, complice l’età, ne subisce il contraccolpo.Da quel momento, Helenio Herrera non lo convoca più: nella sua idea di Nazionale non c’era posto per un giocatore che non fosse al massimo della condizione fisica, anche se si trattava di Alfredo Di Stefano. Che pure il peso l’aveva perso proprio per rientrare negli standard richiesti da Herrera. «Era ossessionato con il peso», avrebbe raccontato poi «Non ci faceva mangiare. A cena una mela e un’arancia, tutto qui». Di Stefano quasi lo supplica: Herrera gli concede di aggregarsi al gruppo, di viaggiare verso Viña del Mar con Puskas, Suárez, Gento, Santamaría. Il patto tra gentiluomini che stringono è semplice: passiamo il turno, poi vediamo. Di Stefano, che in Cile aveva invitato tutti i parenti rimasti in Argentina, ai quali voleva regalare la soddisfazione di vedergli realizzare il suo sogno, non scenderà però mai in campo, dato che la Spagna verrà eliminata, arrivando ultima nel suo girone, alle spalle di Brasile, Messico e Cecoslovacchia.«Una volta tornato a casa ho iniziato a mangiare pollo, spaghetti, asado. Nel giro di quindici giorni sono tornato in forma perfetta», avrebbe raccontato poi.L’ultima partita di Di Stefano con una Nazionale è datata aprile 1966: giusto poco mesi prima del Mondiale inglese. L’ultima, chimerica opportunità che non riuscirà a cogliere.Cosa si è perso, il calcio mondiale, nel non veder mai scendere in campo, nella massima competizione possibile, una delle stelle più rilucenti? Molto, ovviamente: eppure è riuscito a sopravvivergli. Per quanto, come ha detto Arrigo Sacchi, Di Stefano sia stato «per il calcio un momento di rottura, come il salto dal cinema muto a quello sonoro», ai nostri occhi resta l’incompiutezza – rotonda, precisa – di un campione il cui ricordo è difficilmente perdurato nelle generazioni successive alla sua contemporaneità. Ma chi l’ha visto in campo, chi ne ha coltivato l’intimo culto, da tifoso, da connazionale, ha le idee chiare su quale posto Di Stefano abbia occupato nel gotha calcistico.Nel 1988, Di Stefano e Diego Maradona si trovano allo stesso tavolo, al ristorante La Sagrestia di Napoli. Ci sono anche Guillermo Coppola, agente di Diego all’epoca, e poi Bruno Pesaola, Carlos "Pato" Onofrio e Fernando Signorini. Parlano a lungo, per tutta la serata, di calcio, di Pelé, di Platini, di calcio argentino. Fin quando Maradona, a un certo punto, afferrandolo per

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