
Dopo aver studiato tanto, arriva il momento di presentarsi all’esame: una situazione che conosciamo tutti, perché un esame può presentarsi sotto diverse forme. E in generale, nella vita, ci si trova prima o poi in una situazione in cui bisogna confrontarsi con gli altri per capire a che punto siamo. Dopo quasi 18 mesi di studio, e molte esercitazioni, la Roma di Rudi Garcia è stata bocciata ad un esame, di quelli propedeutici: non può passare tra le prime 16 squadre d’Europa.
Va detto che un minuto dopo il sorteggio di fine agosto, l’eliminazione della Roma sembrava cosa certa: troppo alto il divario con il Bayern e con il City, campioni di Bundesliga e Premier League, e pure il CSKA non sembrava troppo male (campione di Russia). La situazione è cambiata però un minuto dopo la prima partita di livello, quella con il City a Manchester, in cui la Roma era sembrata all'altezza della situazione. Si spiega così la grande amarezza con cui è stato accolto il terzo posto dei giallorossi nel girone: l'impressione è che la qualificazione sia sfuggita di mano a Garcia e ai suoi tra partite grottesche, con situazioni più o meno sfortunate e una sconfitta clamorosa e ingiustificabile.
La cosa peggiore è che è sfuggita all’ultima partita, quella in cui la Roma aveva il proprio destino nelle proprie mani, come si dice, un vero e proprio esame per la squadra e per l’allenatore che avrebbe potuto rappresentare la concretizzazione tangibile di un periodo di lavoro che rimane comunque eccellente. Né la tempesta di gol del Bayern né il fulmine di Nasri possono far dimenticare cos’era la Roma quando Garcia ne assunse la gestione tecnica.
Ma questo è il momento di capire perché l’esame è andato male, cosa si può fare per migliorare: sarebbe stupido rinnegare tutto per un terzo posto in un girone di Champions in cui la Roma partiva dalla quarta fascia. Una grande squadra ha bisogno di vittorie per prendere fiducia, ma si può costruire anche sulle sconfitte (cit. Mourinho).
Il fazzoletto di Pellegrini
La Roma ha adottato il suo ormai classico, e forse prevedibile, 4-3-3. Con Yanga-Mbiwa centrale difensivo di sinistra invece di Astori, e Keita vertice basso del centrocampo invece di De Rossi (rispetto al quale il maliano garantisce maggiore velocità di circolazione del pallone, oltre al fatto che si schiaccia meno sulla linea dei difensori e prova anche delle sporadiche pressioni sui portatori avversari). In attacco, Totti come sempre libero di trovarsi la posizione per lanciare negli spazi Gervinho, mentre Ljajić cerca spesso di garantire la superiorità numerica a centrocampo o sulle fasce, con l’obiettivo di accentrarsi per creare un passaggio filtrante o calciare in porta.
Il Manchester City si è presentato a Roma con diversi assenti di rilievo, a partire da Agüero, la reincarnazione argentina di Romario, passando per Yaya Touré, il capitano Kompany e il genio David Silva, che almeno era in panchina. Ciò nonostante, il 4-2-3-1 dell’ingegner Pellegrini, un uomo mite che sembrava più sotto una pensilina di un autobus che su una panchina di un grande stadio, insomma l’antitesi di come uno immaginerebbe l’allenatore della squadra di proprietà di uno sceicco, era comunque di grande livello. In difesa, il nazionale francese Mangala è un colosso con la velocità di uno scattista, compensa e completa il lento Demichelis, che però ha la tecnica di un centrocampista e per questo ha il compito di impostare. In mezzo al campo, il City punta molto a mantenere l’equilibrio di squadra e schiera due centrocampisti di copertura come Fernandinho e Fernando, con il primo più elettrico a coprire tutti gli spazi e il secondo, detto “il polpo” ai tempi delle sue grandi stagioni al Porto, con compiti anche di impostazione di gioco.

Il City difende molto alto anche quando la Roma è in possesso: qui Totti si abbassa sulla trequarti per lanciare in profondità Ljajic.
Sulle fasce, Navas dalla destra ha il compito di attaccare lo spazio dietro Holebas e di cercare spesso il cross per la punta unica Džeko, che da solo tiene impegnati i due centrali avversari. Milner sulla sinistra ha compiti più di copertura su Maicon, mentre Nasri rimane fluido in una posizione di trequartista solo teorica.
Nel corso della partita, non solo in fase difensiva, il Manchester ha adottato spesso un 4-4-2 molto corto, con Nasri seconda punta defilato a sinistra per attaccare Maicon, la cui fase difensiva è da sempre poco attenta. Sull’altra fascia la sfida tra Holebas e Navas è tra due giocatori abili nella fase offensiva ma con gravi carenze in copertura: solo che il greco è un terzino e lo spagnolo un’ala.
La Roma aveva iniziato con l’approccio giusto la partita, agevolata dalla possibilità di giocare il pallone sin dalla difesa: il City infatti non pressa alto sui difensori, ma aspetta invece che il pallone raggiunga i centrocampisti per una pressione a nuvola, magari scoordinata, ma efficace. Merito della difesa alta schierata da Pellegrini: un rischio elevatissimo contro un avversario che punta molto sulla possibilità di attaccare negli spazi, e inizialmente infatti la Roma è molto pericolosa.
In particolare la prima occasione della partita ha origine dalla creazione di densità sulla fascia destra: Totti approfitta dello scivolamento del City su quella zona di campo per servire sul lato debole Holebas, che attacca la profondità nel modo giusto ma si fa parare il tiro da Hart.
La Roma ha provato a spingere spesso sul lato destro del City per approfittare della solitudine di Zabaleta, lasciato più volte in 2 vs 1: prima Gervinho, poi Nainggolan hanno servito ottimi cross dalla fascia, ma la Roma non riempie mai l’area di rigore, è ormai una sua caratteristica, e i difensori avversari sono sempre riusciti a controllare bene i 16 metri.
Tutti i miei sbagli
Dopo l’iniziale sbandamento, il City ha iniziato a capire come muoversi in campo, sostanzialmente provando a copiare in piccolo alcune lezioni che aveva insegnato il Bayern. Džeko e Nasri, infatti, hanno cominciato a svariare su tutto il fronte d’attacco per allungare la difesa giallorossa e creare distanza tra i due centrali. Inoltre, i due riferimenti offensivi si spostavano spesso sulla stessa fascia, per creare densità e mettere la Roma in inferiorità numerica: mentre sulla sinistra Nainggolan provava a correre per quattro e chiudere le possibili triangolazioni tra Navas e Zabaleta, dall’altra Pjanić non riusciva ad aiutare Maicon, che non è apparso in giornata, per usare un eufemismo.
Il problema del dinamismo della Roma a centrocampo è emerso purtroppo con grande chiarezza in questa Champions League: il compito di aggredire gli avversari non può spettare solo a Nainggolan, l’unico che in tutte le partite sembra aver dimostrato la sua capacità di competere a livello internazionale.
Nella partita d’andata, Garcia aveva schierato Florenzi come ala destra, che in realtà aveva giocato a tutto campo, spesso da terzino, per coprire i buchi di Maicon, aiutando la squadra in maniera quasi commovente. Inoltre, la Roma ha un’età media molto alta per la Champions League, circa 29 anni (quasi un anno in più degli inglesi, che schieravano un solo ultratrentenne contro i quattro della Roma) e anche questo ha un peso nelle capacità atletiche della squadra.
Non è adatto alla più importante competizione calcistica per club neppure il pressing sgangherato che i giallorossi provano, a volte quasi casualmente, sui portatori avversari. Oltre a non ostacolare la costruzione del gioco, questa pressione disorganizzata determina anche dei forti squilibri difensivi una volta che l’avversario è riuscito a superarla.

La pressione disordinata di ben quattro giocatori della Roma permette a Demichelis di servire Navas, da solo a centrocampo e pronto ad una transizione offensiva rapida.
Si può obiettare che la Roma in realtà rinuncia ad un po’ di corsa per avere maggior tecnica, visto che l’obiettivo è il controllo del gioco attraverso il possesso palla. Purtroppo però il livello raggiunto nella circolazione del pallone è ancora scolastico, anche in Italia funziona solo contro squadre che non pressano né alte né in mezzo al campo.
Il City è riuscito ad inaridire la creazione di triangoli della Roma semplicemente accorciando il campo: Totti era sempre accerchiato da Fernandinho e Fernando, con la pressione da dietro di Mangala, persino quando scendeva nella propria metà campo. Pjanic e Keita, sempre costretti a forzare un dribbling per scavalcare le coperture del centrocampo avversario, raramente hanno potuto servire un compagno dietro la linea del City. A volte persino il bosniaco è stato costretto a scendere tra i due centrali per impostare l’azione: l’unico modo per poter avere un po’ di spazio libero. La soluzione più usata della Roma è stata quella di allargare il gioco sulle fasce, dove i terzini erano costretti a portare palla verso la trequarti (con tutti i pericoli che ne conseguono) o semplicemente a tornare indietro.
Per farla breve, la circolazione di palla della Roma ad eccezione di alcuni picchi stagionali (e forse va capito se stiamo assistendo a un'involuzione atletica prima che tecnica) continua ad essere sterile e non riesce a sopperire alla mancanza di dinamismo nelle coperture e negli inserimenti.

Un meccanismo che si è ripetuto tristemente ieri sera: linee di passaggio tutte bloccate, e Nainggolan è costretto a servire De Sanctis. Il gioco di posizione non funziona proprio così.
Si potrebbe obiettare che in campo c’erano almeno 4 potenziali fonti di gioco: oltre a Totti, anche Keita, Pjanić e Ljajic. In realtà, più che di fonti di gioco, dovremmo parlare semplicemente di 7 uomini (contando anche Nainggolan e i due centrali difensivi) che si passavano la palla tra loro agevolati proprio dal fatto che erano in 7.
Questa volta ha avuto ragione Pellegrini: l’azzardo della difesa alta ha funzionato, perché il City si condensava in 20 metri a cavallo della linea di centrocampo, levando l’ossigeno al possesso giallorosso. Dopo aver superato il primo tempo indenne, la squadra che ha vinto due volte la Premier League nelle ultime tre stagioni, ha cominciato ad attaccare ancora più alta, incoraggiata da una Roma leggermente più impaurita. Si è visto di nuovo anche il pressing alto su De Sanctis, uno degli strumenti più efficaci per rovinare l’impostazione di gioco dei giallorossi e rientrare in possesso del pallone senza correre rischi (se non addirittura segnare come nel caso di Zaza).
Il gol di Nasri è arrivato quando la Roma cominciava ad accarezzare il sogno scriteriato dello 0-0, ed è un condensato degli errori già evidenziati. Maicon si è avventurato in una pressione sballata sul portatore avversario, Nasri, inseguendolo fino a centrocampo; nel frattempo Gervinho si era posizionato in copertura al posto del brasiliano, che ritornava trotterellando, mentre Nasri lo superava in corsa ed era servito da Clichy. Appena entrato in possesso del pallone, il francese era lasciato inspiegabilmente solo dal terzino destro della Roma, mentre Gervinho guardava disinteressato, ritenendo il suo compito concluso. A quel punto, Milner creava lo spazio attaccando la profondità e attraendo Keita in una trappola, visto che Manolas stava già andando in copertura. Per ultimo, Pjanic ha provato ad inseguire Nasri, ma ormai era troppo tardi.

Holebas non ha linee di passaggio e non potrà far altro che tornare indietro. Da notare anche il posizionamento dei 3 attaccanti giallorossi.
Il gol è un vero shock per la Roma che a quel punto averebbe avuto bisogno di segnare due volte per passare il turno, ed è vero che sarebbe stato difficile per chiunque. Mancavano però più di 30 minuti alla fine della partita, e il City non sembrava la miglior squadra del mondo (ci siamo concentrati sulla Roma, ma anche i citizens hanno dimostrato davvero poco) nel difendere.
L’unica reazione è stata creata su calcio piazzato, con Manolas che è staccato di testa in modo perfetto ma Hart e il palo gli hanno negato anche quella gioia (come si dice a Roma...). Subito dopo, Destro non ha approfittato di un’uscita a vuoto di Hart e con la porta spalancata ha tirato addosso a Demichelis. Anche la fragilità psicologica è un difetto a livello europeo: la Roma si è arresa subito dopo aver subito il gol, come si arrese contro il Bayern dopo il secondo gol, dando per scontato che la partita non si potesse più riprendere. Paradossalmente la mancata reazione sullo 0-1 ci toglie il dubbio che la Roma giocasse a bassa intensità per difendere lo 0-0, perché anche quando non aveva più niente da perdere non è riuscita a cambiare marcia.
Forse questo atteggiamento è aumentato dalla difficoltà di Rudi Garcia di cambiare le partite in corsa: le sostituzioni sono sembrate, nell'ordine: provate per disperazione, sbagliate (Ljajic sembrava l'unico con qualcosa da dare davanti) e basate sull'intuizione più che su una strategia tattica precisa. Quando le cose vanno male, a volte i giocatori sembrano in cerca di un aiuto che poche volte è arrivato.
Il raddoppio di Zabaleta è la conclusione amara di un girone che, come la celebre mano di Mario Brega, poteva essere di ferro, ma anche di piuma.
Conclusioni
Alla fine la Roma ha fallito l’esame perché non era ancora pronta, perché non si era preparata a sufficienza. Questa eliminazione può avere conseguenze negative, per questo adesso la Roma entra in uno di quei momenti decisivi per qualsiasi squadra. La competizione significa spesso sconfitta e la reazione è l'unica cosa che ci rende davvero vincenti. La Roma deve capire se vuole dare la colpa alla sfortuna, perché magari è vero che con altre “domande” sarebbe passata, e che forse il Professore ha promosso un altro che non aveva risposto granché meglio; oppure scegliere di consolarsi pensando alla mediocrità degli altri compagni di studio, quelli della Serie A, per solleticare di nuovo il proprio ego.
La vera alternativa, invece, è andare in mare aperto, studiare gli errori, capirli, provare a ripararli per poter veramente competere al massimo livello. L’Europa League non garantisce grandi introiti ma è chiaramente ciò di cui la Roma ha bisogno: una competizione europea con avversari di valore, per costruire un percorso di crescita vero e duraturo (e da quest’anno chi la vince andrà in Champions League). Non si va avanti in Europa dopo anni di digiuno, neppure comprando vagonate di campioni: in fondo, è proprio la lezione del Manchester City.
Va fatta un'ultima considerazione: i giallorossi sembrano ancora troppo distanti dalla Juventus per capacità di competere con continuità. La Roma può essere splendida per qualche partita, ma non per tutte. La prossima partita di Genova, contro la squadra di Gasperini terza in classifica, serve proprio per rimettersi in pista subito dopo un’uscita di strada, a non lasciarsi andare nella tormenta dei processi del giorno dopo.
Questa eliminazione può avere una morale anche per i tifosi, per noi tifosi della Roma. Quello di ieri è stato una sorta di giorno della marmotta giallorossa: c’era un’aspettativa elevatissima su questa squadra, per l’ennesima volta costretta ad un’impresa per passare il turno, per l’ennesima volta con un’ambiente pronto a caricare di significati epici la partita, con uno stadio pienissimo, con proclami di vittoria anticipata. E tutto questo aveva generato nel tifoso medio una rassegnazione quasi fatale: era tutto già scritto, me lo dicevano i miei amici già dalla mattinata.
Non so come, ma anche io, come lo scrittore spagnolo Javier Marías, grande tifoso del Real, sono convinto che le caratteristiche di un ambiente e la storia di un club riescano a raggiungere i giocatori: anche se parliamo di professionisti provenienti da tutti i paesi del mondo che non passano il loro tempo ad ascoltare le radio calcistiche. Un fatalismo che può essere una parte del problema: la Roma ha vinto solo quando un “papa straniero” è riuscito a portare una mentalità diversa nella squadra e nel famigerato e impalpabile ambiente (da Falcao a Capello). Proviamo a capire gli errori, anche noi.