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Umberto Preite Martinez
Fiorentina 90
29 ago 2016
29 ago 2016
Storia dei primi 90 anni della Fiorentina, compiuti ieri. Auguri!
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Umberto Preite Martinez
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Il tifoso della Fiorentina ogni giorno si sveglia e sa che i suoi anni migliori, probabilmente, sono alle sue spalle. Non so quanto sia difficile tifare una squadra che vince sempre, né so come sarebbe tifare una squadra che non vince mai. Di certo è molto difficile tifare una squadra che per un certo periodo della sua storia ha dato l’illusione di essere vincente.

 

Domenica la Fiorentina ha compiuto 90 anni: il miglior modo per celebrare è ricordare.

 

 



 

Nel maggio del 1926, l'avvocato Arrigo Paganelli, segretario plenipotenziario della Palestra Ginnastica Fiorentina Libertas, riceve una telefonata particolare. La sua polisportiva aveva avuto non pochi problemi e negli ultimi tempi, nonostante la promozione in Prima Divisione, non se la passava tanto bene. All'altro capo del telefono era il Panicciari, delegato della società presso il Direttorio Federale.

 

«Avvocato, c'è qui con me il Maiocchi, quello dei Bianchi. Dice ci vorrebbe proporre una cosa, ma io glielo dico: secondo me l'idea non è mica sua».

 

Il Signor Maiocchi è il delegato del Club Sportivo Firenze, “i bianchi”. Quelli che magari sono anche più scarsi di noi, ma almeno non devono andare a recuperare i palloni nel fiume ogni volta che qualcuno tira oltre la recinzione del campo. I “ghiozzi rossi”, ci chiamano.

 

«Cavaliere, la chiamo per conto del Marchese».

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Lo sapevo che non era un'idea sua, dai Bianchi non si muove una mosca che non voglia il Marchese.

 

Una fusione: mica così strampalata come idea. Si potrebbe giocare in Prima Divisione allo stadio in via Bellini e sfruttare le risorse del Marchese per sistemare le cose qui.

 

Qualche mese più tardi, il 29 agosto del 1926, dopo estenuanti trattative fra le due parti, il Marchese Luigi Ridolfi Vay da Verrazzano e il Cavalier Gino Lorenzi annunciano la fusione delle due società polisportive fiorentine e la nascita dell'Associazione Fiorentina del Calcio. Giocherà in Prima Divisione nella stagione 1926/1927 allo stadio di via Bellini con le maglie bianco-rosse, i colori rispettivamente del CS Firenze e della PGF Libertas. Il presidente sarà il Marchese Ridolfi, i vicepresidenti saranno il console Scipione Picchi e proprio Arrigo Paganelli. L'allenatore sarà l'ungherese Kàroli Csapkay, già giocatore della Libertas negli anni precedenti. Nasce così in maniera ufficiale la Fiorentina, per volontà diretta del trentunenne marchese Luigi Ridolfi, che guiderà la squadra di Firenze fino al 1942.

 


Il marchese Luigi Ridolfi Vay da Verrazzano nel 1916.



 

Da qui in poi è il momento delle prime volte: la prima partita contro il Pisa vinta per 3-1, il 3 ottobre 1926, il primo capocannoniere (Rodolfo Volk, 11 reti nella stagione 1926/27), la prima sconfitta in casa del Carpi per 3-1 il 24 ottobre, il primo incontro internazionale contro il Lugano nell'estate del 1927. La prima retrocessione in Serie B, nel 1929, e la prima promozione in Serie A, nel '31.

 

Il primo fuoriclasse straniero a transitare da Firenze fu Pedro Petrone, campione olimpico con l'Uruguay nel '24 e nel '28 e campione del mondo nel 1930. Sbarcò nell'estate del 1931 a Genova, poi in treno fino a Firenze dove si presentò senza scarpe da calcio. Riuscì a trovarle della sua misura solo qualche mese dopo, a Bologna, ma per i fiorentini era già un idolo.

 

In sole 44 presenze mise a segno la bellezza di 37 reti. La prima la segnò proprio nel giorno dell'inaugurazione del nuovissimo impianto sportivo progettato da Pier Luigi Nervi nell'area di Campo di Marte.

 

Lo stadio, che ripercorre la forma di una grande “D”, è intitolato a Giovanni Berta ma viene chiamato da tutti semplicemente “il Comunale”. Almeno fino al 1993, quando verrà dedicato alla memoria del defunto Artemio Franchi.

 

Con Petrone e con Alfredo Pitto, grande centrocampista del Bologna trasferitosi a Firenze sempre nell'estate del 1931, primo calciatore della squadra a vestire la maglia azzurra, la Fiorentina arrivò quarta nel '32 e quinta nel '33. Considerando la giovane età della società e il travagliato passato, sono questi i primi risultati di un certo rilievo.

 

Il vero momento di svolta di questi primi dieci anni di storia è però il 22 settembre 1929. Quel giorno, per volere del Marchese Ridolfi, la Fiorentina scese in campo in un'amichevole contro la Roma con la maglia interamente viola.

 

Per comprenderne le ragioni bisogna risalire a qualche mese prima, verso la fine del 1928. A Firenze arriva una squadra ungherese, l'Ujpest, per un'amichevole. La Fiorentina scende in campo con la classica divisa bianco-rossa, gli ungheresi indossano la loro maglia da trasferta: un completo di un porpora chiaro che fece innamorare Luigi Ridolfi.

 

Tornato a casa il marchese iniziò una serie di ricerche per cercare di giustificare quella che sarebbe stata la sua definitiva scelta per le maglie della Fiorentina a partire dalla stagione successiva.

 

Trovò qualche strampalata teoria aristotelica sui colori principali, qualcosa sulle credenze romane del viola come colore del vino e quindi delle divinità e degli imperatori. Niente di veramente convincente, ma abbastanza per far sì che il viola diventasse da quel 22 settembre il simbolo di unione fra le due parti della città che ancora erano divise fra “bianchi” e “rossi”, moderna rivisitazione dei guelfi e ghibellini.

 

Il viola divenne il simbolo di una squadra e di una città, finalmente unita in un unico vessillo e in un unico colore. Sempre però con il giglio a campeggiare fiero, cucito sul petto degli undici giocatori in campo.

 

Il caso vuole che proprio contro gli ungheresi dell'Ujpest, il 16 giugno del 1935, la Fiorentina giocherà (e vincerà) la sua prima partita ufficiale in campo europeo, negli ottavi della Coppa Mitropa, all'epoca nota come Coppa dell'Europa Centrale.

 

 



 

Dopo l'addio di Petrone e Pitto, la Fiorentina riuscì a sopravvivere per qualche anno in Serie A prima di retrocedere nel 1937 dopo una stagione più che disastrosa.

 

Il marchese Ridolfi decise a quel punto che non si poteva andare avanti così e rivoluzionò completamente la squadra. In panchina arrivò l'esperto allenatore austriaco Rodolfo Soutschek, che l'anno prima aveva portato l'Alessandria agli spareggi promozione in Serie B. Ma soprattutto in attacco Ridolfi prese un giovane ragazzone di Vicenza, ala tecnica e veloce, perfetto per il “metodo” di Soutschek. Romeo Menti, per gli almanacchi “Menti III”, guiderà la Fiorentina alla promozione diretta in Serie A e poi alla salvezza l'anno successivo prima di trasferirsi al Torino.

 

Non solo, ma fu proprio grazie alle sue sgroppate sulla fascia nel “sistema” voluto dal nuovo giovane allenatore Giuseppe Galluzzi (subentrato a Soutschek in corso d'opera) che la Fiorentina riuscì a portare a casa il primo trofeo della sua storia: la Coppa Italia del 1940.

 

Dopo aver battuto in semifinale la Juventus con un netto 3-0, il 17 giugno 1940 allo stadio Giovanni Berta di Firenze, la Fiorentina ospita in finale il Genoa. Una corazzata.

 

I liguri vantavano in squadra alcuni degli azzurri campioni del mondo nel 1938, mentre i viola avevano come punte di diamante Romeo Menti e Mario Celoria, onesta mezzala con alle spalle una carriera spesa nei campi di Serie B.

 

Inutile dire che come in tutte le favole fu proprio il brutto anatroccolo a salvare la situazione.

 

Forse ho mischiato un po' troppe storie, ma la sostanza è quella: Mario Celoria, al 26' del primo tempo, insaccò il pallone della vittoria alle spalle del campione del Mondo Carlo Ceresoli, reduce da due Scudetti vinti da protagonista nel Bologna prima di approdare al Genoa.

 

È finalmente la festa che tutti attendevano, il trofeo per il quale il marchese Luigi Ridolfi aveva lavorato da più di dieci anni, il primo di altri cinque trionfi in Coppa Italia in questi novant'anni.

 

 



 

Il 23 gennaio 1946, pochi mesi prima del referendum Monarchia-Repubblica, il marchese Ridolfi Vay da Verrazzano lasciò la società al consiglio dei soci, presieduto da Arrigo Paganelli, che esattamente vent'anni prima aveva contribuito alla nascita della Fiorentina. La prima era della storia Viola si chiude con l'addio del suo padre fondatore.

 

Eppure è proprio da qui che la Fiorentina saprà rinascere per vivere i suoi anni migliori, in un'epoca storica e calcistica in cui tutto sembrava davvero possibile.

 

Nel 1953 Artemio Franchi, entrato da pochi anni nella dirigenza della Fiorentina, chiamò alla guida dei Viola l'allenatore Fulvio Bernardini. Ex bandiera della Roma “testaccina” con Attilio Ferraris, Bernardini negli anni dopo il suo ritiro si era fatto una sua particolare idea di calcio. Da giocatore aveva avuto l'opportunità di lavorare con Vittorio Pozzo, padre del “metodo”, mentre da dirigente della Federazione nel Dopoguerra ebbe modo più volte di guardare le partite del Grande Torino, la prima squadra italiana a vincere lo Scudetto giocando col “sistema”.

 

Bernardini cercò di pescare da entrambe queste esperienze proponendo un calcio più elastico, meno statico. Il gioco delle sue squadre si basava sul movimento senza palla, cosa assurda per l'epoca, e sui cambi di posizione, sulle coperture. I movimenti, insomma, prima delle posizioni.

 

Non voglio dire che Bernardini anticipò il “calcio totale” di Rinus Mitchels, ma in qualche modo mi piace pensare che Michels qualche partita del Bologna degli anni '60 l'abbia vista prima di allenare l'Ajax.

 

Secondo Bernardini tutte le squadre hanno bisogno fondamentalmente di due sole cose: una buona difesa e dei piedi buoni in attacco.

 

La prima cosa era fatta: Magnini, Rosetta, Cervato, Chiappella, Segato. Questi i cinque uomini della “M” difensiva, più il portiere, Giuliano Sarti, uno dei più grandi nel suo ruolo nella storia di questo sport, pescato giovanissimo da Artemio Franchi quando militava nella Bondenese, squadra di Promozione.

 

Davanti mancava ancora qualcosa. Giuseppe Virgili era più che una garanzia sotto porta, ma a

serviva qualcos'altro. Lo disse a Franchi che immediatamente prese l'aereo in direzione Rio de Janeiro, e poi da lì fino a San Paolo. Bernardini infatti gli aveva fatto un semplice nome: Julio Botelho, detto semplicemente Julinho.

 

Julinho è soprattutto la memoria di un mondo magico in cui la Fiorentina era in grado di vincere lo Scudetto.

 



 

Julinho arriva a Firenze la notte del 3 agosto 1955 accolto da una folla in festa. Mio nonno ogni tanto parla di lui, ma senza mai descriverlo. Ne parla in maniera confusa, facendoti solo capire con qualche linea vaga di cosa si tratta. Ma è un'idea, un concetto astratto che non si concretizza mai.

 

È l'archetipo dell'ala, “un Ghiggia irrobustito di statura, più forte fisicamente” si legge su

del 3 agosto: “Darà spettacolo”.

 

L'altro innesto in avanti fu consigliato direttamente al presidente Enrico Befani da un prete italiano appena tornato dal Cile, padre Volpi. Disse di aver visto giocare un ragazzo incredibile: forte fisicamente, con un petto grosso come due angurie e la tecnica di Hidegkuti. Era nato a Rosario, in Argentina, nel 1932 da genitori italiani, di Sorrento. Giocava in Cile da un paio d'anni, e aveva una media di un gol a partita.

 

Artemio Franchi non era convinto. Sosteneva che in quel ruolo la Fiorentina fosse già coperta e che non valesse la pena rischiare con uno sconosciuto. Però il prezzo era veramente irrisorio e il presidente Befani ci teneva a fare un favore a padre Volpi. Così, pochi giorni dopo l'arrivo di Julinho, arrivò a Firenze anche Miguel Montuori.

 

Bernardini aveva finalmente la sua squadra al completo. Davanti alla muraglia difensiva ora giocavano, da destra a sinistra, Julinho, Montuori, Virgili, Gratton e Prini.

 

L'intesa fra i due sudamericani si rivelò perfetta. Non solo, ma s'inserirono perfettamente nei loro schemi anche gli altri tre, anche se Prini aveva perlopiù compiti difensivi.

 

Il trio Julinho-Montuori-Virgili mise a segno quell'anno la bellezza di 40 reti delle 59 complessive della squadra nelle 34 partite del campionato ’55/'56. La difesa si rivelò altrettanto efficace: gli avversari riuscirono a superare Sarti solamente in 20 occasioni.

 

Il 6 maggio 1956 la Fiorentina era in testa alla Serie A, dopo 28 giornate, 18 vittorie, 10 pareggi e nessuna sconfitta. Al Comunale di Firenze si presentava la Triestina, in piena lotta per non retrocedere. La partita finisce 1-1. A Milano, il Milan deve battere la Juventus per rimanere in corsa per il titolo: 0-0.

 

A cinque giornate dalla fine del campionato, il 6 maggio 1956 la Fiorentina festeggia il primo Scudetto della sua storia. Esattamente trent'anni dopo l'inizio delle trattative fra il marchese Ridolfi e l'avvocato Paganelli.





 

Il corso della storia è fatto dalla concatenazione di piccoli eventi. Nella stagione 1956/'57 la Fiorentina è qualificata di diritto alla Coppa dei Campioni e si presenta ai nastri di partenza della Serie A come la favorita d'obbligo. La prima parte di campionato sembra dare ragione ai pronostici, ma poi le fatiche europee si fanno sentire e i ragazzi di Bernardini escono sconfitti nello scontro diretto con il Milan regalando ai rossoneri lo Scudetto.



Nel frattempo però il cammino in Europa era stato lungo e fruttuoso. Superati agli ottavi gli svedesi del

e travolto il Grasshoppers ai quarti, la Fiorentina incontra la Stella Rossa in semifinale. A Belgrado la gara è dura e sofferta; la sblocca Prini a tre minuti dal termine. Nella gara di ritorno a Firenze, i Viola amministrano il vantaggio e guadagnano il diritto di andarsi a giocare la finale contro i campioni in carica del Real Madrid di Alfredo Di Stefano. È la prima squadra italiana a raggiungere la finale della Coppa dei Campioni.

 



 

Si gioca alle 17.30 del 30 maggio 1957, al Santiago Bernabeu di Madrid davanti a 125 mila spettatori. La partita è bella, spettacolare ed equilibrata. Le cronache dell'epoca raccontano di una Fiorentina perfettamente in grado di tenere testa alla corazzata spagnola per tutto il primo tempo. Di Stefano è ben marcato da Orzan, e i due mediani Scaramucci e Segato fanno un ottimo lavoro di interdizione. Davanti, Julinho e Montuori cercano di creare problemi alla retroguardia del Real ma senza riuscirci. Si va al riposo sullo 0-0 e nei primi minuti del secondo tempo il copione sembra non subire modifiche sostanziali.

 

Fino al 69' minuto: Mateos ruba palla sulla linea di metà campo e buca la difesa viola. Magnini lo insegue, cerca di disturbarlo ma poi entra in scivolata. L'arbitro, l'olandese Leo Horn, indica il dischetto del rigore.

 



 

Cosa sarebbe successo se l'arbitro avesse fischiato la punizione anziché il rigore? Una domanda senza senso. Magari Di Stefano avrebbe segnato comunque, magari il Real avrebbe trovato qualche altro spazio nella difesa della Fiorentina. Forse avrebbero vinto loro lo stesso e non sarebbe cambiato nulla, ma la domanda mi ronza in testa da quando ho visto queste immagini. E se avessimo vinto noi quella partita?

 

La Fiorentina arriverà seconda in campionato per quattro volte di fila, dal '57 al '60, e due volte in finale di Coppa Italia, nel '58 e nel ’60. Fra il '58 e il '59 lasciano Firenze gli artefici dello Scudetto: Bernardini, Julinho e Virgili. Il primo per andare ad allenare il Bologna, l'ultimo si trasferì a Torino e Julinho decise di tornare al Palmeiras, nel suo Brasile.

 

A sostituire tutti e tre nei cuori dei tifosi viola ci pensò un ragazzone svedese, un'ala destra elegante, perfetto sostituto del fenomeno brasiliano: Kurt Hamrin,

Aveva corsa, tiro, senso del gol, visione di gioco.

 

Non riuscirà mai a vincere lo Scudetto a Firenze, ma spezzò quella maledizione che sembrava iniziata in quello strano pomeriggio di Madrid. Con lui la Fiorentina vinse nel 1961 la Coppa Italia e la prima edizione della Coppa delle Coppe, alla quale partecipò in quanto finalista della Coppa Italia in sostituzione della Juventus, battendo in finale il Ranger Glasgow. È il primo trionfo europeo per la Fiorentina.

 



 

Kurt Hamrin lascerà Firenze dopo nove anni e 150 reti segnate. Andrà al Milan nell'estate del 1967, e riuscirà finalmente a vincere lo Scudetto nel 1968. Una costante della storia viola.

 

 



 

De Sisti Giancarlo, detto

. Romano, 22 anni appena compiuti, mezzala. È il 1965 e la Roma ha necessità di risanare il bilancio dopo alcune annate disastrose. Il più sacrificabile secondo la società capitolina è il giovane De Sisti, cresciuto nel vivaio giallorosso all'ombra di Pepe Schiaffino.

 

Nello Baglini, imprenditore pisano nel ramo dell'inchiostro per stampe, ha appena acquistato la AC Fiorentina risanando tutto il debito di quasi 800 milioni di lire accumulato sotto la gestione precedente. È un imprenditore lungimirante che raramente sbaglia qualcosa quando si tratta di soldi, soprattutto se quei soldi sono i suoi.
Si presenta a Roma con 250 milioni e torna a Firenze con accanto un ragazzo di 22 anni, che non arriva al metro e settanta, ma con i piedi fatati e un'intelligenza superiore alla media.

 

La testa ben incassata nelle spalle ricurve, capelli castani pettinati alla Beatles, sorriso che a vederlo viene voglia di affidargli anche le chiavi di casa.

 



 

Picchio De Sisti ci mette un attimo ad ambientarsi e già al primo anno, con gli altri giovani Chiarugi, Merlo ed Esposito dal vivaio fiorentino e gli esperti Hamrin e Rogora, vince nello stesso anno la Coppa Italia e la Coppa Mitropa. È la “Fiorentina

”, piena di ragazzi giovani con l'aria sessantottina.

 

Nel 1967, dopo l'addio di altri grandi vecchi come Hamrin e Albertosi, De Sisti riceve la fascia di capitano all'età di 23 anni. A sostituire i due grandi vecchi arrivano Amarildo e Superchi, rispettivamente di anni 28 e 23. Poi è il turno di Mario Maraschi, Eraldo Mancin e Francesco Rizzo, tutti giovani e promettenti, alcuni già affermati, altri in rampa di lancio.

 

Guidati in panchina dall'argentino Bruno Pesaola, i ragazzini terribili si presentarono con due vittorie di fila, contro Roma e Atalanta. Poi due pareggi e la sconfitta in casa contro il Bologna per 1-3, l'unica di tutto il campionato.

 

La Fiorentina

vincerà quel campionato a Torino, a casa dell'odiata Juventus, l'11 maggio 1969, a 13 anni e 5 giorni dal primo Scudetto. Segnano Chiarugi e Maraschi. L'ultima in casa contro il Varese è utile solo per dare sfogo ai festeggiamenti insieme a tutta la città di Firenze.

 

Amarildo sembra immarcabile, Maraschi è una sentenza sotto porta, Superchi è un muro in porta. Ma il vero cervello di quella squadra è il capitano Giancarlo De Sisti. Sarà l'ultimo Scudetto della Fiorentina.

 

https://www.youtube.com/watch?v=i_qhWYlz37s

Scene d'altri tempi, con un Paolo Villaggio in grande spolvero.



 

 



 

Nel 1972 a Firenze arriva un ragazzo di 18 anni. “Un giovanissimo Rivera”, viene definito dai giornalisti. “Il ragazzo che gioca guardando le stelle”, lo chiamano i tifosi.

 

È alto e slanciato, agile, biondo, bello: l'eroe che tutti si immaginano. Un numero 10 moderno (per l'epoca), capace di prendere in mano le redini del gioco fino a far sembrare i suoi compagni dei fenomeni. Ha un'eleganza innata, corre sempre con la schiena dritta e la testa alta, tanto che sembra che non guardi mai il pallone quando ce l'ha fra i piedi. Prima di ricevere palla sa già cosa farci, prima di fare un passaggio sa già dove sarà il compagno quando gli arriverà il pallone.

 

Nel 1976, quando i reduci dello Scudetto del '69 lasciano la squadra, è lui a prendere la fascia di capitano. Non è il nuovo De Sisti, troppo alto e bello, né il nuovo Julinho, troppo elegante.

 

È qualcosa che non si era mai visto: Giancarlo Antognoni.

 



 

Il ragazzo che gioca guardando le stelle, guida la nuova Fiorentina ai vertici del campionato, sempre nelle posizioni di testa ma mai abbastanza competitiva per puntare allo Scudetto. Fino al 1980, quando la Fiorentina venne acquistata da Flavio Pontello e nel gennaio 1981 in panchina arriva Giancarlo De Sisti, ritiratosi nel 1979, alla prima esperienza da allenatore.

 

Partendo dalla zona retrocessione, De Sisti portò la squadra fino al quinto posto finale. Un'impresa che convinse Pontello a fare una campagna acquisti per puntare in alto. Arrivarono, fra gli altri, Francesco Graziani, Eraldo Pecci e Daniele Massaro, che con Daniel Bertoni e Giovanni Galli crearono ancora una volta un gruppo solido, capace di puntare allo Scudetto dopo 13 anni dall'ultimo trionfo.

 

La stagione 1981/82 è quella designata per l'impresa. La Fiorentina parte bene, fino a quel maledetto 22 novembre. È in testa alla classifica e affronta il Genoa al Comunale di Firenze.

 

Al decimo minuto del secondo tempo Bertoni lancia in campo aperto un liberissimo Antognoni. La palla rimbalza in area, Antognoni sembra in vantaggio e con un controllo dei suoi si sistema il pallone di testa pronto a superare il portiere avversario in uscita disperata.

 

Ma Salvatore Martina si scaraventa sul capitano viola con tutto il corpo nel disperato tentativo di sbarrargli la strada verso la porta. Antognoni scivola leggermente sul piede destro, Martina lo colpisce in volo con il ginocchio alto sulla testa.

 

https://www.youtube.com/watch?v=h5ihHHvnx2g

Antognoni si accascia al suolo privo di sensi, mentre Martina si rende subito conto della gravità della situazione e chiama i soccorsi in lacrime.



 

«Mi ricordo solo la palla che veniva verso di me, poi mi sono girato e per dieci minuti non mi ricordo più nulla».

 

“Ho ucciso Antognoni”, il grido disperato di un Salvatore Martina che corre in lacrime verso la panchina. Quando i medici di entrambe le squadre arrivano in campo, il cuore di Giancarlo Antognoni è fermo. Rimarrà fermo per altri 25 secondi nel silenzio totale di tutti i 45 mila presenti al Comunale. Poi riprende a battere, come per miracolo: Antognoni è tecnicamente morto per 25 secondi. Se la caverà con una frattura al cranio che lo terrà lontano dai campi per i successivi quattro mesi.

 

In quei quattro mesi la Fiorentina subisce la rimonta in campionato della Juventus, fino ad arrivare all'ultima giornata in testa a pari punti. La Juventus giocava l'ultima di campionato a Catanzaro, la Fiorentina a Cagliari.

 

https://www.youtube.com/watch?v=o7AG6tpThzA

Non riesco a commentare queste immagini.



 

Giancarlo Antognoni si ritira nel 1989. In quindici stagioni con la maglia viola non riuscì mai a vincere un trofeo. Il triste destino di un uomo che ha dedicato la sua vita a un amore impossibile.





 

Dopo l'addio di Antognoni passeranno anni tristi, fra salvezze risicate e delusioni europee, fino alla retrocessione in Serie B del 1993.

 

Gli unici momenti di luce li regala al pubblico fiorentino un giovanissimo Roberto Baggio, arrivato dal Lanerossi Vicenza nel 1985. Nei suoi cinque anni a Firenze riuscirà a entrare nei cuori dei tifosi viola, restando nella memoria del popolo fiorentino per sempre: ricordato con nostalgia, amato, rimpianto.
Ammirato negli anni della B2, la storica coppia formata con Stefano Borgonovo nella stagione '88/'89. I due gemelli del gol segnarono da soli 29 gol sui 44 totali, 14 per Borgonovo, 15 per Baggio.

 

https://www.youtube.com/watch?v=CSyrnV2RBSM

 

Purtroppo Borgonovo a fine stagione tornò al Como, mentre Baggio venne venduto da Pontello alla Juventus nel 1990 dopo la finale di Coppa Uefa persa proprio contro i bianconeri. La rivolta dei fiorentini fu talmente spropositata che costrinse Pontello a cedere la società al produttore cinematografico Mario Cecchi Gori il 21 giugno 1990.

 

Senza il

la Fiorentina sprofonderà in Serie B per poi rinascere dalle sue ceneri, così com'era successo già nel lontano 1937. Cecchi Gori decise di investire fortemente per rinforzare la squadra, non solo per tornare immediatamente in Serie A ma anche per poter da subito essere competitivi nella massima serie. Fu così che arrivarono giovani di prospettiva come Francesco Toldo, che si aggiunsero a un gruppo già consolidato di cui faceva parte Gabriel Omar Batistuta, arrivato fra lo scetticismo generale nel 1991 e destinato a diventare, con 152 reti, il più grande marcatore della storia della Fiorentina.

 

Dopo la promozione lampo con Claudio Ranieri in panchina, a Firenze arrivò anche il portoghese Rui Manuel Cesar Costa, meglio noto come Rui Costa, campione del Mondo con la sua Nazionale U-20 nel 1991.

 

Toldo, Rui Costa e Batistuta. L'asse portante della Fiorentina degli anni '90. Il trio di giocatori con cui tutta la nuova generazione di tifosi fiorentini è cresciuta, il trio che ha ridato la speranza ai vecchi tifosi.

 

 



 

Come da tradizione però, è anche un trio di giocatori che a Firenze non ha mai vinto nulla. E così, come già accaduto con Hamrin, anche i tre pilastri di questa Fiorentina dovettero andare altrove per coronare i loro sogni di vittoria.

 

L'addio di Batistuta nel 2000 e poi di Toldo e Rui Costa nel 2001 furono il colpo di grazia per una tifoseria che da trent'anni aspettava il momento buono per festeggiare ancora. La mazzata finale sulle speranze di una città.

 

La Coppa Italia del 2001 (l'ultimo trofeo vinto dalla Fiorentina) fu solo una parentesi, arrivata in una situazione drammatica, e passò quasi in secondo piano.

 

Il fallimento del 2002 fu la scossa. Prima la morte definitiva e poi la rinascita. La C2, la prospettiva di una lunga cavalcata trionfale da percorrere tutti insieme. Un obiettivo reale, da realizzare con forza e dedizione.

 

La Florentia Viola e quel coro, “Torneremo grandi ancor!” da cantare a squarciagola ogni volta che Christian Riganò la buttava in fondo alla rete, al Franchi o nei piccoli stadi di provincia invasi da una marea viola ovunque fossero.

 

Le prese in giro, come per il tormentone “Ore decisive per Longo” che ancora oggi si sente ogni tanto fra i tifosi in periodo di calciomercato. E poi i nuovi eroi, persone semplici e umili elevati al mito. Dal capitano Di Livio, che decise di scendere in C2, a Fantini, che segnò il gol decisivo nello spareggio per la promozione in Serie A contro il Perugia.

 

https://www.youtube.com/watch?v=fpHA61zilcM

La scintilla riaccesa di un amore da troppo tempo senza forma.



 

 



 

Il ritorno in Serie A avviene il 12 settembre 2004, all'Olimpico contro la Roma, 1-0 con gol di Vincenzo Montella.

 

Il primo anno è una sofferenza continua, con gli esoneri di Mondonico e Buso e i “cattivi pensieri” di Dino Zoff, che dopo un inizio stentato porterà la squadra alla salvezza all'ultima giornata, grazie alla vittoria per 3-0 contro il Brescia.

 

Da lì si riparte con una nuova rinascita: il nuovo direttore sportivo, Pantaleo Corvino, chiama a Firenze Cesare Prandelli. Saranno cinque anni intensi, pieni di soddisfazioni e rimpianti.

 

La qualificazione in Champions League conquistata e poi cancellata al primo anno, con i 31 gol di Luca Toni. Poi la risalita dal -19 all'Europa e la cavalcata fino alla semifinale di Coppa Uefa nel 2008.

 

Grandi nomi arrivano a Firenze: la Fiorentina diventa una piccola oasi felice dove tutto funziona bene e l'ambiente è sereno e tranquillo. Fino al 2010: la Fiorentina parte male in campionato ma stravince il suo girone di Champions League dove gioca gli ottavi contro il Bayern Monaco. All'andata arbitra Ovrebo che sul risultato di 1-1 convalida un gol in netto fuorigioco a Klose, che all'inizio neanche esulta pensando a una scontata segnalazione del guardalinee che non arriverà mai.

 

Al ritorno al Franchi, la Fiorentina lotta e vince 3-2 ma non basta. È la mazzata definitiva. Prandelli lascia al termine della stagione, Corvino è costretto a smantellare la squadra data la mancata qualificazione alle coppe europee e in panchina arriva Sinisa Mihajlovic.

 

Quella del 2010/2011 è la più brutta Fiorentina che io ricordi. Mihajlovic non riesce a dare neanche l'ombra di un gioco alla squadra e porta la Fiorentina a metà classifica dopo un campionato anonimo e insulso.

 

L'anno dopo il copione è anche peggiore e l'allenatore serbo viene rimpiazzato da Delio Rossi a stagione in corso. È il biennio più triste dell'era Della Valle, che si chiude con la scazzottata fra Rossi e Ljajic e la salvezza alla penultima giornata conquistata con una sofferta vittoria a Lecce.

 

https://www.youtube.com/watch?v=FIDvXXl5Bh4

 

Un'altra, ennesima, rivoluzione si abbatte su Firenze, che con Montella in panchina e una squadra smantellata e ricostruita in toto torna in Europa giocando un bel calcio e sfiorando la qualificazione in Champions League.

 

Da lì in poi è storia recente e nota. Si chiude così un decennio avaro di soddisfazioni. La serie interminabile di quarti posti, i sogni infranti in Coppa Italia e in Coppa Uefa a un passo dal traguardo, l'urlo strozzato in gola di un'intera città, ancora una volta.

 

Ero allo stadio il 1° maggio 2008, per la semifinale di Coppa Uefa fra la Fiorentina e gli scozzesi del Rangers Glasgow. Ricordo che davanti al Duomo un tifoso avversario completamente ubriaco scambiò la sua maglia del Rangers (nuova, bellissima, originale) con quella (vecchia, stinta, tarocca) della Fiorentina di mio fratello, con tanto di foto di rito. Questo perché mio fratello pare che assomigli molto a Carlos Cuellar, pilastro difensivo della formazione scozzese.

 

Il viaggio verso il Franchi è una lunga festa, circondati da tifosi del Rangers dal tasso alcolemico fuori da ogni legge anatomica e con l'emozione di poter vivere qualcosa di magico. Appena entro rimango estasiato. Magari te l'aspetti più grande quando lo vedi in televisione, ma vedere la Torre di Maratona svettare altissima nei cieli di Firenze è un'emozione che ogni volta si rinnova rendendomi impossibile il tentativo di descriverla a parole.

 

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