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Fino a dove possono arrivare i giovani Lakers?
22 feb 2019
22 feb 2019
Brandon Ingram, Kyle Kuzma e Lonzo Ball: chi può dare una mano a LeBron James e alla corsa ai playoff?
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Photo by Andrew D. Bernstein/NBAE via Getty Images
(copertina) Photo by Andrew D. Bernstein/NBAE via Getty Images
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La stagione dei Los Angeles Lakers finora è stata un tumulto continuo, un enorme ammasso entropico dove ogni movimento volto a stabilizzare il tutto ha generato ulteriore caos. Ad oggi, i Lakers hanno il 29% di probabilità di fare i playoff secondo il sito FiveThirthyEight, hanno davanti il nono calendario più difficile della lega, tre dei loro migliori difensori sono indisponibili per infortunio e la recente deadline del mercato ha solo contribuito ad alienare metà dello spogliatoio. In una situazione normale queste cose sarebbero sufficienti per dichiararli fuori dalla lotta ai playoff. La sola presenza di LeBron James però, sfidando ogni logica visione e probabilità, cambia tutto. Tanto che nessuno sano di mente oggi scommetterebbe la casa sui Lakers fuori dai playoff o addirittura dalle finali ad Ovest. Siamo ormai arrivati alla cieca fede, più che al raziocinio.

LeBron già in modalità playoff a fine febbraio.

I Lakers insomma sono pressoché ingiudicabili e inqualificabili. La loro stagione è stata composta da innumerevoli frammenti di un collage diverso, ognuno di questi troppo piccolo per trarne delle conclusioni a lungo termine. Il roster è cosparso di contratti annuali giusto per fornire abbastanza corpi per schierare in campo una parvenza di una squadra di basket nell’attesa della prossima free agency - e nel profondo dei loro cuori, tutti i tifosi gialloviola (e forse pure all’interno dello spogliatoio) desiderano fare “avanti veloce” del resto della stagione per scoprire cosa saranno i Lakers del futuro.

Dopo un inizio di stagione tra alti e bassi, i Lakers avevano trovato la parvenza di una quadratura con dei ruoli ben definiti, delle vittorie molto convincenti (come quella di Natale sul campo dei Golden State Warriors) e un record di 19-14 che, nella rissa da saloon quale è la Western Conference di quest’anno, poteva significare anche il fattore campo ai playoff. Poi l’infortunio a LeBron, il primo rilevante degli ultimi 15 anni, ha ribaltato il tavolo. I gialloviola si sono trovati a provare di tutto per far funzionare una squadra che aveva perso la propria polarità, con Brandon Ingram chiamato a vestire gli ingombranti panni del Re da Akron.

Ma sebbene le prestazioni di Point Ingram siano state tutto sommato incoraggianti, la squadra avesse improvvisamente ritrovato una insperata solidità difensiva e il gioco di LeBron fosse stato in qualche modo imitato, la sua polarità in attacco si è dimostrata ovviamente insostituibile. I Lakers sono incappati in una spirale negativa, complice anche l’infortunio a Lonzo Ball, e il front office si è mosso con tutto il teatro della deadline per provare a mettere le mani su Anthony Davis e raddrizzare la stagione. Dal ritorno di LeBron in campo le cose non sono però finora sembrate migliorare, con il chiodo più doloroso in questa croce di stagione piantato dagli Indiana Pacers orfani di Victor Oladipo, che hanno vinto di 42 punti una partita nella quale Los Angeles è sembrata a malapena una squadra NBA, mentre i tifosi di Indiana negli spalti sbeffeggiavano tutti i giocatori dei Lakers al coro di “LeBron is gonna trade you”.

I Lakers dell’ultima settimana prima della pausa per l’All-Star Game sono sinistramente sembrati i Cleveland Cavaliers della scorsa regular season, con dei cali di attenzione giganteschi e una svogliatezza generale a dir poco frustrante per chi li guarda. Ma i gialloviola non hanno il privilegio di giocare nella Eastern Conference, dove basta una striscia di poche vittorie per rimettere le cose al loro posto, e devono fare la corsa su due squadre agguerrite (i Sacramento Kings e i cugini dei Clippers) per riuscire a strappare l’ultimo biglietto per i playoff. E non solo: se vogliono evitare di incontrare i Golden State Warriors al primo turno, devono addirittura puntare al settimo posto.

Se siamo così vicini allo psicodramma collettivo, che ad Hollywood è il piatto forte della casa, è per un susseguirsi di errori di gestione nel passato, in cui Magic Johnson e Rob Pelinka - o Maginka come vuole la tradizione hollywoodiana di fare la crasi dei nomi nelle coppie di celebrità - hanno provato a tenere il piede in due scarpe: quella della ricostruzione sul nucleo di giovani e quella sull’assalto all’anello con LeBron James. Entrambi i piani però sono stati portati avanti in modo troppo indipendente l’uno dall’altro, e ora che sembrano costretti a coesistere siamo di fronte ad un prodotto davvero poco coeso. Ci sono quindi forti sospetti che Maginka abbia navigato a vista per troppo tempo, e lo sviluppo dei loro giovani è la pistola fumante che sembra inchiodarli.

Brandon Ingram

Se facciamo un salto temporale indietro di tre anni possiamo osservare la stagione da freshman di Brandon Ingram a Duke. Ingram era il secondo realizzatore di quella squadra dietro Grayson Allen - un buon scorer ma non di certo uno eccelso. Quello che rapiva del gioco di Ingram, e che gli è valso la seconda chiamata assoluta al Draft, era la versatilità del suo gioco. Ingram era come il jolly a Scala 40, in grado di assumere le sembianze di qualunque cosa servisse a Coach K nelle varie partite. Oltre a questo c’erano quei lampi in cui la sua figura si faceva molto simile a quella di Kevin Durant. Un sette piedi magrissimo che mette palla a terra e tira in sospensione sopra il braccio alzato del diretto marcatore: erano lampi, ma nella fretta di trovare una comparison per la notte del Draft il paragone era già cosa fatta.

Nella sua stagione da rookie il divario fisico con il resto della lega era a dir poco imbarazzante ed è sembrato palese a chiunque che si trattasse di un progetto a medio-lungo termine. Nella prima metà di stagione veniva prevalentemente utilizzato con la second unit, lasciando a Lou Williams il compito di creare in attacco; Larry Nance e Tarik Black si prendevano cura di difendere il pitturato e ad Ingram spettavano compiti molto limitati in marcatura sugli esterni e di osservare cosa succedeva in attacco. Nella seconda parte di stagione Jeanie Buss effettua il golpe familiare che mette Magic e Pelinka al timone: Lou Williams viene ceduto, Luol Deng e Timofey Mozgov panchinati per far giocare i giovani e tankare sperando di mantenere la scelta al Draft (che era protetta 3 ed è diventata Lonzo Ball).

È in questo contesto che Ingram diventa titolare e dopo lo shock iniziale comincia a migliorare, finendo la stagione dignitosamente. Le cifre a fine anno sono gracili come il suo fisico: poco più di 9 punti col 40% dal campo e il 29% da 3. Ma in estate arriva lo scivolone: Magic dichiara che si sentirebbe deluso se Ingram non realizzasse 20 punti di media a partita, mettendo in chiaro che i Lakers si aspettano di tirar fuori da lui il nuovo Kevin Durant. Le aspettative di diventare un ventellista in NBA per un ragazzo di 19 anni dal peso di una scopa bagnata che ha fatto fatica a mettere insieme 9 punti a partita la stagione precedente sono ovviamente fuori da ogni logica.

Brandon Ingram ieri notte decisivo nella partita contro Houston con 27 punti e 13 rimbalzi.

Ingram viene quindi catapultato in quintetto con Lonzo, Kentavious Caldwell Pope, Larry Nance e Brook Lopez: in pratica è l’unico giocatore in grado di crearsi un tiro fronte a canestro. Non casualmente, i Lakers si ritrovano ad avere uno dei peggiori attacchi della NBA. Dopo i primi mesi e i primi cambi ai quintetti, complice un infortunio di Ball, Luke Walton fa partire l’esperimento di Point Ingram che si traduce nel miglior periodo della breve carriera del nostro. Ingram funge più da entry passer che da vero e proprio playmaker, ma i suoi numeri schizzano a 17 punti, 6 rimbalzi e 6 assist a partita per una decina di gare, che sono anche quelle con le migliori percentuali al tiro in carriera. Il tutto si conclude con un infortunio contro Miami e la stagione che termina.

Nel giro di due anni Ingram è passato da comprimario difensivo a prima opzione offensiva a playmaker, senza che sia stato chiaro a nessuno quali aree del suo gioco avrebbe dovuto sviluppare per il suo bene. Quest’anno, con l’arrivo di LeBron, ad Ingram è stato chiesto nuovamente di cambiare il suo gioco, diventando un attaccante “occasionale” e un facilitatore secondario. Dopo due stagioni passate ad aspettarsi nulla di meno del nuovo Kevin Durant, i Lakers hanno chiesto ad Ingram di curare attentamente la selezione di tiro, ed era palese dal momento in cui LeBron ha vestito la casacca in gialloviola che la distribuzione del gioco sarebbe stata diversa. Walton ha usato Ingram in quasi tutte le situazioni di gioco possibili, dai consegnati ai pick and roll, chiedendogli di trovare spazio nel corso dell’azione invece che fermare il gioco. Gli schemi di Walton permettono a Ingram di essere un passatore sufficiente anche con un numero di tocchi limitato, ma con l’infortunio di LeBron i piani cambiano nuovamente, investendolo dell’ennesimo ruolo diverso in carriera, per poi toglierglielo immediatamente appena James è tornato disponibile.

La situazione rischia di cadere nel grottesco e i miglioramenti tecnici non arrivano come si spera. Nel mentre i suoi numeri fioriscono senza LeBron ed appassiscono con lui di fianco (sebbene l’efficacia aumenti), ma è il suo gioco in catch & shoot a essere ancora insufficiente, con le doti difensive che non vengono sviluppate a dovere. Ingram non è un passatore con chissà quale visione di gioco rivoluzionaria, e il suo jumper ha ancora un ricciolo sospetto davanti alla fronte che ne compromette l’efficacia. In generale, sembra ancora vivere di lampi estemporanei proprio come a Duke. I Lakers hanno sprecato tutte le stagioni NBA di Ingram a chiedergli di diventare il giocatore che avrebbero voluto avere, invece di sviluppare quello che avevano effettivamente a disposizione, e non appena si è presentata l’occasione hanno provato a mascherarlo da asset irrinunciabile per mettere le mani su una stella.

Ingram è ancora il giocatore dei Lakers su cui il giudizio è più discordante: alcuni tifosi dei Lakers lo apprezzano più del suo reale valore, perché hanno visto un ragazzo adattarsi a fare di tutto, riuscendo via via a farsi trovare comunque pronto, e la sua età e il suo potenziale inespresso possono far sperare nei più celestiali miglioramenti. Per chi non lo segue assiduamente invece Ingram è un eterno incompiuto, un giovane acerbo senza una vera skill elitaria NBA e con un fisico ancora troppo gracile per essere incisivo. La presenza di LeBron ha messo un conto alla rovescia sulla testa di chiunque, ma non c’è modo per cui i Lakers possano uscire puliti dal modo in cui hanno fallito lo sviluppo del loro maggior talento.

Kyle Kuzma

Kuzma è l’esempio perfetto del giocatore che beneficia immensamente dalla presenza di LeBron, e il suo sviluppo è stato chiaro dal primo giorno: per i Lakers Kuzma era ed è un realizzatore, e nient’altro. Dato il suo fisico già sopra la media fin dall’anno scorso e il suo tocco morbido vicino al ferro è stato facile immaginare il suo uso in NBA, e dal suo canto non è mai stato nemmeno remissivo a prendersi un numero considerevoli di tentativi a partita.

La presenza di LeBron comunque amplifica il suo gioco a dismisura, Kuzma non è un tiratore eccellente (questa stagione è fermo al 32% da 3 punti), ma è un deterrente sufficiente per aprire quanto basta il campo a LeBron per mettere in difficoltà una difesa e, di conseguenza, fornire delle conclusioni estremamente semplici allo stesso Kuzma, che si è adattato perfettamente ad attaccare su tagli e sugli scarichi quando gioca di fianco al 23, e a fermare la palla quando riposa. Kuzma è un giocatore estremamente monodimensionale, nel senso che tutto il resto del suo gioco che non sia volto al mettere la palla nel canestro è trascurabile, ma i Lakers sono comunque invasi da un’orda di giocatori versatili e polifunzionali, e mentre c’è abbondanza di personale in grado di difendere, prendere rimbalzi e spingere palla in transizione, un giocatore come Kuzma che si limita a segnare punti è necessario e per certi aspetti perfino indispensabile.

Anche durante l'All-Star Game Kuzma non si è fatto pregare per prendersi i suoi tiri, segnando 35 punti e vincendo l'MVP del Rising Star Game.

Ci sono fasi del suo gioco che potrebbero migliorare - e ad essere onesti la sua difesa sugli esterni è leggermente migliorata nel corso di quest’anno -, ma è quasi comico come il resto del suo gioco sia quasi una preoccupazione per lui. Kuzma è nel quinto percentile per rebound rate tra i giocatori alti almeno quanto lui, e quest’anno ha realizzato più palle perse che assistenze per i compagni. Kuzma non effettua tagliafuori, raramente si libera del pallone se non quando ha arrestato il palleggio e deve ripartire, e pecca di tunnel vision ogni volta che porta palla verso il canestro avversario - eppure, tutto sommato, ai Lakers può andare anche bene così per uno pescato alla 27 del Draft.

Al college Kuzma era un coltellino svizzero, uno di quei giocatori versatili su cui Walton sembra sbrodolare, invece si è rivelato “solo” un ottimo realizzatore, ma resta comunque il secondo miglior realizzatore dopo LeBron a 23 anni di età e a meno di 2 milioni di dollari a stagione. È difficile credere che per le altre squadre Kuzma valga quanto vale nel gioco dei Lakers, nella maggior parte dei casi trovare giocatori che fanno solo canestro è un compito piuttosto semplice in NBA, e nelle altre 29 squadre che non hanno il privilegio di giocare con LeBron la possibilità di sprecare prezioso spazio salariale su una calamità quando la palla non è nelle sue mani sembra semplicemente una bruttissima idea. Ma ai Lakers di questo c’è bisogno, specialmente nei prossimi mesi dove ogni passo falso verrà amplificato a dismisura, e il giovane forse più importante nelle dinamiche di squadra a Los Angeles rischia di essere quello con meno valore in sede di mercato.

Lonzo Ball

Finora tutte le point guard che sono state affiancate a LeBron erano dei tiratori su scarico o degli attaccanti, e Ball è quindi il primo vero playmaker facilitatore con cui LeBron abbia mai giocato. Ci sono inoltre molteplici fattori che fanno sembrare l’incastro tra i due ideale: Lonzo è in grado di servire i compagni ma non ha bisogno di monopolizzare il pallone; la sua mancanza più grande, ovvero l’incapacità di muovere una difesa posizionata, è facilmente soppiantata dalla gravità di LeBron. Lonzo ha poi un vero e proprio sesto senso per il pallone, che gli permette di muoversi in anticipo per i rimbalzi in difesa e iniziare immediatamente la transizione. In attacco può vivere di soli tagli e backdoor, o come ricevitore di alley-oop data la sua esplosività attorno al ferro. Inoltre è un giocatore che difende con impegno sulle point guard avversarie e la sua meccanica di tiro sembra adatta a farlo diventare più un tiratore piedi per terra, prima ancora che dal palleggio. Nonostante gli infortuni che hanno afflitto sia lui che James, l’intesa tra i due stava iniziando a sbocciare: LeBron sembra premiarlo per ogni taglio che effettua, e Lonzo dopo ogni stop difensivo cede palla al Re con una referenzialità quasi servilesca.

L’ostacolo più grande alla stagione di Lonzo è stato tuttavia Rajon Rondo. Rondo è arrivato per volere di Magic per due motivi: prima di tutto è un contratto annuale che tiene i conti in ordine e poteva essere inserito come filler in ogni scambio; in secondo luogo è un leader vocale in una squadra composta da giovani o reietti. È stato lo stesso Ball dopo una sconfitta a lamentarsi dell’assenza di LeBron e Rondo come quella di entrambe le “voci parlanti” della squadra, ruolo che al momento non è nelle corde di Lonzo e forse non lo sarà mai.

Ma la presenza di Rondo è stata troppo ingombrante e per nulla accomodabile alle esigenze della ex seconda scelta assoluta, che è pur sempre al suo secondo anno in NBA. Walton ha subito consegnato il posto da titolare a Rondo già dal training camp, e sebbene Lonzo se lo fosse ripreso a causa di una sospensione del compagno, spesso l’allenatore preferisce il veterano a chiudere le partite invece che concedere spazio al giovane prospetto. I due ovviamente hanno un gioco del tutto incompatibile: nessuno dei due è in grado di combinare nulla condividendo il campo con l’altro, non c’è abbastanza tiro tra i due per spaziare a sufficienza e già la presenza di LeBron e Ingram è sufficiente a togliere possessi a uno solo dei due.

Anche per questo il minutaggio di Lonzo è calato rispetto alla scorsa stagione del 15%, e il tempo di possesso effettivo del pallone si è dimezzato da 5.2 minuti della stagione scorsa ai 2.6 scarsi di questa. Ma è preoccupante come la presenza di Rondo possa essere preferita a quella di Ball, che è più produttivo lontano dalla palla e necessita di molti meno secondi per far girare la squadra. Inoltre Lonzo è più che competente a prendersi quotidianamente la guardia avversaria più pericolosa in difesa, mentre Rondo ormai è talmente imbarazzante in difesa da non poter nemmeno più campare di rendita con la fama che si era guadagnato ai tempi dei Boston Celtics, dove era effettivamente un difensore tenace. Sebbene le metriche di squadra siano simili per entrambi i giocatori, e nonostante all’eye test la differenza di impegno tra i due in difesa sia lampante, sarebbe comunque interesse dei Lakers sviluppare Ball nel miglior scudiero possibile del Re.

Lonzo è fuori dal 10 Gennaio per un problema alla caviglia e in questo momento le sue doti di difensore e passatore farebbero molto comodo ai Lakers.

Ma Lonzo è ancora un prospetto e un giocatore estremamente giovane, e spesso in stagione ha commesso dei palesi errori dovuti all’inesperienza - addormentandosi durante i rimbalzi senza cercare il contatto fisico con l’avversario, sbagliare direzione nelle rotazioni difensive o muoversi pigramente addosso ad un blocco, sbattendoci come Willy il Coyote contro una roccia alla caccia del Road Runner. Questi momenti di disattenzione sono comunque fisiologici nei giocatori di 21 anni, e sono comunque un prezzo congruo da pagare per avere quei momenti in cui Ball è di gran lunga il miglior difensore della squadra, che al momento si limita a pochi possessi a partita. Ma il potenziale per esserlo costantemente per tutta la stagione è lì in bella vista.

Il danno che sembra stia subendo, in ogni caso, non è un solo calo nei minuti di gioco, ma sembra aver iniziato un periodo di alienazione da se stesso. Lonzo prima dell’infortunio non era solo un giocatore giovane con periodi di disattenzione, ma non sembrava nemmeno il Lonzo di pochi mesi prima, e in una situazione in cui LeBron era assente ci si sarebbe aspettati un aumento delle sue folate a tutto campo, o di quei passaggi fulminei da una parte all’altra del parquet, invece Lonzo è sembrato sempre meno a suo agio e sempre più lontano dal giocatore che sembrava di essere. È estremamente importante che i Lakers non commettano su di lui lo stesso errore che hanno fatto con Ingram, perché Ball è un giocatore atipico con un talento cristallino e trasformarlo nel giocatore che sperano di avere invece di far crescere quello che effettivamente hanno rischia di essere ancora più controproducente che con il caso di Ingram, dove comunque la sua versatilità gli permette di essere un fattore positivo.

L’uragano che è stato l’arrivo di LeBron ha rivoltato la franchigia come un calzino, e sebbene l’obiettivo principale di Maginka fosse quello di mettere le mani su James, l’ambiente che hanno costruito non è stato in grado di reggere l’impatto. Sembra molto difficile a questo punto che il futuro dei Lakers e quello del loro nucleo di giovani sia legato nel futuro, perlomeno con ciascuno di loro. I Lakers proveranno nuovamente a metterli nel piatto per assicurarsi Anthony Davis, perché la prospettiva di sprecare i 35 anni di LeBron con un tampone per un ipotetico futuro migliore è pura follia. I Lakers insomma hanno compromesso lo sviluppo dei loro giocatori, almeno finora, e di conseguenza ne hanno abbassato il loro valore in sede di mercato.

Ma nonostante la stagione stia andando a sud scommettere contro LeBron non è mai stata una buona idea. E se la squadra dovesse, una volta recuperati gli infortuni, trovare stabilità nelle rotazioni e nei ruoli in campo, Los Angeles potrebbe pure finire con l’essere la mina vagante ad Ovest, o esplodere prematuramente di fronte ai nostri occhi.

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