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Foto di Garrett Ellwood/NBAE via Getty Images
NBA Dario Ronzulli 8 gennaio 2020 8'

Fino a dove possono arrivare i Denver Nuggets?

La squadra di coach Malone ha scoperto un’anima difensiva che non le apparteneva, ma può considerarsi una contender?

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Nel rutilante mondo della Western Conference sta trovando ancora spazio la beata gioventù dei Denver Nuggets. Protagonisti l’anno scorso di una semifinale playoff memorabile contro i Portland Trail Blazers, persa solamente alla settima partita per quanto giocata in casa, i ragazzi di Mike Malone in questa stagione stanno offrendo una versione di loro stessi per molti versi inattesa.

 

Fino al 30 novembre scorso la miglior difesa della NBA considerando i punti concessi su 100 possessi era proprio quella dei Nuggets: 101.9 di rating difensivo. Il rendimento di dicembre – con cinque sconfitte nelle prime sei partite del mese – ha fatto perdere alla franchigia del Colorado la leadership con conseguente crollo in graduatoria al decimo posto. Resta comunque il miglioramento rispetto alla passata stagione, quando Denver fece raramente parlare di sé per il lato difensivo. Ma siccome il roster è rimasto sostanzialmente invariato non solo rispetto alla stagione passata ma anche a quella di due anni fa, cosa c’è di diverso?

 

Intanto un punto di partenza è proprio la continuità. Lavorare per tanti mesi sullo stesso gruppo ha permesso a coach Malone di dare un’anima ben definita, di mettere in chiaro gerarchie e responsabilità, di creare quella chimica e quella fiducia reciproca che sono alla base di ogni buona difesa. A maggior ragione in presenza di un giocatore così condizionante come Nikola Jokic.

 

Non ci sono principi diversi rispetto alle due precedenti annate: il ritmo di gioco resta basso – anzi, il più basso di tutta l’NBA – perché è più congeniale per i Nuggets difendere schierati piuttosto che correre in campo aperto; pressione sulla palla, braccia sempre attive sulle direttrici di passaggio e rotazioni forti soprattutto contro il pick and roll restano però le basi su cui si sviluppa il lavoro nella propria metà campo. La differenza principale la fa la chimica di squadra.

 

 

Tra quelli con il segno meno nel defensive box plus-minus c’è Malik Beasley, che però qui fa un eccellente lavoro su Terrence Ross, impedendogli di servire un libero ma pigro Iwundu sotto canestro. Questa è un’azione interessante anche perché mostra la capacità di Denver di muoversi in modo da creare situazione di superiorità lì dove c’è il pallone: in due contro Evan Fournier in palleggio; in due contro Ross in penetrazione (peraltro c’è sempre Grant, uno che pur con alti e bassi si è inserito felicemente); in tre contro uno a rimbalzo. 

 

Ok, l’amalgama è il fattore in più. Ma c’è dell’altro. Per esempio siamo di fronte all’ennesima stagione in cui Paul Millsap dimostra di essere un difensore straordinario per come si muove sul campo e, soprattutto, per come fa muovere gli altri. Ed è l’ennesima stagione in cui non viene celebrato a dovere: ha il miglior defensive rating della carriera (per la prima volta sotto i 100); con lui in campo il plus-minus di squadra è +6.4, mentre quando va in panca crolla a -1.8; in generale quando è schierato fa migliorare i numeri difensivi di tutti, in primis di Jokic. Sta giocando a un livello tale da meritarsi la considerazione per inserirlo nel primo quintetto difensivo NBA a fine stagione – la sua 14esima nella NBA.

 

 

Qui un esempio di come, se il fisico non lo aiuta più come una volta, la testa di Millsap viaggia ancora a velocità doppia rispetto a tante altre – e i compagni sono spesso sintonizzati sulla stessa frequenza. L’ex Atlanta passa sopra il blocco di Horford perché è più importante seguire Tobias Harris e impedirgli un tiro comodo; quando sul numero 12 di Philly arriva Torrey Craig, Millsap capisce che c’è un uomo lasciato libero ovvero Horford e allora corre a chiudere sull’ex compagno di squadra ai tempi di Atlanta. Che è bravo a fare tantissime cose, ma la penetrazione con scarico non è il suo forte: non a caso Millsap lo forza ad andare in mezzo, nello stagno con i coccodrilli. Horford cerca il passaggio per Simmons, ma le mani di Millsap sono prontissime.

 

Il vero Joker

Quando diciamo che i Denver Nuggets sono Jokic-dipendenti siamo ben consci che si tratti di un’ovvietà. “Il Joker” non può non essere un giocatore condizionante per il talento che si ritrova, ma naturalmente lo è anche in senso passivo, con tutta la squadra che deve lavorare per metterlo nelle condizioni di eccellere. Ciò si tramuta nella necessità di giocare a ritmo lento, impedendo il più possibile le transizioni avversarie: se il serbo deve correre per tutto il campo avanti e indietro il rischio è di doverlo panchinare dopo poche azioni. 

 

Il serbo non ha cominciato la stagione offrendo prestazioni scintillanti per continuità, anzi spesso è apparso più un peso che un fattore per i suoi. L’impressione è che la condizione fisica non fosse ottimale, ma è facile pensare che Jokic – e coach Malone di riflesso – sia entrato nell’ottica di idee che non convenga spremersi ora quanto piuttosto tenere il grosso delle energie per quando la stagione entrerà nel vivo. Questo non vuol dire che non stia incidendo, beninteso: stiamo pur sempre parlando di uno dei migliori lunghi della lega che sta flirtando con la doppia doppia di media e che sta cercando di variare il suo arsenale d’attacco prendendosi qualche tiro da tre in più e alzando il numero di conclusioni in catch and shoot. Però la sensazione è che il vero Nikola Jokic lo vedremo dopo l’All-Star Game, il che è spaventoso considerando che i Nuggets sono secondi nella Western Conference.

 

Nel frattempo gli altri si stanno dando da fare, eccome. Prendete per esempio Will Barton, che nel corso della carriera non è mai stato un mastino feroce sui 48 minuti e che invece quest’anno ha dei momenti in cui pare una piovra per quanto muova le braccia. Non ha mai avuto un Net Rating così alto nelle 7 stagioni da pro, non si è mai sentito – nel senso letterale del termine: parla in continuazione – così tanto durante le partite.

 

Anche Jamal Murray, il secondo violino designato di questi Nuggets, sta mettendo insieme numeri difensivi migliori rispetto ai suoi primi tre anni in NBA seppur in vistoso calo nelle ultime due settimane. Uno dei gradini che il canadese deve scalare per essere considerato stabilmente tra i migliori è senza dubbio la capacità di essere determinante anche in difesa senza farsi battere dal palleggio con facilità irrisoria come accadeva a inizio carriera. I progressi sono evidenti ma ancora non bastano, specie se non sono accompagnati da una crescita anche nelle scelte in attacco. Anche qui però ci vuole un beninteso: Murray resta un punto di forza assoluto dei Nuggets, sia perché è perfettamente integrabile con Jokic sia perché gode della fiducia di tutto l’ambiente, e oltretutto ha già dimostrato che in post-season può fare la differenza.

 

E poi c’è Michael Porter junior, sulle cui spalle gravano enormi aspettative visti gli sprazzi di talento che ha mostrato soprattutto nell’anno di college a Missouri. I problemi alla colonna vertebrale che lo hanno tenuto fuori per tutta la scorsa stagione ne hanno inevitabilmente rallentato la crescita tecnica ma il fatto che i Nuggets abbiano comunque esercitato l’opzione sul quarto anno di contratto significa che in Colorado ci credono eccome. D’altronde quel fisico da ala di 2.11 e quelle skills soprattutto nel modo che ha di costruirsi buoni tiri meritano attenzione. Coach Malone lo sta dosando con pazienza, dandogli via via più minuti e il nativo di Columbia sta prendendo sempre più confidenza con il mondo NBA. Nelle ultime 10 partite il suo minutaggio è salito a 13.8 di media, la sua percentuale reale al tiro è 60.5% e il suo Usage è salito di 3 punti percentuali. In difesa è tutt’altro che positivo e qui il lavoro da fare è enorme però se c’è un giocatore che a Denver può suonare uno spartito diverso appare proprio lui.

 

Ci sono alcune statistiche che ci danno una mano a spiegare come difendono i Nuggets. Considerando 100 possessi, Denver è sesta per minor numero di punti concessi da seconda opportunità (12.2) e quinta per punti subiti da palle perse (14.5). Sui 36 minuti, invece, è la seconda squadra che subisce meno punti di tutti (78.2, dietro solo ai Celtics). Tendenzialmente quindi è una squadra che ti fa segnare poco, nonostante inviti spesso al tiro: basti pensare che contro i Nuggets si possono avere 8.1 tiri dagli angoli, quei tiri che gli attacchi contemporanei NBA cercano con grande insistenza. Il problema è che il lavoro difensivo di Millsap e compagni è tale per cui in angolo finiscono per tirare solo gli avversari meno affidabili.

 

 

Qui contro Sacramento Jeremi Grant e Mason Plumlee lavorano bene per disinnescare il pick and roll dei Kings. Barton ha lasciato il suo uomo, Justin James, per creare una superiorità numerica nel cuore dell’area. James riceve da Hield e tira con tanto spazio ma sbaglia: d’altronde ha il 28.6% in stagione su 1.2 tentativi. Non parliamo di Bogdanovic, insomma.

 

C’è un altro aspetto da sottolineare legato a doppio filo a quanto sopra espresso. Denver non punta a togliere conclusioni in generale, ma lavora soprattutto sui migliori realizzatori che affronta di sera in sera. Si concentra su un obiettivo e scommette che gli altri non siano in grado di aumentare la loro produttività. Un esempio su tutti lo si può prendere dalla vittoria del 20 novembre sugli Houston Rockets. In quell’occasione James Harden si è preso 16 tiri con il 33.5% di usage, quando invece di media si prende 25.1 tiri a partita con il 37.9% di usage. Certo, il successo non è arrivato solo per questo, ma è innegabile che abbia influenzato il risultato e il modo in cui il resto della lega ha poi cominciato a difendere sul Barba.

 

Non c’è nulla di particolarmente innovativo nel sistema di Malone, se non affidarsi allo stesso gruppo – fatte salve le eccezioni tipo il sopracitato Grant – stagione dopo stagione, in controtendenza rispetto ai cambiamenti spesso vorticosi in NBA. La domanda che sorge spontanea è se questa crescita difensiva dei Nuggets possa essere preludio per una post-season di alto livello. Se guardiamo alla totalità dei segnali arrivati, la risposta è no. Millsap è l’unico capace di difendere in uno contro uno contro i Big dell’Ovest; Murray non è ancora un difensore sufficientemente aggressivo sulle point guard; prima o poi quei tiri dall’angolo non verranno presi dai tiratori meno affidabili. Per non parlare di quanto la strategia di concentrarsi su un singolo avversario possa rivelarsi una coperta corta quando si comincerà a fare sul serio. 

 

Bisognerà continuare sulla strada tracciata, certo, ma per compiere davvero un salto di qualità forse serve qualcosa dal mercato. Negli ultimi giorni i rumor spingono molto verso uno scambio che porterebbe Jrue Holiday in Colorado in cambio di Gary Harris e altro. L’attuale guardia dei Pelicans potrebbe rappresentare quel tassello mancante in termini di esperienza e solidità difensiva in situazioni di isolamento che manca alla banda di Malone per presentarsi ai playoff con una veste diversa dalla semplice mina vagante.

 

 

Tags : denver nuggetsnikola jokic

Dario Ronzulli è nato a Foggia nel 1982 e da bambino sognava di fare il giornalista sportivo. Ora che è cresciuto lo fa davvero: anni di preziosissima gavetta in radio locali, poi cinque anni a Radio Sportiva e due a Radio Montecarlo Sport. Ora collabora con la redazione basket di Tuttosport e bazzica l'etere bolognese.

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