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Lorenzo Moretto
Finale di stagione
23 giu 2022
23 giu 2022
Un estratto dall'ultimo libro di Lorenzo Moretto, edito da 66thand2nd.
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Lorenzo Moretto
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Una trave del tetto bruciata, una squadra di calcio nella palude, mi muovevo fra due estremi e mi era chiaro che il rischio tragedia stava montando. Meglio così. Terminai la telefonata e guidato dall’ansia di una strage sfiorata chiamai il centro sportivo per sapere se c’erano novità. Serie di WhatsApp ai colleghi del mio team per comunicare le partite che avevo registrato sui canali digitali dedicati ai campionati di calcio minori sparsi sulla superficie della Terra e che mi sarei sparato, così tutti dovevano allinearsi prima la prossima riunione nella war room. In giornate come questa ne guardavo sei sette al giorno con blocco per gli appunti a portata di mano, batterie di ricambio per il telecomando nel cassetto perché avrei maltrattato le immagini con i continui stop-and-go, selezione di birre caricate in frigo, avanzi della cena di ieri per le pause cibo serio, Pangrì Classici della Mulino Bianco da sgranocchiare nei momenti di noia. I viaggi sportivi dal divano facevano parte della mia ricerca interiore da osservatore, quasi uno studio del meccanismo stesso dell’osservazione che esigeva una connessione internet eccellente, uno schermo digitale con i controcazzi, un cuscino posizionato bene per dare sollievo alla schiena, il formato giusto del bicchiere da tenere nei paraggi (né troppo grande, né troppo piccolo, in vetro colorato, un bicchiere da whisky), la disposizione accurata delle birre nel frigo che seguiva una precisa sequenza delle stappature, il telecomando sempre in mano. Erano elementi che completavano il soggetto osservante tanto quanto era fondamentale la programmazione di nuovi viaggi, alberghi stellati, cene profumate, partite allo stadio, che normalmente mi portavano lontano da casa per circa 200 giorni su 365. Selezionai la prima partita e affrontai il mio viaggio digitalsportivo con una preghiera pagana: Adesso, però, datemi un giocatore capace di liberarmi da queste sciagure, uno abile a passare tra due avversari con la palla incollata al piede e che improvvisamente, con la suola, la fa scorrere in mezzo alle gambe di un terzo contendente che lo pressa, uno veloce, voglio vedere un assist impossibile disegnato da un architetto dello sport ubriaco, un tackle crudele, uno stop volante che sfida le leggi di gravità, maledizione! Datemi almeno un gol stratosferico, una fiammata di talento anche se, a dire la verità, in tutte queste partite anonime mi andrebbe bene anche una debole luce per smuovere il muscolo atrofizzato della speranza. La mattinata proseguì a ritmo sincopato: guardavo le partite registrate, selezionavo i minuti da trasferire su un altro supporto digitale, verificavo altre immagini caricate sulle chiavette, navigavo contemporaneamente su YouTube, consultavo Prozone e transfermarkt.it, chattavo con qualche pseudo giornalista sportivo, seguivo BleacherReport.com e gianlucadimarzio.com, ultimouomo.com, pure rivistaundici.com, un paio di blog andanti di gazzetta.it o altri siti istituzionali dove i captcha mi chiedevano di confermare che ero un essere umano. Lentamente mi dimenticai della mia ex e del tetto, tutte quelle azioni sul campo di gioco, le banalità di una partita, la tecnica acerba, la nebbia di un calcio mediocre mi avvolsero. La verità era che, considerato il numero di tesserati al settore giovanile scolastico della FIGC,  solo un ragazzino su diciannovemila aveva possibilità di giocare in Serie A. Per molti altri ci sarebbe stata una carriera da girovaghi in Italia, con brevi parentesi all’estero (magari Svizzera, Romania, forse la Bulgaria in mano agli agenti più poten-
ti), in squadre come Alessandria, Saronno, Borgomanero, Catanzaro, Le Mont, Virtus Francavilla, Plovdiv, Astra Giurgiu, Vaduz, Aarau, Picerno, Paganese, Cynthia.

 

Lo smartphone vibrò, qualcosa era arrivato su Gmail. Era il sito MC5.com, in teoria una testata web che elaborava e rilanciava informazioni calcistiche, nella pratica un covo digitale alimentato da esperti del settore che si muovevano come belve libere in una città sconosciuta per promuovere solo giovani calciatori individualisti. Il nome della band di rock’n’roll incendiario in realtà nascondeva la sigla Morris Caldwell V, fondatore del sito, erede di una famiglia caduta in rovina dopo aver fatto la fortuna con il commercio delle aringhe lungo le coste inglesi ed essersi comprata il titolo nobiliare. Cliccando sul link si visualizzarono una sequenza di jpeg, tutti con un titolo come Marek Słonce e qualcosa. La fonte era anonima, nessun elemento che mi aiutasse a capire chi lo avesse caricato e poi inviato.

 

Il primo video partiva leggermente sgranato, poi metteva a fuoco un ragazzino numero undici: faccia da funerale, fisico da figlio di sopravvissuti di una guerra nucleare. Lo scricciolo riceveva il pallone e partiva in attacco. In propulsione. Immaginai di vedere una Ducati Diavel 1260 che sminuzza l’erba. Avanzava e manipolava gli avversari con una velocità palla al piede decisamente rara, e faceva muovere i compagni con finte di corpo e abbocchi di passaggio. Vertice destro dell’area di rigore, eccolo puntare l’avversario che arretra con le gambe basse sperando di fare meno danni possibili. Senza rendermene conto mi ritrovai in mezzo al campo, vicino ai giocatori: Marek Słonce usa l’esterno sinistro per crearsi uno spazio sufficiente per il tiro, il difensore segue quel movimento spostando il peso del corpo sulla gamba destra per bloccare la conclusione, ma Słon ́ce si porta il pallone verso il fondo con un tocco di interno sinistro, il difensore ci casca e perde un metro, il nostro avanza libero e da lì potrebbe tirare rasoterra con un bel piattone destro e infilare le gambe del portiere per fare gol. No. Torna indietro con un colpo di tacco, di nuovo sinistro ad accarezzare il pallone, il corpo che si piega come il Tyson impegnato nel peek a boo alla Gleason Gym nel Bronx, oscilla, oscilla ancora, e poi la magia. Tutti rallentano e seguono quella danza assurda, destra e sinistra, ancora, il campo da calcio traballa. Solo che lui decide di farlo avanzando, diventa un furetto e disorienta altri due difensori che avevano provato ad abbatterlo, fino a superare il portiere ed entrare in porta assieme al pallone.

Tutto questo in pochi secondi.
Sprofondai sul divano.

La gola si aprì e un rigurgito marcio mi arrivò in bocca, erano le crêpes di albumi.

Mi rialzai per non vomitare.

La rapidità con cui era riuscito a governare il momento e decidere cosa fare era stata spaventosa, difensori e portiere non sembravano aver capito cosa era successo. Finte e controfinte, sempre in controllo del corpo. La velocità in uno spazio ristretto, un peso mosca con il pallone fra i piedi che gli avversari riuscivano a fermare solo con placcaggi da rosso. Leve corte e un baricentro basso. Un gol irreale per un ragazzino che sembrava essersi dimenticato di ingurgitare cibo negli ultimi tre, quattro mesi.

 

Avvampai. Chiusi gli occhi per qualche secondo, deglutii un grumo di colazione e succhi gastrici che stavo ruminando, dovevo controllare la nausea, volevo capirci qualcosa. Corsi in frigo a prendere una Rice Beer Doppio Malto e una Adelscott, le stappai contemporaneamente e mi misi comodo.

 

Marek Słonce non aveva tatuaggi, orecchini, non aveva reazioni o gesti di stizza quando veniva affondato dalle entrate degli avversari. Lo falciavano in due, abbattevano quello scheletro che si rialzava senza toccarsi nessuna parte del corpo. I suoi compagni gli dicevano qualcosa, e lui ok con la testa. Non faceva trasparire rabbia, né emozione, sembrava non sapere cosa fare delle braccia prima di un calcio di punizione, dopo il gol aveva guardato il cielo ma senza indicare nessuno con gli indici, anche sotto il diluvio aveva alzato quella faccia scheletrica e fissato una galassia lontana. Era incisivo partendo dall’esterno e muovendosi in diagonale, ma anche ricevendo  al centro del campo, dovunque era il suo regno. Gol su gol, assist dopo assist. Progressioni. Orchestrava ventun giocatori che stavano lì, compagni e avversari, per aiutarlo o abbatterlo ma che finivano per essere suoi spettatori, come quelli fuori dal campo di gioco.

 

Trascorsi tutto il resto del giorno a guardare gli stessi video di Słonce. Volevo cercare la fregatura, avevo già maneggiato filmati simili in passato e poi mi ero scottato ma a ogni visione montava il desiderio di approfondire e allo stesso tempo scomparivano l’attuale posizione in classifica della squadra e la trave del tetto bruciata. Mi sentii pulsare la testa. Marek Słonce era un giovane calciatore irragionevole, un destino da feticcio gli aveva già sgranocchiato le guance ma un paio di bistecche, qualche barretta energetica, un mese di puntate in palestra e poteva trasformarsi in un prodotto la cui immagine sarebbe stata distribuita sulle piattaforme digitali e i cui diritti sarebbero appartenuti alla Samsung come alla Nike. La giungla del calcio lo avrebbe accolto, i sogni di adolescente erano la materia prima più ambita, avrebbe preso quella specie di figlio di reduci, lo avrebbe agghindato con la moda del momento, forse avrebbe chiamato tutti a raccolta per masticarlo e sputacchiarlo e scatenare un rumore cacofonico a ogni partita ma io lo vedevo come un emissario del futuro, uno con un cuore guidato dalla potenza della malinconia, e me ne innamorai.

 

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