Il tifoso della Fiorentina ogni giorno si sveglia e sa che i suoi anni migliori, probabilmente, sono alle sue spalle. Non so quanto sia difficile tifare una squadra che vince sempre, né so come sarebbe tifare una squadra che non vince mai. Di certo è molto difficile tifare una squadra che per un certo periodo della sua storia ha dato l’illusione di essere vincente.
Domenica la Fiorentina ha compiuto 90 anni: il miglior modo per celebrare è ricordare.
1926-1936
Nel maggio del 1926, l’avvocato Arrigo Paganelli, segretario plenipotenziario della Palestra Ginnastica Fiorentina Libertas, riceve una telefonata particolare. La sua polisportiva aveva avuto non pochi problemi e negli ultimi tempi, nonostante la promozione in Prima Divisione, non se la passava tanto bene. All’altro capo del telefono era il Panicciari, delegato della società presso il Direttorio Federale.
«Avvocato, c’è qui con me il Maiocchi, quello dei Bianchi. Dice ci vorrebbe proporre una cosa, ma io glielo dico: secondo me l’idea non è mica sua».
Il Signor Maiocchi è il delegato del Club Sportivo Firenze, “i bianchi”. Quelli che magari sono anche più scarsi di noi, ma almeno non devono andare a recuperare i palloni nel fiume ogni volta che qualcuno tira oltre la recinzione del campo. I “ghiozzi rossi”, ci chiamano.
«Cavaliere, la chiamo per conto del Marchese».
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Lo sapevo che non era un’idea sua, dai Bianchi non si muove una mosca che non voglia il Marchese.
Una fusione: mica così strampalata come idea. Si potrebbe giocare in Prima Divisione allo stadio in via Bellini e sfruttare le risorse del Marchese per sistemare le cose qui.
Qualche mese più tardi, il 29 agosto del 1926, dopo estenuanti trattative fra le due parti, il Marchese Luigi Ridolfi Vay da Verrazzano e il Cavalier Gino Lorenzi annunciano la fusione delle due società polisportive fiorentine e la nascita dell’Associazione Fiorentina del Calcio. Giocherà in Prima Divisione nella stagione 1926/1927 allo stadio di via Bellini con le maglie bianco-rosse, i colori rispettivamente del CS Firenze e della PGF Libertas. Il presidente sarà il Marchese Ridolfi, i vicepresidenti saranno il console Scipione Picchi e proprio Arrigo Paganelli. L’allenatore sarà l’ungherese Kàroli Csapkay, già giocatore della Libertas negli anni precedenti. Nasce così in maniera ufficiale la Fiorentina, per volontà diretta del trentunenne marchese Luigi Ridolfi, che guiderà la squadra di Firenze fino al 1942.
Il marchese Luigi Ridolfi Vay da Verrazzano nel 1916.
Da qui in poi è il momento delle prime volte: la prima partita contro il Pisa vinta per 3-1, il 3 ottobre 1926, il primo capocannoniere (Rodolfo Volk, 11 reti nella stagione 1926/27), la prima sconfitta in casa del Carpi per 3-1 il 24 ottobre, il primo incontro internazionale contro il Lugano nell’estate del 1927. La prima retrocessione in Serie B, nel 1929, e la prima promozione in Serie A, nel ’31.
Il primo fuoriclasse straniero a transitare da Firenze fu Pedro Petrone, campione olimpico con l’Uruguay nel ’24 e nel ’28 e campione del mondo nel 1930. Sbarcò nell’estate del 1931 a Genova, poi in treno fino a Firenze dove si presentò senza scarpe da calcio. Riuscì a trovarle della sua misura solo qualche mese dopo, a Bologna, ma per i fiorentini era già un idolo.
In sole 44 presenze mise a segno la bellezza di 37 reti. La prima la segnò proprio nel giorno dell’inaugurazione del nuovissimo impianto sportivo progettato da Pier Luigi Nervi nell’area di Campo di Marte.
Lo stadio, che ripercorre la forma di una grande “D”, è intitolato a Giovanni Berta ma viene chiamato da tutti semplicemente “il Comunale”. Almeno fino al 1993, quando verrà dedicato alla memoria del defunto Artemio Franchi.
Con Petrone e con Alfredo Pitto, grande centrocampista del Bologna trasferitosi a Firenze sempre nell’estate del 1931, primo calciatore della squadra a vestire la maglia azzurra, la Fiorentina arrivò quarta nel ’32 e quinta nel ’33. Considerando la giovane età della società e il travagliato passato, sono questi i primi risultati di un certo rilievo.
Il vero momento di svolta di questi primi dieci anni di storia è però il 22 settembre 1929. Quel giorno, per volere del Marchese Ridolfi, la Fiorentina scese in campo in un’amichevole contro la Roma con la maglia interamente viola.
Per comprenderne le ragioni bisogna risalire a qualche mese prima, verso la fine del 1928. A Firenze arriva una squadra ungherese, l’Ujpest, per un’amichevole. La Fiorentina scende in campo con la classica divisa bianco-rossa, gli ungheresi indossano la loro maglia da trasferta: un completo di un porpora chiaro che fece innamorare Luigi Ridolfi.
Tornato a casa il marchese iniziò una serie di ricerche per cercare di giustificare quella che sarebbe stata la sua definitiva scelta per le maglie della Fiorentina a partire dalla stagione successiva.
Trovò qualche strampalata teoria aristotelica sui colori principali, qualcosa sulle credenze romane del viola come colore del vino e quindi delle divinità e degli imperatori. Niente di veramente convincente, ma abbastanza per far sì che il viola diventasse da quel 22 settembre il simbolo di unione fra le due parti della città che ancora erano divise fra “bianchi” e “rossi”, moderna rivisitazione dei guelfi e ghibellini.
Il viola divenne il simbolo di una squadra e di una città, finalmente unita in un unico vessillo e in un unico colore. Sempre però con il giglio a campeggiare fiero, cucito sul petto degli undici giocatori in campo.
Il caso vuole che proprio contro gli ungheresi dell’Ujpest, il 16 giugno del 1935, la Fiorentina giocherà (e vincerà) la sua prima partita ufficiale in campo europeo, negli ottavi della Coppa Mitropa, all’epoca nota come Coppa dell’Europa Centrale.
1936-1946
Dopo l’addio di Petrone e Pitto, la Fiorentina riuscì a sopravvivere per qualche anno in Serie A prima di retrocedere nel 1937 dopo una stagione più che disastrosa.
Il marchese Ridolfi decise a quel punto che non si poteva andare avanti così e rivoluzionò completamente la squadra. In panchina arrivò l’esperto allenatore austriaco Rodolfo Soutschek, che l’anno prima aveva portato l’Alessandria agli spareggi promozione in Serie B. Ma soprattutto in attacco Ridolfi prese un giovane ragazzone di Vicenza, ala tecnica e veloce, perfetto per il “metodo” di Soutschek. Romeo Menti, per gli almanacchi “Menti III”, guiderà la Fiorentina alla promozione diretta in Serie A e poi alla salvezza l’anno successivo prima di trasferirsi al Torino.
Non solo, ma fu proprio grazie alle sue sgroppate sulla fascia nel “sistema” voluto dal nuovo giovane allenatore Giuseppe Galluzzi (subentrato a Soutschek in corso d’opera) che la Fiorentina riuscì a portare a casa il primo trofeo della sua storia: la Coppa Italia del 1940.
Dopo aver battuto in semifinale la Juventus con un netto 3-0, il 17 giugno 1940 allo stadio Giovanni Berta di Firenze, la Fiorentina ospita in finale il Genoa. Una corazzata.
I liguri vantavano in squadra alcuni degli azzurri campioni del mondo nel 1938, mentre i viola avevano come punte di diamante Romeo Menti e Mario Celoria, onesta mezzala con alle spalle una carriera spesa nei campi di Serie B.
Inutile dire che come in tutte le favole fu proprio il brutto anatroccolo a salvare la situazione.
Forse ho mischiato un po’ troppe storie, ma la sostanza è quella: Mario Celoria, al 26′ del primo tempo, insaccò il pallone della vittoria alle spalle del campione del Mondo Carlo Ceresoli, reduce da due Scudetti vinti da protagonista nel Bologna prima di approdare al Genoa.
È finalmente la festa che tutti attendevano, il trofeo per il quale il marchese Luigi Ridolfi aveva lavorato da più di dieci anni, il primo di altri cinque trionfi in Coppa Italia in questi novant’anni.
1946-1956
Il 23 gennaio 1946, pochi mesi prima del referendum Monarchia-Repubblica, il marchese Ridolfi Vay da Verrazzano lasciò la società al consiglio dei soci, presieduto da Arrigo Paganelli, che esattamente vent’anni prima aveva contribuito alla nascita della Fiorentina. La prima era della storia Viola si chiude con l’addio del suo padre fondatore.
Eppure è proprio da qui che la Fiorentina saprà rinascere per vivere i suoi anni migliori, in un’epoca storica e calcistica in cui tutto sembrava davvero possibile.
Nel 1953 Artemio Franchi, entrato da pochi anni nella dirigenza della Fiorentina, chiamò alla guida dei Viola l’allenatore Fulvio Bernardini. Ex bandiera della Roma “testaccina” con Attilio Ferraris, Bernardini negli anni dopo il suo ritiro si era fatto una sua particolare idea di calcio. Da giocatore aveva avuto l’opportunità di lavorare con Vittorio Pozzo, padre del “metodo”, mentre da dirigente della Federazione nel Dopoguerra ebbe modo più volte di guardare le partite del Grande Torino, la prima squadra italiana a vincere lo Scudetto giocando col “sistema”.
Bernardini cercò di pescare da entrambe queste esperienze proponendo un calcio più elastico, meno statico. Il gioco delle sue squadre si basava sul movimento senza palla, cosa assurda per l’epoca, e sui cambi di posizione, sulle coperture. I movimenti, insomma, prima delle posizioni.
Non voglio dire che Bernardini anticipò il “calcio totale” di Rinus Mitchels, ma in qualche modo mi piace pensare che Michels qualche partita del Bologna degli anni ’60 l’abbia vista prima di allenare l’Ajax.
Secondo Bernardini tutte le squadre hanno bisogno fondamentalmente di due sole cose: una buona difesa e dei piedi buoni in attacco.
La prima cosa era fatta: Magnini, Rosetta, Cervato, Chiappella, Segato. Questi i cinque uomini della “M” difensiva, più il portiere, Giuliano Sarti, uno dei più grandi nel suo ruolo nella storia di questo sport, pescato giovanissimo da Artemio Franchi quando militava nella Bondenese, squadra di Promozione.
Davanti mancava ancora qualcosa. Giuseppe Virgili era più che una garanzia sotto porta, ma a Fuffo serviva qualcos’altro. Lo disse a Franchi che immediatamente prese l’aereo in direzione Rio de Janeiro, e poi da lì fino a San Paolo. Bernardini infatti gli aveva fatto un semplice nome: Julio Botelho, detto semplicemente Julinho.
Julinho è soprattutto la memoria di un mondo magico in cui la Fiorentina era in grado di vincere lo Scudetto.
Julinho arriva a Firenze la notte del 3 agosto 1955 accolto da una folla in festa. Mio nonno ogni tanto parla di lui, ma senza mai descriverlo. Ne parla in maniera confusa, facendoti solo capire con qualche linea vaga di cosa si tratta. Ma è un’idea, un concetto astratto che non si concretizza mai.
È l’archetipo dell’ala, “un Ghiggia irrobustito di statura, più forte fisicamente” si legge su La Nazione del 3 agosto: “Darà spettacolo”.
L’altro innesto in avanti fu consigliato direttamente al presidente Enrico Befani da un prete italiano appena tornato dal Cile, padre Volpi. Disse di aver visto giocare un ragazzo incredibile: forte fisicamente, con un petto grosso come due angurie e la tecnica di Hidegkuti. Era nato a Rosario, in Argentina, nel 1932 da genitori italiani, di Sorrento. Giocava in Cile da un paio d’anni, e aveva una media di un gol a partita.
Artemio Franchi non era convinto. Sosteneva che in quel ruolo la Fiorentina fosse già coperta e che non valesse la pena rischiare con uno sconosciuto. Però il prezzo era veramente irrisorio e il presidente Befani ci teneva a fare un favore a padre Volpi. Così, pochi giorni dopo l’arrivo di Julinho, arrivò a Firenze anche Miguel Montuori.
Bernardini aveva finalmente la sua squadra al completo. Davanti alla muraglia difensiva ora giocavano, da destra a sinistra, Julinho, Montuori, Virgili, Gratton e Prini.
L’intesa fra i due sudamericani si rivelò perfetta. Non solo, ma s’inserirono perfettamente nei loro schemi anche gli altri tre, anche se Prini aveva perlopiù compiti difensivi.
Il trio Julinho-Montuori-Virgili mise a segno quell’anno la bellezza di 40 reti delle 59 complessive della squadra nelle 34 partite del campionato ’55/’56. La difesa si rivelò altrettanto efficace: gli avversari riuscirono a superare Sarti solamente in 20 occasioni.
Il 6 maggio 1956 la Fiorentina era in testa alla Serie A, dopo 28 giornate, 18 vittorie, 10 pareggi e nessuna sconfitta. Al Comunale di Firenze si presentava la Triestina, in piena lotta per non retrocedere. La partita finisce 1-1. A Milano, il Milan deve battere la Juventus per rimanere in corsa per il titolo: 0-0.
A cinque giornate dalla fine del campionato, il 6 maggio 1956 la Fiorentina festeggia il primo Scudetto della sua storia. Esattamente trent’anni dopo l’inizio delle trattative fra il marchese Ridolfi e l’avvocato Paganelli.