Esclusive per gli abbonati
Newsletters
About
UU è una rivista di sport fondata a luglio del 2013, da ottobre 2022 è indipendente e si sostiene grazie agli abbonamenti dei suoi lettori
Segui UltimoUomo
Cookie policy
Preferenze
→ UU Srls - Via Parigi 11 00185 Roma - P. IVA 14451341003 - ISSN 2974-5217.
Menu
Articolo
La follia del ciclocross sulla neve vista da vicino
20 dic 2021
20 dic 2021
Siamo stati alla Coppa del mondo di ciclocross disputata a Vermiglio.
(articolo)
14 min
Dark mode
(ON)

È appena finita una gara, ne sta per iniziare un’altra e in zona premiazioni non si capisce nulla. Mentre le autorità aspettano che le atlete salgano sul palco per essere acclamate, nascosto in una cuffia grigia il presidente federale Cordiano Dagnoni non muove neanche un muscolo. Guarda un punto lontano nella valle mentre ai suoi piedi ha le tre bottiglie di vino che saranno aperte sulla folla.

Molti fotografi si concentrano su Eva Lechner: la bolzanina è perfettamente a suo agio in questo freddo polare. Ripone qualcosa nello zaino gigante che un meccanico-sherpa le ha portato e si prepara alle interviste. Puck Pieterse, invece, vorrebbe essere da tutt’altra parte. È arrivata a quasi tre minuti dalla vincitrice, per un nono posto che è anche il suo peggior piazzamento quest’anno. Classe 2002, Pieterse è uno dei migliori talenti della disciplina: a Tabor un mese fa avrebbe vinto la sua prima prova di Coppa del mondo tra le élite se non ci fosse stata Lucinda Brand. Ma questa giornata vuole dimenticarla velocemente.

L’addetto che deve staccarle il numero dalla schiena deve piegarsi di quarantacinque gradi verso sinistra perché Pieterse sta pensando ad altro. Ha così freddo che si muove in modo robotico. Lì vicino, Rebecca Gariboldi ha un sottocasco molto colorato e dal casco rossonero le esce un’elegante treccia bionda. Controlla il foglio dell’antidoping, il suo numero non è stato estratto, se ne va.

Puck Pieterse, invece, non può allontanarsi. Ora la coda di cavallo le esce dal cappellino blu della Canyon: in un amen si è cambiata, dai vestiti da gara a quelli di rappresentanza, e sta aspettando di essere chiamata sul palco. Non in quanto medagliata del giorno, ma come terza in classifica generale di Coppa del mondo. Non ha un giaccone, niente guanti, quindi ritira le mani dentro la felpa della Alpecin-Fenix, la sua squadra. Unisce le mani nel tentativo di scaldarle, ma rimangono dello stesso colore dei calzini: bianche. Trema come non si vedono spesso atleti professionisti tremare.

Esattamente dietro al podio, la bici di Maghalie Rochette è conficcata nella neve. Piccole foglie d’acero disegnate sul telaio sembrano ruggine viste da lontano. La campionessa nazionale canadese si aspettava un «grande casino», ha scritto sulla sua newsletter, ma così non è stato: «Bravissimo è la parola che userei per descrivere l’evento». La Coppa del mondo di ciclocross a Vermiglio è stata tante cose: sicuramente fredda e innevata, probabilmente storica, forse anche bravissima.

Puck Pieterse sulla parabolica. Foto di Giacomo Podetti.

Qualcosa di nuovo

Un cartello gigante di legno con la scritta “PRESEPI DI UN TEMPO” verniciata in bianco non è esattamente ciò che ci si aspetta di trovare quando si arriva a un evento di Coppa del mondo di ciclocross. Ma la tappa di Vermiglio non ha praticamente nulla di ordinario: a cominciare dalla nazione in cui si svolge. L’Italia torna ad ospitare una frazione di Coppa del mondo anni dopo Fiuggi nel 2017 e Roma nel 2014. L’altitudine è inedita per la disciplina: Vermiglio è l’ultimo comune trentino salendo verso il passo del Tonale, a oltre milleduecento metri d’altezza. Infine, ed è il motivo per cui il ciclocross ha spinto per essere qui, ha la neve.

Il CX, come viene abbreviato, è uno sport invernale. La stagione del cross (espressione bellissima perché esprime bene la natura subalterna ma orgogliosa della disciplina) inizia a ottobre, si sviluppa in tutti i mesi più freddi dell’anno e termina verso fine febbraio. Flanders Classics, la società coordinatrice della Coppa del mondo, ha introdotto la tappa a quota più alta della sua storia perché vuole attirare l’attenzione del CIO: riuscire a portare il ciclocross alle Olimpiadi invernali è l’obiettivo ultimo dell’Unione Ciclistica Internazionale.

Quella di Vermiglio non è la prima gara in assoluto di ciclocross sulla neve, ma è la prima pensata appositamente per essere svolta sulla neve. Se non fosse nevicato, l’area circostante ai Laghetti di San Leonardo sarebbe stata imbiancata artificialmente. Non ce n’è stato bisogno: tre abbondanti nevicate, di cui le ultime due a ridosso della gara, hanno generato il problema opposto, cioè la troppa neve. Ruspe dell’organizzazione hanno tolto cumuli di neve per giorni, e poi andava appiattito un minimo il percorso, piantati i pali, messe le recinzioni per tracciare il percorso.

L’ultima novità è rappresentata dalla disciplina in sé: la Val di Sole è spesso attraversata dal Giro d’Italia (tappa 17 Giro 2019, per esempio) e quindi dal ciclismo su strada; è la patria della mountain bike e del downhill, avendo ospitato i Mondiali nel 2008, nel 2016 e quest’anno. Il ciclocross è una cosa ancora diversa: le bici impiegate sono più simili a quelle da strada, ma il percorso non è asfaltato. È pensato per atleti esplosivi, ma forse la caratteristica più importante è l’abilità nella guida. È una disciplina storica, ma dominante solo in Olanda e Belgio.

Poker belga: Toon Vandebosch, Tom Meeusen, Niels Vandeputte e Vincent Baestaens. Nella top-20 di Coppa del mondo, al momento sono solo due i crossisti che non vengono dal Benelux. Similmente, la classifica femminile vede le prime sette posizioni tutte occupate da crossiste olandesi. Foto di Giacomo Podetti.

Pura passione

Il ciclocross è un animale strano, per due motivi: perché si usano bici particolari e perché bisogna essere un po’ pazzi, per fare i crossisti. Alessandro Guerciotti, team manager dell’omonimo team, ammette che «a vedersi una bici da ciclocross sembra una bici da strada, ma ci sono grandi differenze. Il carbonio è diverso, per esempio, perché dev’essere più resistente alle sollecitazioni della corsa». Luca Bortolotto, meccanico della Nazionale italiana, ne elenca altre: «Geometrie del telaio, ingranaggi un po’ più agili, gonfiaggio delle gomme. Qui abbiamo portato copertoni da asciutto, da fango e da misto. Come pressione si va da 1 a 1.1 bar, pochissimo, per avere più aderenza possibile».

In griglia di partenza, Bortolotto e colleghi stanno fregando con delle spazzole le suole delle scarpe delle atlete italiane: è l’ultima passata di sbloccante e antigelo, che eviterà il formarsi di ghiaccio sotto i piedi. Questi prodotti, assicura Bortolotto, sono stati spruzzati in abbondanza anche «sulle rotelline del cambio, sui cricchetti delle ruote, sulle tacchette. Col grasso potrebbe congelare tutto e la bici diventerebbe una scatto fisso».

La questione del perché fare i crossisti, invece, è più intricata. In certe lezioni di sociologia, spiegano che l’uomo è un animale abitudinario. Tende cioè a voler fare le stesse cose giorno dopo giorno perché sa cosa aspettarsi. Appena può, inoltre, semplifica la propria vita, seguendo il principio di andare dal punto A al punto B nel più breve tempo possibile. Ecco, il ciclocross no. Ha solo aspetti contro-intuitivi e disturbanti: in praticamente ogni gara di CX ci sono barriere alte 40 cm che spezzano un rettilineo, ad esempio, o scale da superare facendo ciò che nessun ciclista, in un mondo abitudinario, vorrebbe mai fare: scendere dalla bici e portarla in spalla.

Wout van Aert, di corsa. Foto di Daniele Molineris.

Visto dall’alto e con occhio cinico, un percorso di ciclocross non è tanto diverso da quelli che certe persone costruiscono per i loro criceti: ponticelli, curve a gomito, paraboliche, piccoli ostacoli di vario genere. Il CX è uno sforzo immane, breve e intenso (raramente una gara dura più di un’ora), che svuota completamente. Anche la gara meno importante si svolge spesso nelle condizioni più assurde per la vita umana. Nel fango, in campi aperti nel mezzo del nulla (uno dei posti in Italia in cui la tradizione del cross è più radicata è Silvelle di Trebaseleghe, frazione di 1500 abitanti in provincia di Padova), al freddo, con una visibilità e un ritorno economico che – quando va bene – è un decimo rispetto al ciclismo su strada. Hanno fatto il giro del mondo le immagini di Colbrelli vincitore infangato della Parigi-Roubaix: nel ciclocross è del tutto normale arrivare a fine gara irriconoscibili.

Il motivo per cui, quando inforchi una bici, pensi che sarebbe bello provare a fare ciclocross, è lo stesso che spinge i bambini a diventare portieri: andare controcorrente e fare qualcosa per pura passione.

Scacco alla regina

Da almeno un paio d’ore, il signor Sergio sta lavorando sotto al tendone del vin brulé. Questa e altre bevande calde sono beni necessari in una valle chiamata “di Sole” ma che costringe all’ombra il 95% del percorso di gara, per tutto il giorno. Sergio non alza gli occhi quando gli passa davanti Tomas Van Den Spiegel, altrimenti non potrebbe fare a meno di notarlo: il grande capo di Flanders Classics è un ex cestista alto più di due metri e dieci.

Sono le undici di mattina e le quattromila persone giunte a Vermiglio per vedere le gare si stanno distribuendo lungo il percorso. Tra queste anche Vissola, Scriccio e amici, tifosi piacentini che in una mattina di gare agli Europei di Trento avevano cucinato una frittata di cipolle enorme, per sfamare sé e tutti coloro che ne chiedevano un pezzo. Tranne un tifoso francese, al quale risposero un netto: «Vai a cagare te e Alaphilippe».

Il torrente Vermigliana è attraversato in due punti: il primo è un ponte lungo e pianeggiante, il secondo – per tornare verso il traguardo – è breve ma molto ripido. Così insidioso che si scivola nel percorrerlo a piedi. Nella giornata precedente, dedicata alle prove libere, sul ponte se ne sono viste di tutti i colori: «Sembra la prima volta che vado in bici» scherza una ragazza del team KTM Alchemist, dopo aver tentato più volte la scalata senza scendere dalla sella.

Nel giorno di gara, sul ponte staziona il padre di Rebecca Gariboldi. Al passaggio della figlia, fa un video rimanendo in silenzio: «Lei lo sa che sono qui, ma sto zitto sennò riprendo le mie urla». Poi maledice la decisione di esser entrato nel bar per scaldarsi: l’idea è che, rimanendo al freddo, il corpo dimentica cosa sia il calore e sta meglio. Non deve pensarla allo stesso modo Gaia Realini, che con un forte accento pescarese maledice il freddo, mentre si appresta a lasciare il paddock per andare verso la griglia di partenza.

Due tronchi e un pezzo di plastica tengono fermi i tappetini per i rulli, Realini e Gariboldi fanno riscaldamento, i tecnici danno gli ultimi consigli. «Certo che è stato chiesto il permesso ai proprietari dell’abitazione», assicurano.

Oltre alle atlete in testa alla corsa e alle italiane, riscuote un notevole quantitativo di applausi anche Kiona Crabbé, l’unica persona in braghette e maglietta corte di tutto il Trentino, probabilmente. Tutti erano curiosi di vedere come sarebbe tornata Marianne Vos, che si è presa due mesi di pausa dopo aver corso le prime tre prove di Coppa del mondo negli Stati Uniti, in ottobre. La risposta è chiara fin dall’inizio: piuttosto bene.

Sembra pronta a divorarsi il duo della Pauwels-Bingoal in testa alla corsa, al secondo giro, quando ha un problema meccanico. È una scena singolare: in telecronaca hanno perso il segnale video della corsa e parlano di una Vos scatenata proprio mentre le riprese inquadrano la sette volte campionessa del mondo ferma, alle prese col cambio della bici. La catena non torna a posto. Qualcuno prova a darle una mano, alzando la bici, ma Vos preferisce fare da sola. Quando riparte, è addirittura dietro la campionessa belga in carica Sanne Cant.

Poi comincia la rimonta. La sta seguendo anche un’ex ciclista della Fassa Bortolo, che è qui per supportare le vecchie compagne di squadra, «anche se io non ho mai fatto ciclocross» dice con un’espressione che aggiunge “per fortuna” alla fine della frase. Vos mette il turbo all’ultimo dei cinque giri: in un chilometro, cioè un terzo del tracciato, infila Betsema, Lechner e Rochette. Può insidiare la prima posizione di Fem van Empel, che è nata sempre a s’-Hertogenbosch ma quindici anni dopo, leader della corsa dalle prime curve.

Non si è mai voltata, la diciannovenne olandese, ma quando non hai ancora vinto tra le grandi, tantomeno in Coppa del mondo, e dietro preme la più grande ciclista di sempre, le gambe un po’ tremano. All’ultimo passaggio sul ponticello ripido, van Empel scende dalla bici, Vos no. Si mette sulla punta del sellino e sprigiona talmente tanti watt che la neve sembra sciogliersi sotto le sue ruote. È una prova di forza talmente evidente che Andrea De Luca in telecronaca esclama «oh mamma!».

Vos ha ormai van Empel nel mirino. Si attraversa perpendicolarmente la strada asfaltata per entrare nell’unico, brevissimo, tratto di percorso a sinistra del traguardo. Nella penultima curva, lunga e verso destra, Vos si butta all’interno con rabbia. È un attacco che van Empel non aveva previsto. Marianne però taglia troppo la curva e col braccio destro rimane avvinghiata al palo di legno all’interno della curva. Van Empel non può che frenare: la rivale si sta schiantando contro la rete e le ostruisce la via verso la sua prima vittoria in Coppa del mondo.

Le operazioni di recupero della bici e ritorno in sella fanno perdere troppo tempo a Vos, che dopo la gara definirà il sorpasso un «azzardo. Ci ho provato, tutto o niente». Van Empel ha finalmente strada libera davanti e, se per una frazione di secondo sembrava volesse aspettare Vos per giocarsela allo sprint ad armi pari, tira dritto. Accenna una volata alta sui pedali, con le mani basse sulle appendici, non appena si torna sull’asfalto. Poi si accorge di avercela fatta. Agita il braccio destro, tira fuori la lingua: non ha solo vinto, ha battuto Marianne Vos.

Marianne Vos compare alle spalle di Fem van Empel. Foto di Daniele Molineris.

Il ritorno del re

Marianna, addetta all’antidoping, taglia le domande dei giornalisti a Fem van Empel e non si può chiederle del suo passato da calciatrice. Faccio appena in tempo a mostrare a Vos il video in cui muove concitatamente il piede («i nervi. Quelli sono i nervi del pre-gara» risponde la vincitrice di trenta tappe al Giro Donne) che lo speaker sta facendo il conto alla rovescia per il via della gara maschile. Un ragazzo con la parrucca verde urla «alé Pippo!» nelle orecchie di Filippo Fontana. Il giorno prima, durante le prove sulla salita più dura della corsa, Fontana si ferma per dire a qualche amico «durissima, però oh, che spettacolo!».

Il muro di neve costringe i crossisti a scendere dalla bici e portarsela in spalla. Infilare il braccio nel telaio e mettersi la bici a tracolla, come fosse uno zainetto, è uno dei gesti più rappresentativi del ciclocross. Pochi al mondo montano e smontano dalla bici come Wout van Aert, che mette in chiaro le sue intenzioni fin dalle prime pedalate. È arrivato nella notte dal Belgio, dove il giorno prima ha dato due minuti a tutti nell’Ethias Cross di Essen e il giorno dopo è qui, in Trentino, dove vincerà di nuovo senza particolari problemi.

Cade anche lui un paio di volte, a dire il vero: la prima su un breve tratto ripido in cui non riesce ad appoggiarsi a monte, perde l’equilibrio verso le recinzioni e rimane in piedi anche grazie al sostegno dei tifosi; la seconda sul rettilineo prima del muro, quando mette le ruote su un mucchio di neve non compattata. In un tratto difficile è particolarmente forte, Wout van Aert: subito dopo il muro, si deve tornare in sella e sfruttare il miglior canale scavato nella neve per scendere in contropendenza. Dopodiché, altro monta-smonta per superare una salita e lanciarsi in discesa verso valle.

È un punto particolarmente tecnico del percorso, in cui se ne vedono di tutti i colori. Chi cade in discesa, chi in salita, chi usa la bici come monopattino, chi decide di farla tutta a piedi, chi si deve fermare per aggiustare i freni. Oltre le transenne, qualcuno ha portato motoseghe e campanacci con cui fare casino, bandieroni che rischiano di finire sul percorso di gara se chi li regge perde l’equilibrio, tante lattine di birra tenute in fresco nella neve, uno striscione dell’Atalanta e una cuffia della squadra di hockey del Djurgårdens, soprannominata l’orgoglio di Stoccolma.

Il muro di neve. Foto di Giacomo Podetti.

Anche nella gara maschile c’è una rimonta: è quella di Tom Pidcock, alla seconda gara di CX dell’anno e quindi con troppo pochi punti per partire davanti. Giro dopo giro, il campione olimpico di cross-country ha recuperato posizioni fino al gradino più basso del podio. Il giorno prima aveva detto di non essere «affatto sicuro che siano le condizioni migliori per andare in bicicletta», dopo la gara ha affermato che la prossima volta, magari, «andiamo a sciare. Adoro sciare. C’è un futuro per questo snowcross, ma non vorrei farlo ogni settimana».

Pidcock, che sabato ha provato il circuito senza guanti, è ora avvolto in un giubbotto molto spesso. Durante le interviste, invece, Wout van Aert si toglie addirittura i guanti. Tiene tra le mani una borraccia con scritto “recovery” e risponde alle domande più disparate. Su cosa era importante oggi («più l’abilità nel guidare la bici che la potenza; andava trovato un equilibrio tra andare forte e rimanere in piedi nelle curve») o sul suo amore per l’Italia («per le didascalie dei miei post su Instagram uso Google Translate»).

Quando gli chiedo se pensa di rendere anche questa vittoria un NFT, scherza: «Forse! Se questo tra dieci anni sarà uno degli eventi più importanti del mondo, potrò vendere la vittoria di oggi come NFT. Così diventerei finalmente ricco». Van Aert è molto grosso, ma quando gli si affianca Van Den Spiegel per le foto di rito deve saltare come cavalletta per raggiungerlo. Gli chiedono, infine, se si sente un po’ il re della neve dopo questa vittoria: «Preferisco il re del ciclocross» dice.

Attiva modalità lettura
Attiva modalità lettura