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Diario sentimentale della finale di Libertadores
06 nov 2023
06 nov 2023
Di maledizioni, guerre culturali e coppe.
(copertina)
Foto di Erica Martin / Imago
(copertina) Foto di Erica Martin / Imago
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Al terzo piano del civico 205 di rua Professor Euríco Ribeiro ci sono 22 maglie del Fluminense appese per tutta la lunghezza del terrazzo. Due piani più in su, stesso palazzo, altro terrazzo, le maglie le portano addosso, ma sono del Boca Juniors. Uno indossa la divisa vintage di Diego Maradona, un altro ha sulla schiena la scritta Roman. Ci sono altre sagome, tutte - tranne una - rigorosamente in tenuta da calcio, ma non riesco a distinguerle: troppo lontani dal marciapiede. Troppo fumo che esce da quel terrazzo, e dall’altro. Non è nemmeno mezzogiorno, ma al quinto piano è il momento dell’asado, al terzo quello del churrasco, che è poi la stessa cosa, eppure no. Tra quei due mondi non c’è solo un piano nel mezzo, a dividerli, ma c’è tutta la distanza - a volte minima, a volte siderale - tra due popoli, quello argentino e quello brasiliano.

Mentre sono sul marciapiede davanti al portone del civico 205 con il naso all'insù, in strada passano una cinquantina di poliziotti a cavallo. Oltre c'è il Maracanã: mancano poco più di cinque ore alla finale di Coppa Libertadores tra Boca Juniors e Fluminense. E penso che solo in questo angolo di mondo, dove pubblico e privato si mescolano fino a essere una cosa sola e dove la maglia della squadra del cuore non la metti solo allo stadio, ma in giro, al lavoro, ai matrimoni e - talvolta - perfino dentro la bara, ci possa essere un legame tra la "Gloria Eterna" (il motto della Libertadores) e la prossima riunione di condominio.

In quel momento gironzolare per le strade che circondano lo stadio ha un effetto straniante, da videogioco distopico alla The Last Of Us: in giro solo polizia e militari, qualche steward con la pettorina gialla, tanti palazzi che avrebbero bisogno di ben più di una rinfrescata sui cui muri sono montati chilometri di filo spinato intervallati da cocci di bottiglia appuntiti, una favela sullo sfondo, proprio dietro alla fermata della metropolitana. In un angolo, oltre il filo spinato, c'è il Flu Esquina, un club di tifosi il cui sottotitolo è "Fluminense, Churrasco e Cerveja": il simbolo è un Homer Simpson con cilindro e barba alla Abramo Lincoln, in una mano un boccale di birra, nell'altra la spada della picanha. A rendere il tutto un po' più sordido, la musica che fuoriesce dal cancello, Gangsta's Paradise.

Al di là delle protezioni in acciaio stile golpe che dividono il luogo della finale dal resto di Rio de Janeiro si vede solo il fumo e si sentono gli scoppi, incessanti, dei fuochi d'artificio sparati dai tifosi del Fluminense, radunati due strade più in là a bere, mangiare e fare la fortuna della panetteria São Francisco, che ha la fila fuori.

Tifosi del Boca visti sino a quel momento, a parte quelli sul terrazzo: due. Ma arriveranno, quasi tutti assieme, due ore più tardi. E quelli della "Doce", i più caldi, troveranno anche il tempo di scontrarsi con la polizia.

Nel frattempo mi imbatto sia nel Papa che in Babbo Natale. Sono personaggi entrati ormai nel folklore locale: il primo si chiama Severino Mendes, ha 60 anni ed è di Brasilia, tifosissimo del Flu, ci tiene a dirmi: «Sono papa da 19 anni». Veste con una (non proprio) regolare tonaca e la papalina in testa, le scritte sono - come si conviene - un misto di sacro e profano. Sul dorso della tonaca si legge “Abençoados sejam os tricolores" (ovvero "Siano benedetti i Tricolori", e cioè quelli della Flu), sulla papalina invece un più new age "Non rinunciare ai tuoi sogni", sulla stola verde "Il papa è tricolore". Quella frase fa il verso a una battuta che circola dai tempi del conclave che nel 2013 elesse sul soglio pontificio Bergoglio, e che hanno detto un po' tutti, compresi due presidenti brasiliani politicamente all'opposto come Dilma Rousseff e Jair Bolsonaro: «Il Papa è argentino, ma Dio è brasiliano».

Quel che è certo è che le benedizioni di Severino Mendes sono prese molto sul serio dalla Torcida, e che il suo pontificato - sebbene immaginario - è durato molto più di quello del vero Papa Severino, eletto il 15 ottobre del 638 e morto il 2 agosto del 640, nemmeno due anni dopo. Accerchiato dai tifosi che vogliono una foto con lui davanti al logo della finale, Severino mi lascia con un pronostico che - col senno di poi - sa quasi di visione mistica: «Segniamo due gol e vinciamo noi».

Due strade più in là passeggia Marcelo Amorim, in arte Papai Noel Tricolor: ha il barbone e il cappello d'ordinanza (con una spilla del Fluminense), i bermuda rossi con l'orlo bianco e una cintura che somiglia a quelle dei pugili campioni del mondo, ma che dentro ha ornamenti e simboli che sembrano usciti da un Harry Potter natalizio. La maglia è bianca, ovviamente del Fluminense, e seppur con qualche difficoltà fa di tutto per sfilarsi il cinturone e farmi vedere bene la scritta "Papa Noel Tricolor" sulla schiena, sotto al numero uno. Come se quella scritta certificasse davvero qualcosa. Anche lui con la sua previsione non andrà lontanissimo dal risultato finale: «Due a zero per noi, gol di Cano e Arias».

Intanto gli ambulanti, infischiandosene delle scaramanzie, fanno affari vendendo praticamente a tutti quelli che passano una fascia con le facce di tutti i giocatori e la scritta "Campeão Libertadores 2023, titulo inedito".

Il "titulo inedito" fa parte della triplice maledizione che questa coppa si portava appresso: due grandi e condivise, che hanno a che fare con le due finaliste (e d'ora in poi solo con una) e i loro milioni di tifosi; l'altra, molto più piccola, riguarda - anzi riguardava - una sola persona: me.

La mia maledizione è iniziata nel 2018, quando comprai un volo (a buon prezzo, ma senza possibilità di cambiare date) per l'Argentina con arrivo previsto il 12 novembre. Era maggio, la Libertadores era ancora nella fase ai gironi e una data precisa della doppia finale (l'ultima stagione in cui erano previste un'andata e un ritorno) ancora non c'era. Speravo si potesse qualificare almeno una squadra di Buenos Aires, se ne qualificarono due. E non due a caso, ma le arcirivali Boca e River. Venni poi a sapere che la gara di andata si sarebbe giocata l'11 novembre e cioè meno di 24 ore prima del mio arrivo. Mi dissi che avrei guardato dal vivo il ritorno, ma trovare un accredito o un biglietto si rivelò impossibile. Andai comunque fuori dallo stadio Monumental nel giorno in cui ci fu l'assalto al pullman del Boca. La partita fu rinviata e io nel frattempo, tramite un collega, telefonai e poi feci amicizia con un gentilissimo dirigente del Boca Juniors con antenati - guarda caso - liguri come me.

In quei giorni girava voce che la partita sarebbe stata spostata in Paraguay, in Brasile, addirittura a Genova, che era da dove ero partito per vedere la finale. Sarebbe stata una beffa troppo grande, che comunque trovò modo di concretizzarsi con la decisione di spostarla a Madrid il 9 dicembre, il giorno prima del mio volo di ritorno per l'Europa, con scalo a Madrid. Fui comunque invitato a vedere la partita in un ufficio nella pancia della Bombonera, in mezzo alle famiglie dei dirigenti e davanti a un vecchia tv col tubo catodico: era una festa con birre, pizzette, torte fatte in casa e bottiglie di Coca-Cola; diventò una mezza tragedia con bambini e - soprattutto - adulti in lacrime.

Pioveva e - ignorato da tutti - me ne andai a spasso per una Bombonera spettrale, sotto la pioggia, prima di tornare in hotel e, il giorno dopo, a casa. Promisi a me stesso che sarei tornato l'anno dopo per vedere la finale di Libertadores ovunque si fosse giocata. La Conmebol scelse Santiago del Cile e io pure: appena possibile comprai i biglietti aerei. Quando arrivai, Santiago era sottosopra, sull'orlo della guerra civile in seguito a una rivolta popolare dovuta - si diceva -all'aumento del prezzo del biglietto dei trasporti pubblici, ma che in realtà aveva a che fare molto più con l'esasperazione e la disperazione dei cileni. Tant'è che la Conmebol, per motivi di sicurezza, decise di spostare la finale River-Flamengo a Lima, in Perù e io me la guardai da un bar del barrio Brasil, a Santiago.

L'anno dopo riprovai, destinazione Maracanã, ma a fermarmi, a fermarci tutti questa volta, fu il Covid. Così per l'edizione successiva.

Nel 2022 ero pronto per andare alla finale di Guayaquil, in Ecuador, tra Flamengo e Athletico Paranaense, ma a volte è la vita che sceglie per te, e rimandai quel viaggio di qualche mese. Guayaquil però si rivelò inaspettatamente e comunque decisiva per la mia presenza alla finale 2023 per una serie di coincidenze che una volta, ai tempi di un film di successo su una rocambolesca storia d'amore natalizia e newyorkese, chiamavamo "serendipità". Sul volo per Madrid, in cui avrei fatto scalo prima di atterrare a Quito, accanto a me sedeva un medico boliviano che tornava per un po' a casa a trovare amici e familiari. Attaccò subito bottone nonostante non ne avessi voglia, ma era affabile e gentile. Quando seppe che sarei andato a Guayaquil (una delle città più pericolose al mondo) fece uno sguardo preoccupato e mi disse di contattare un amico che avrebbe badato a me. Quell'amico, tra le altre cose, mi diede il numero di un giornalista di Espn Ecuador che trovò il modo di farmi entrare allo stadio, e non solo, qualche mese dopo mi diede il contatto di un alto dirigente Conmebol. Sarà quest'ultimo ad accettare la mia richiesta di accredito per la finale Fluminese-Boca dopo che era già stata bocciata due volte e dopo che io ero già partito comunque per il Brasile. Di tutte queste persone solo una l'ho vista in faccia, il medico boliviano, che con la Libertadores non c’entra nulla. Eppure eccomi qua, da una finestra con vista sulla baia di Rio a raccontare dell'unica maledizione che è rimasta tale, quella del Boca Juniors.

Dovrei dire che anche quella del Boca è iniziata insieme alla mia, quando nel 2018 ha perso la finale che nessuno a Buenos Aires poteva permettersi di perdere, ma è iniziata un po' prima, nel 2012, quando è stato sconfitto dal Corinthians. Era la prima volta che il Boca si trovava a un passo dalla sua settima Libertadores. Vincendo quel confronto avrebbe raggiunto l'Independiente come numero di titoli vinti. E invece, due finali dopo, è ancora lì a rincorrere l'Independiente e anche il fantasma della partita di Madrid con il River.

L'altra maledizione era quella del Fluminense, che solo una volta - prima di questa edizione - aveva raggiunto la finale di Libertadores, nel 2008, perdendola, da strafavorito contro gli ecuadoriani della Ldu di Quito. Quella sconfitta non è mai andata giù alla tifoseria, che ha sempre sofferto di un complesso d'inferiorità rispetto alle altre grandi del calcio brasiliano, tutte (ad eccezione del Botafogo, che di maledizioni pare nutrirsi, infatti proprio in questi giorni, dopo essere stato ribaltato da 3-0 a 3-4 dal Palmeiras, sta facendo di tutto per buttare un titolo nazionale praticamente già vinto e che manca dal 1995) con almeno una Libertadores in bacheca: Santos, Flamengo, Grêmio, Internacional, Corinthians, Cruzeiro, Vasco da Gama, San Paolo, Palmeiras e Atlético Mineiro.

Quando al 72' della finale del Maracanã il peruviano del Boca Advincula segna il gol dell'1-1 che manda le squadre ai supplementari, i tifosi del Fluminense - che erano in festa dal 36', minuto del vantaggio del bomber German Cano, dodici partite e 13 gol in questa Libertadores - temono che non sarà la loro maledizione quella destinata a spezzarsi. Con l'aggravante di assistere a un tonfo nello stadio di casa in una finale unica, disgrazia sportiva che li avrebbe accomunati a pochi altri club al mondo (la Roma con il Liverpool nel 1984 in Coppa Campioni, il Bayern Monaco nel 2012 in Champions League contro il Chelsea, lo Sporting Lisbona nel 2005 in Coppa Uefa contro il Cska Mosca).

C'è un perché più grosso degli altri in questa disperazione preventiva dei tifosi: il Boca è la prima squadra nella storia della Libertadores ad essere arrivata in finale senza vincere nemmeno una partita nei tempi regolamentari. Due pareggi e poi vittoria ai rigori agli ottavi, stessa cosa nei quarti e in semifinale. Sembrava un epilogo già scritto.

Fino a quel momento la partita aveva avuto un unico copione, il Fluminense di Diniz, nuovo profeta del calcio offensivo brasiliano (alla guida sia del Flu che della Nazionale, in attesa di Ancelotti) all'attacco e il Boca a difendersi e ripartire. La tattica dell'allenatore degli argentini Almirón è lampante: ridurre la partita e il gioco del calcio all'osso, portare le occasioni altrui al minimo con il rischio di non averne nemmeno una per sé, come se i rigori fossero l'unica soluzione contemplata, come se il pallone fosse un impiccio ai propri piani.

In campo e in panchina ci sono diversi nomi noti, tra vecchie grandi promesse mancate (Benedetto da una parte e soprattutto Ganso dall'altra) e - per chi segue meno il calcio sudamericano - un po' di "guarda te dov'è finito" (Romero, Marcelo, Marlon, Ganso) e "pensavo avesse smesso" (Roncaglia, Felipe Melo, Ganso). La media età dell’undici Flu è geriatrica: 32 anni e mezzo.

Vicino a Cano, c'è Keno, con un'assonanza degna di una coppia d'attacco di Holly&Benji, mentre dall'altra parte Cavani combatte con l'idea di sé stesso, soprattutto quando in una delle poche azioni pericolose del Boca al posto di spaccare la porta come ai tempi del Napoli, o almeno prenderla, come ai tempi del Psg, torna indietro senza un motivo. L'altro grande nome atteso del Boca, il 19enne Barco, è invece sopraffatto dalla pressione e non riesce a fare la differenza. È come se alcuni giocatori del Boca fossero rimasti intontiti quanto noi della tribuna stampa bis (in basso vicino alla linea del fallo laterale, accanto ai tifosi del Fluminense), troppo vicini alle casse da cui, prima dell'inizio della gara è partita a tutto volume una playlist che sembrava uscita da un chiassoso bar di Ibiza, con brani come La Gasolina ("Como le encanta la gasolina, dame mas gasolina…")e Obsesión ("No es amor lo que tú sientes, se llama obsesión). In quei minuti di caos organizzato, con al centro del campo un'enorme riproduzione della Coppa Libertadores, c'era stato spazio per balletti e sbandieratori, con la trama delle bandiere rossobiancoverdi del Fluminense che a un occhio italiano sembravano uscite da un raduno di Forza Italia.

Nel secondo tempo aumentano i falli e le scorrettezze, il muro di tifosi del Boca non smette un attimo di cantare e accanto a me c'è un tifoso del Fluminense con la maglia numero 17 e la scritta Jajà che si sente il capo ultrà anche se non sta in curva: passa la partita a lanciare cori che nessuno segue e si sbraccia spazientito quando migliaia di persone che lo ignorano non fanno quello che chiede lui. Il ruolo di capo ultrà riesce molto meglio a Felipe Melo, che una volta sostituito passa più tempo girato verso gli spalti che verso il campo: carica i tifosi, canta i cori e chiama tutti allo sforzo collettivo con gesti plateali, aiutato nel ruolo dalla barba da predicatore.

Mentre la partita scivola verso i supplementari a riassumere il fascino e la follia della Libertadores e le esagerazioni del calcio sudamericano entra in campo John Kennedy (il padre lo ha proprio chiamato così, perché anche Kennedy è il nome, «mio papà è appassionato di storia di più non si dire. E sì, a scuola mi prendevano in giro», taglia sempre corto lui alla fatidica domanda), soprannominato ovviamente JK: entra all'80', all'89' è ammonito, al 99' segna la rete decisiva del 2-1, al 100' viene espulso dopo essersi buttato in mezzo al pubblico per festeggiare il gol. Tutto in venti minuti. Da quel momento il Boca capisce che si può anche attaccare, e lo fa, schiacciando il Fluminense e lasciando in molti l'idea che con un po' di coraggio in più poteva finire diversamente: invece si arriva per sfinimento al fischio finale tra calcioni, richieste di Var continue e un altro rosso, a Fabra del Boca.

Parte la musica mentre Felipe Melo, sempre lui, dirige le danze; ti giri e il grande muro dei tifosi del Boca - più di 20mila persone - non c'è più, come volatilizzati da un qualche trucco di magia. Arriva la Coppa e tutto il Carnevale calcistico che uno può immaginarsi a Rio, salvo che per il volume, che ti fa saltare i timpani.

Finita la partita ripasso dal civico 205: sul terrazzo del Boca non c'è nessuno, è tutto spento. Su quello del Flu manca qualche maglietta appesa, magari nel frattempo presa e indossata da qualcuno a cui è venuta voglia di scendere in strada e fare festa, ma c'è ancora fumo e gente e chiasso e churrasco per tutti. Stanno vivendo il loro attimo fuggente di "Gloria eterna". Sarebbe da tirare un urlaccio, provare a farsi invitare su, ma non sarebbe la mia festa. So che la vivrei da imbucato, non capirei. Ma so anche che da oggi i tifosi del Flu sono più leggeri, con una maledizione in meno da caricarsi sulle spalle. E qui, invece, li capisco benissimo.

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