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Redazione
Fondamentali: quinta giornata
24 set 2015
24 set 2015
Brevi spunti tattici da Fiorentina - Bologna, Udinese - Milan, Inter - Verona e Chievo - Torino.
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Il “derby degli Appennini” tra Fiorentina e Bologna non è stato particolarmente interessante: il tema della partita è emerso da subito, le occasioni da gol sono state poche e la partita è stata ricca sopratutto di errori (tecnici, tattici e di letture in campo). A dar vita a una partita bruttina è stato Delio Rossi: il suo Bologna dal punto di vista tattico ha veramente poco da offrire al momento alla Serie A, con una strategia tanto elementare quanto poco efficace.

 

L’idea di fondo era quella di bloccare il centro e ripartire con verticalizzazioni veloci, ma senza il pallone (per quasi tutta la partita, visto che ha registrato un misero 27% di possesso palla) il Bologna si schierava in un 4-5-1 con la difesa bassa e il trio di centrocampo a poca distanza. Destro unica punta centrale, i due esterni a cui veniva chiesto di aprirsi e scattare in avanti per prepararsi ai rilanci non appena viene riconquistato il pallone dalla difesa... davvero poca roba.

 

La Fiorentina da parte sua ha controllato con facilità la partita, azzerando le possibilità per gli avversari di creare reali pericoli. E però, anche Paulo Sousa ha preferito mantenere un atteggiamento molto, forse troppo cauto rispetto alla proposta dei rivali: sapendo di poter dominare il possesso dal primo minuto e di avere la superiorità numerica tra i difensori centrali e l’unica punta, il portoghese ha deciso comunque di tenere tre centrali difensivi in campo. In questo modo, la squadra in fase di possesso si schierava in un 3-4-2-1 in cui gli unici con libertà di movimento erano i centrocampisti.

 

Con il Bologna che pressava con pochi uomini, e Marcos Alonso e Kuba larghi a centrocampo, la costruzione della manovra dal basso viola sembrava ridondante (nell'immagine qui sotto Borja Valero sembra capirlo, infatti fa il movimento contrario ai compagni).

 



 

L’attacco della Fiorentina (Rebic e Borja Valero dietro Babacar) impiegava molto tempo a capire cosa fare nella trequarti avversaria, infoltita di giocatori del Bologna. Borja si muoveva molto per il campo, andando a offrire aiuto sia ai centrocampisti centrali che all’esterno di destra, Kuba, per triangolazioni veloci (e per sfuggire alla marcatura di Diawara). Rebic, invece, sembrava a disagio nell'aiutare i compagni con il proprio movimento: si è impegnato molto, ma ha sbagliato sia i modi che i tempi di inserimento in area, rendendo ancora più difficile il compito a Babacar, che da questo punto di vista non convince affatto Sousa (lo ha richiamato più volte durante l’incontro).

 

La Fiorentina ha capito che il modo migliore per attaccare il Bologna era cambiare gioco per trovare l’esterno sul lato debole, isolato contro il terzino avversario (che ha sempre molto campo da coprire prima visto che il Bologna preferisce difendere con la densità al centro, costringendo i terzini a posizionarsi vicino ai centrali).

 



 

La partita della Fiorentina inizia a girare per il verso giusto solo con l’entrata di Kalinic per Babacar nel secondo tempo (vedi alla voce importanza delle sostituzioni al momento giusto). Il croato ha compiuto movimenti più in linea con le richieste di Sousa, rendendo la vita più difficile ai centrali del Bologna e lasciando i trequartisti liberi di abbandonare il centro. È stato Rebic a sbloccare la gara, proprio allargandosi a crossare per la testa di Vecino. Il secondo gol è arrivato di nuovo da un cross, questa volta di Marcos Alonso.

 

Il Bologna, dal canto suo, ha passato la partita a lanciare lungo sperando nella gestione delle seconde palle (che non gli è mai riuscita) e a tentare folate occasionali di pressing, gestite facilmente dalla retroguardia viola, sempre in superiorità numerica. Delio Rossi ha cambiato uomini e schieramento offensivo nella seconda metà del secondo tempo, ma il Bologna non è riuscito a creare reali occasioni da gol.

 





 

Le prime quattro giornate non avevano dato indicazioni chiare sul percorso intrapreso da Mihajlovic, con vittorie poco convincenti (contro l’Empoli) e sconfitte che avevano lasciato l’amaro in bocca (il derby). Il Milan arrivava alla quinta giornata come un ragazzo all’esame di maturità. Di fronte però non si ritrovava una commissione di professori, ma l’Udinese, che aveva iniziato benissimo il campionato vincendo allo Juventus Stadium per poi afflosciarsi con 3 sconfitte consecutive. Le due squadre si presentavano con i soliti moduli base (4-3-1-2 per il Milan, 5-3-2 per l’Udinese), ma con alcune rilevanti sorprese negli uomini: i rossoneri sostituivano Luiz Adriano e Abate con Balotelli e Calabria, mentre Colantuono teneva in panchina Zapata e Danilo per far giocare Théréau e Domizzi.

 

L’Udinese ha iniziato la partita con un atteggiamento aggressivo: dai primi minuti di gioco ha tentato un pressing alto e intenso, votato al recupero immediato del pallone. Questa strategia, però, si è rivelata subito confusa e controproducente, un po’ per gli errori concettuali dei giocatori di Colantuono (particolarmente carente sotto un profilo tattico la prestazione dei due terzini, Adnan ed Edenilson, sempre indecisi sui tempi di intervento e attesa), un po’ per la peculiare costruzione dell’azione da parte del Milan. I rossoneri, infatti, a inizio azione svuotavano il centrocampo portando le mezzali altissime e molto esterne, nello spazio tra i tre centrali e i terzini bianconeri, e abbassando sulla difesa il vertice basso del rombo, Montolivo.

 


Il centrocampo svuotato del Milan mette in crisi il sistema di pressione dell’Udinese. Le due mezzali rossonere salgono con un taglio a uscire e vengono coperte in maniera asimmetrica dai bianconeri: Edenilson va alto su De Sciglio, rimanendo a metà strada e costringendo Badu a uscire dalla sua posizione per seguire Bonaventura; Adnan invece rimane basso su de Jong, ma Bruno Fernandes è ipnotizzato dal pallone. Nonostante ciò, la costruzione dal basso del Milan è macchinosa e Romagnoli è costretto a una verticalizzazione difficile verso Balotelli, che si è abbassato sul centrocampo (infatti perderà il pallone).



 

La strategia ha mandato in tilt il sistema di pressing dell’Udinese con i terzini e le mezzali che sembravano non avere le idee chiare su chi dovesse prendere in consegna Bonaventura e de Jong. Bruno Fernandes e Badu, infatti, non riuscivano ad assorbire i tagli delle mezzali rossonere costringendo o i terzini a rimanere bassi (così da permettere la salita di quelli del Milan) oppure i due centrali esterni, Piris e Wague, ad allargarsi lasciando Domizzi in inferiorità numerica. È da questa confusione che nasce il gol del 2-0 del Milan, con l’inserimento di Bonaventura, che viene lasciato entrare in area da Badu.

 

Tuttavia, svuotare il centrocampo non aveva aiutato il Milan nella costruzione dell’azione dal basso, con i centrali di difesa e Montolivo che, per far avanzare il baricentro della squadra, avevano come opzioni solo il lancio lungo o la verticalizzazione verso Balotelli (come al solito accentratore del gioco, in positivo e in negativo), che si schiacciava sistematicamente sul centrocampo. I rossoneri hanno di fatto creato poco su azione, segnando tre gol sugli unici tre tiri in porta di tutta la partita, di cui due nati da palla inattiva (l’unica altra occasione pericolosa, sciupata da Bacca, è nata su un errore macroscopico di Domizzi in fase di impostazione).

 

All’inizio del secondo tempo Colantuono ha deciso di tentare il tutto per tutto sostituendo Piris con Duván Zapata e sistemando l’Udinese con un 4-3-1-2 a specchio rispetto a quello del Milan. La mossa non solo ha facilitato i ruoli individuali dei suoi giocatori, ma ha anche messo in crisi le mezzali rossonere, che lasciavano sistematicamente scoperto Montolivo nei confronti degli inserimenti delle mezzali dell’Udinese. Il maggiore peso offensivo dell’Udinese ha inoltre evidenziato i limiti dinamici della difesa del Milan, ulteriormente accentuati dalla decisione di Mihajlovic di cambiare Calabria con Alex, spostando Zapata sulla destra. Sul gol del 2-3 di Zapata, Romagnoli viene aggirato troppo facilmente da un semplice movimento a mezzaluna di Théréau, che poi è totalmente libero di servire l’assist al centro dell’area.

 


I problemi del Milan nel secondo tempo. Honda è in ritardo e Montolivo è costretto a lasciare libero Théréau tra le linee. Nel frattempo Zapata è stato portato fuori posizione da suo cugino, mentre de Jong deve ripiegare sulla linea difensiva per coprire l’avanzata di Adnan. Badu è libero di inserirsi alle spalle di Bonaventura, costringendo De Sciglio (fuori inquadratura) ad avvicinarsi a Romagnoli. La somma delle cose lascia Bruno Fernandes libero di cambiare gioco per Edenilson (fuori inquadratura) che potrà attaccare il lato scoperto del Milan.



 

Il ritorno nervoso dell’Udinese è stato positivamente arginato da Mihajlovic intorno al 70.esimo del secondo tempo, passando a un 4-4-2 con il centrocampo in linea. La presenza di de Jong al centro del campo ha protetto Montolivo dagli inserimenti delle mezzali bianconere, mentre la presenza dei dinamici Bonaventura e Poli (subentrato nel frattempo per Honda, probabilmente il peggiore del Milan) sugli esterni ha assorbito le avanzate di Edenilson e Adnan (particolarmente negativa la prestazione di quest’ultimo). Negli ultimi 20 minuti l’Udinese non ha creato praticamente nessun pericolo, se si escludono i disperati tentativi finali.

 

In definitiva, è difficile dire quanto la vittoria del Milan possa considerarsi un passo in avanti nell’evoluzione del gioco di Mihajlovic. I rossoneri non avranno sempre la fortuna di capitalizzare al massimo le occasioni create, come ha ricordato lo stesso tecnico serbo nel post-partita, mentre difesa e centrocampo continuano ad avere dei difetti strutturali nell’assorbimento degli inserimenti avversari. L’Udinese, invece, continua ad affondare, in un mix di lacune tecnico-tattiche, nonostante la buona qualità della rosa.

 





 

Di fronte al Verona e al suo «

», non si può parlare solo di tattica in senso stretto: non c’entra il modulo (ieri 5-3-2 con Albertazzi e Pisano esterni) né sarebbero rilevanti le sue difficoltà realizzative (a oggi, il diciassettesimo attacco della lega). Il problema del Verona, e per esteso di una certa idea di calcio, sono le scelte, sia a livello individuale: preferire lasciare scorrere in rimessa laterale piuttosto che rischiare un controllo complicato; che di squadra: avere la possibilità di far circolare la palla in difesa, dato il 3 contro 1 in zona centrale, o preferire il lancio lungo. Dover fare a meno di Márquez, Hallfredsson, Rômulo e Toni, sostanzialmente l’ossatura su cui è stata costruita la rosa, è un’attenuante gigantesca, ma continuare a preferire il lancio lungo pur giocando davanti con Siligardi e Juanito Gómez no, ed è un errore figlio delle cattive abitudini di cui sopra.

 

Eppure questo Verona non è andato troppo lontano dallo strappare punti in casa della capolista. Prima Russo ha lasciato correre sul contatto Medel-Gómez; poi Sala ha stampato sulla traversa la migliore delle occasioni. L’Hellas ci insegna che minimizzare i rischi e ottimizzare le opportunità è una strategia che in Serie A paga i suoi dividendi, ma che mal si adatta all’imprevisto: il gol su calcio piazzato (Felipe Melo), la caviglia di Pazzini che cede dopo 20 minuti (sempre Felipe Melo), Siligardi unica punta e il giovane Zaccagni buttato nella mischia quando anche Sala ha chiesto il cambio. Alcuni punti fermi cui aggrapparsi: la grande prestazione di Leandro Greco, contemporaneamente miglior difensore e miglior creatore del suo centrocampo, e la sicurezza di Viviani nel non perdere mai la posizione, coordinare le distanze e mettere in ordine la confusa fase di possesso veronese.

 


Due dei temi principali della partita. Il Verona che rientra con gli attaccanti sulla trequarti difensiva, ma tiene strettissime le linee, e la scarsa propensione di Ljajic (e l’alta propensione di Icardi) a cercare spazi.



 

Il problema principale dell’Inter è che i pregi e i difetti sono grosso modo gli stessi della prima giornata, e il sospetto è che siano più strutturali di quanto si potesse pensare allora. Qualunque trequartista provato (solo ieri, tre: Perisic, Ljajic, Jovetic) non migliora la trama offensiva, anzi va a intasare le linee di passaggio. La mediana a due, con cui Mancini ha concluso il primo tempo e giocato tutto il secondo tempo, non è sostenibile. In inferiorità, l’Inter perde le distanze a centrocampo, limitando moltissimo la propria qualità principale, quel recupero palla aggressivo e vagamente “istintivo”, perché non frutto di movimenti sincronizzati, ma talmente naturale per giocatori come Melo, Miranda, Medel, Kondogbia, da sembrare semplicissimo.

 

L’unica mediana a due con cui l’Inter non perde in intensità e conserva la stessa sicurezza (perché di questo si tratta) è Melo-Kondogbia, che rendono meglio se schierati sulla stessa linea, solo che il francese continua a faticare nella lettura dei tagli degli avversari alle sue spalle; così come Ljajic fatica a creare spazi e a volere solo la palla sui piedi.

 


La migliore occasione del Verona (Greco ha la palla, Sala è già scattato) è solo una delle tante amnesie posizionali di Kondogbia, che non prende una decisione. Non tutte sono avvenute in transizione, decisamente più preoccupanti quelle a difesa schierata.



 

I cambi di Mancini sono stati quindi condivisibili nelle intenzioni, sebbene fallimentari nei risultati. Biabiany, timidissimo e sarebbe stato strano il contrario, è stato fondamentalmente deleterio. Non ha mai tagliato lo spazio a destra quando Perisic e il brillante Telles gestivano il possesso a sinistra, non ha mai fatto i movimenti giusti in contropiede. Il dato positivo è stato il generoso lavoro di Jovetic nel recuperare palla senza mai tirare indietro la gamba, ma abbastanza orrenda è stata la gestione di tutto quello che seguiva. È qui il più grande margine di miglioramento di quest’Inter, nella transizione offensiva che solo Icardi in rosa sa interpretare (servisse ricordarlo, ha deciso il derby con quel movimento ad allontanare Zapata) e che se sfruttata meglio avrebbe potuto arrotondare il punteggio sia contro il Chievo che ieri.

 





 

In un certo senso, Chievo e Torino è stata una vera sfida di vertice: entrambe le squadre sono state molto attente agli equilibri, anche se non hanno tradito la velocità e l'aggressività mostrata nelle partite precedenti.

 

E va detto subito che neanche il Chievo dei miracoli di Delneri giocava con tanta intensità: Maran ha europeizzato il gioco dei clivensi rendendoli sotto certi aspetti una felice novità di questa Serie A 2015-16. Alcuni principi di gioco sembrano introdotti per durare, efficaci: su tutti spicca la volontà di giocare solo in momenti ben precisi con una linea difensiva bassa, alternando per il resto due linee strette di centrocampo e difesa e una pressione spesso molto alta. Il Chievo è tra le prime squadre per anticipi, non solo ha avanzato in maniera significativa la zona di pressing, ma anche aumentato la velocità del recupero palla. Tornando indietro, la partita con la Juve non è un caso e si potrebbe dire che abbia alzato l'asticella per le sqaudre medio-piccole quando si tratta di giocare in trasferta contro una big.

 

In fase offensiva, il 4-3-1-2 di Maran è impostato su una verticalità che non ha molti altri esempi in Italia, con movimenti sincronizzati evidenti anche contro il Torino, fino al gol che ha deciso la partita. Birsa (per ora potenziale MVP del campionato) è il fulcro di questo meccanismo: con i suoi movimenti in orizzontale, soprattutto verso la parte sinistra del campo, apre costantemente spazi al centro che vengono riempiti dalle mezzali. Paloschi e Meggiorini seguono una direttrice centrale, ma in direzioni opposte: il secondo viene più spesso incontro del primo, che attacca la profondità. A fare la differenza, però, dal punto di vista tattico, sono stati Hetemaj e Castro, con inserimenti che hanno dato immediata superiorità numerica, serviti da palloni profondi che possono arrivare anche da lanci dalla difesa.

 

Il gol di Castro contro il Torino nasce da un'idea di una verticalità estrema, che ha trasformato una normale transizione offensiva in un contropiede fulmineo, un lancio dalla difesa per la punta in un'occasione.

 



 

Anche Ventura sembra aver dato importanza alla gara, a partire dalla scelta di giocare con gli stessi giocatori delle precedenti giornate e il solito 3-5-2 molto classico, con tre difensori centrali veri e propri, due terzini più offensivi che difensivi, un regista (Vives) capace di muovere la sfera da destra a sinistra e due mezzali a inserirsi e coprire. Il Torino ha giocato quasi unicamente sulle fasce, ma è sembrato dipendere fin troppo dalle invenzioni di Bruno Peres, e dalla capacità di Quagliarella giocare i palloni centrali. La ricerca del fondo è quasi l'unica soluzione che in casi di difficoltà il Toro sembra in grado di trovare (22 cross totali durante la gara). In questo senso la partita con il Chievo sembra aver indicato la necessità, per Ventura, di ampliare lo spettro delle alternative offensive. Ora come ora una buona difesa, o un po' di imprecisione in attacco, sembrano sufficienti a vanificare gli sforzi granata.

 



 

Inutile sottolineare

nel calcio contemporaneo, e Maran sembra sul pezzo: il cambio dopo dieci minuti dall'inizio del secondo tempo, con cui ha sostituito Pellissier con Meggiorini, ha pagato: il nuovo entrato ha corso per la restante mezz'ora a una velocità doppia rispetto agli altri giocatori in campo. Non è solo una questione fisica, dal punto di vista mentale Meggiorini sembra in una fase sublime (il tacco con la Lazio è l'espressione più evidente di questo stato di forma) e la prestazione contro i granata conferma una serenità che gli ha permesso di entrare in corsa e cambiare le sorti della partita, con la consapevolezza dei propri mezzi tecnici (vedi la rovesciata tentata) e l'inserimento in un gioco ideale per lui (vedi situazione del gol). Meggiorini sa di poter essere decisivo.

 

L'uno a zero finale premia il Chievo, che scavalca il Toro e guarda dall'alto Milan, Roma, Lazio e Juve, ma sopratutto conferma l'idea che una squadra molto organizzata tatticamente e attenta ai dettagli può superare competere con squadre ricche di di campioni, ma ancora alla ricerca di un’identità.

 
 

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