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Cosa ci hanno raccontato le Final Four di Eurolega
31 mag 2021
31 mag 2021
Il tiro di Higgins che ferma la corsa di Milano, il cuore di Daniel Hackett e il trionfo dell’Efes.
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11 min
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In un momento storico in cui l’Eurolega ha di fronte a sé molte sfide cruciali per il proprio futuro, la Final Four 2021 di Colonia ha offerto il lato migliore della pallacanestro che la massima competizione continentale europea è in grado di offrire. Le due semifinali sono state decise solo negli ultimi possessi; la finale è stata accesa, combattuta e vibrante fino all’ultimo. Più di così era molto difficile avere, per di più dopo tre serie di playoff su quattro concluse alla decisiva gara-5.

La formula funziona, è innegabile, tanto che l’UEFA sta seriamente prendendo in considerazione l’ipotesi di copiarla e incollarla alla Champions League. Magari eliminando l’inutile orpello della finale terzo posto, il cui senso sportivo continua a sfuggire ai più, per quanto sia stata vinta proprio dall’Olimpia Milano.

Milano al livello delle più grandi

La stagione europea dell’A|X Armani Exchange si è chiusa su una prodezza di Cory Higgins, un tiro vincente con otto decimi di secondo dal termine di una partita nella quale l’Olimpia ha saputo ridurre il gap emerso in stagione regolare con il Barcellona.

La banda biancorossa, finita a -11 nel primo tempo, ha saputo rimettersi in partita dopo essere uscita dagli spogliatoi grazie ad una feroce applicazione difensiva. Le rotazioni sono state drasticamente ridotte - forse ben oltre le intenzioni iniziali di Ettore Messina - perché l’apporto di Jeff Brooks, Jeremy Evans e soprattutto Gigi Datome è stato molto al di sotto del necessario. La prova del capitano dell’ItalBasket, in enorme difficoltà fisica contro la difesa blaugrana, ha portato Milano a giocare parecchi minuti con quintetti più bassi utilizzando Vlado Micov o Shavon Shields da 4.

Alla fine però è stato anche questo assetto a produrre la rimonta perché nella propria metà campo l’Olimpia ha potuto permettersi di essere più aggressiva sui cambi e sui close-out trovando risposte positive da tutti. Il giocatore più emblematico in tal senso è Kaleb Tarczewski, che nei 9 minuti in cui è rimasto in campo ha dato un’energia a tratti commovente lottando come un leone. E lo stesso Shields, al termine di un torneo nel quale è finito con merito nel Secondo Quintetto (non lontano come valori espressi da chi è finito nel primo), ha giocato una partita solida, concreta, senza timori reverenziali.

E poi c’è Kevin Punter, la cui annata è probabilmente la più sorprendente della stagione meneghina. Quando due anni fa ha chiuso la sua esperienza con la Virtus Bologna con la seconda Champions League consecutiva vinta da protagonista, il nativo del Bronx aveva grande voglia di misurarsi a un livello più alto. L’offerta dell’Olympiacos accontentava questo desiderio, ma l’esperienza in Grecia e quella successiva alla Stella Rossa avevano solo fatto intravedere a sprazzi che tipo di giocatore Punter potesse essere in Euroleague. Nel sistema di Messina è l’esploso definitivamente grazie a due fattori: non essere la prima punta designata con tutto quel ben di Dio ha permesso a KP di non sovraccaricarsi di responsabilità; giocare accanto a Filosofi Del Gioco come Kyle Hines e Sergio Rodriguez ha forzato Punter a una crescita rapidissima in difesa, troppo spesso il suo tallone d’Achille. Il risultato è un giocatore che ha chiuso con 14.7 punti di media e il 46% dal campo e che in semifinale è stato per lunghi tratti sublime.

Dei 23 punti segnati contro il Barcellona questi 3 sono stati probabilmente i più Punteriani: il blocco di Hines costringe il Barça al cambio che porta Claver sulle tracce del numero 0. Il sosia di Elio Germano (credeteci, sono identici…) invita Punter ad andare a sinistra, quasi certamente perché fiducioso di un aiuto dei compagni. Il problema è che Punter è in fiducia e quel movimento di palleggio-arresto-tiro lo esegue con naturalezza anche da 7 metri.

Poi però, siccome il basket sa essere uno sport beffardo, ecco che Punter entra nello script degli ultimi 14 secondi ma non nel ruolo dell’Eroe. Eppure prende il tiro migliore che potesse costruire, addirittura prendendosi il lusso di far saltare a vuoto Nikola Mirotic e tirare piedi per terra. Niente da fare. Il rimbalzo lo prende Claver che apre per Higgins e...

...e Cory Higgins tira fuori dal cilindro questa giocata. Confesso di aver avuto di primo acchito il forte dubbio che Shields potesse fare di più per limitare l’avversario, ma mi sono ricreduto molto presto: il rischio di commettere fallo impediva di avvicinarsi più di così.

Adesso per l’Olimpia l’imperativo categorico è far sì che queste Final Four diventino un punto di partenza, che si creino le basi migliori possibili per rimanere a questo livello — cosa per molti versi più complicata rispetto al fare uno step verso l’alto. Avere gente come Messina e Christos Stavropoulos è una garanzia, perché sono i primi a sapere quanto sia difficile, complicato, irto di ostacoli il percorso per confermarsi. C’è poi un nucleo solido di giocatori sotto contratto anche per la prossima stagione, mentre tra quelli in scadenza c’è proprio Punter e bisognerà lavorare per convincerlo a rimanere, cosa niente affatto semplice. Potrebbero poi esserci dei cambiamenti nel pacchetto degli italiani per aumentare il numero di giocatori in grado, nella testa di Messina, di stare in campo in Eurolega (ogni riferimento a Nicolò Melli è puramente voluto).

La finale tutto cuore di Daniel Hackett

Oltre a Kevin Punter ce n’è un altro che ha giocato una partita sontuosa ma non sufficiente a far vincere la sua squadra. Daniel Hackett è stato l’anima e il corpo della rimonta del CSKA, finito a -21 sul finire del terzo quarto ma capace di rimettere tutto in discussione nella finale per il trofeo. Certo, l’Efes ci ha messo parecchio del suo staccando la spina e complicandosi la vita ma non si può restare insensibili di fronte alla leadership che “Daniboy” ha messo a disposizione dei suoi compagni. Muovendosi in una meravigliosa trance agonistica, ha intuito prima degli altri compagni che stavano maturando i margini per rientrare in partita e ha indicato ai suoi la via giusta da percorrere, fatta di aggressività e di combattività su ogni dannato pallone.

Tre momenti della rimonta CSKA targati Hackett. Prima l’azzurro attacca con decisione il canestro cogliendo impreparata la difesa dell’Efes; poi è lesto ad approfittare di un pasticcio di Larkin per andare in contropiede, coprendo con il corpo il pallone per ovviare alla minore velocità rispetto a Micic; infine prende uno sfondamento dallo stesso Micic, che così commette il suo quinto fallo.

Non può più essere una sorpresa vedere Hackett giocare così quando conta. In un CSKA impoverito dall’assenza di Milutinov e apparso quasi intimorito nella fase iniziale del match, il pesarese è stato - come spesso accaduto nella sua esperienza in terra di Russia - colui che ha guidato la barca nella tempesta tirando fuori il coraggio e in parte anche l’incoscienza necessaria per riaprire ogni discorso. Sarebbe servita più lucidità nella gestione dei possessi finali, così come sarebbe stato più produttivo se Clyburn fosse riuscito a prendere un tiro migliore della tripla spentasi sul primo ferro. Ma tant’è: il CSKA può dirsi comunque soddisfatto della sua stagione, Hackett ancora di più.

La prima volta dell’Efes e dell’MVP Micic

L’Anadolu Efes ha passato un anno con la profonda convinzione che il titolo dell’anno scorso avrebbe potuto essere suo e che la cancellazione della stagione sia stata un’ingiustizia. Forse anche per questo l’avvio di questa Euroleague è stato negativo, con 3 sconfitte nelle prime 4 partite. Poi Ergin Ataman, tra una protesta per il calendario e una sul pubblico “per alcuni ma non per tutti”, ha saputo riprendere il filo del discorso e trasformare quella rabbia in energia dinamica, tenendola vivissima soprattutto nella fase clou della stagione. Il risultato è stato il primo titolo continentale per il club più titolato di Turchia.

Ma non è stata certamente una passeggiata di salute. Se la serie di playoff contro il coriaceo Real Madrid è stata combattutissima, se la semifinale con il CSKA è stata vinta dopo aver rischiato di dilapidare tutto il vantaggio, la finale contro il Barcellona è stata vissuta a ritmi elevatissimi sul filo di un equilibrio sottile anche quando a turno una delle due ha provato ad allungare. Equilibrio alla fine spezzato dalla presenza nell’Efes dell’MVP e dell’unico che avrebbe potuto realmente meritarsi il premio.

A 27 anni Vasilje Micic ha raggiunto l’apice della sua carriera. Un dominio stagionale incontrastato, un livello di basket a cui pareva destinato già da ragazzino nel Mega Vizura e che ha avuto brusche frenate per i tanti infortuni patiti, prima dell’annata 2017-18 con lo Zalgiris Kaunas allenato da Sarunas Jasikevicius. Lì Micic ha mostrato di cosa potesse essere capace con quel fisico possente e compatto: gli mancava ancora qualcosa soprattutto in termini di continuità e di lettura, ciò che ha trovato con Ataman all’Efes e si è tenuto stretto. Se la stagione 2018-19 è stata la stagione da vero protagonista e la 2019-20 quella del rimpianto per l’interruzione, la 2020-21 è stata senza dubbio quella della consacrazione per il serbo visto con sempre maggiore interesse dall’NBA: non sarebbe affatto sorprendente se quest’estate Micic facesse le valigie per attraversare l’Atlantico direzione Oklahoma City, che ne detiene i diritti, o con altra destinazione vista la fase di ricostruzione dei Thunder.

Compendio della finale di Micic. Nel primo tempo solo 4 punti e un canestro dal campo, merito soprattutto del lavoro difensivo ad hoc preparato dal Barça con la marcatura di Claver che lo ha messo in enorme difficoltà. Nella ripresa tutta un’altra storia, con Micic che ha trovato spazi maggiori e non ha avuto la minima esitazione nell’attaccarli con decisione entrando in un momento di fiducia totale. Dopo l’MVP della stagione, Micic si è preso anche il titolo di miglior giocatore della Final Four grazie a due partite da 50 punti totali, di cui una finale da 25 punti, 5 assist e 8 falli subiti.

L’unico che avrebbe potuto contendere a Micic il titolo di MVP di Colonia è il suo partner in crime, Shane Larkin. Se la stagione passata si fosse conclusa normalmente, non ci sarebbe stato alcun dubbio sul fatto che il turco-americano avrebbe alzato premi individuali a ripetizione. E se c’è un giocatore dell’Efes che ha sofferto più degli altri il non aver potuto completare l’opera è proprio Larkin. Quest’anno invece la sua più grande abilità è stata capire quanto Micic fosse diventato ancora più determinante per le sorti della squadra e mettersi a disposizione. Non che abbia rinunciato a fare il suo, ci mancherebbe: ma non ha avuto la minima esitazione nel fare un passo indietro e assecondare il suo compare.

Anche per questo Larkin e Micic sono diventati la coppia di guardie più devastante d’Europa, un mix esplosivo di forza fisica e inventiva a ciclo quasi continuo. Sugli 86 punti segnati in finale, 46 sono arrivati da loro due ma se il titolo è arrivato è anche grazie alla prova di sacrificio degli altri. Di Bryant Dunston, ad esempio, capace di immolarsi sui cambi difensivi contro le guardie blaugrana; o di Adrien Moerman, che sotto i tabelloni ha lottato come un leone uscendo spesso trionfatore. E alla fine è soprattutto il successo di Ergin Ataman, che corona il lavoro delle ultime tre stagioni agguantando quella coppa che rischiava seriamente di diventare un’ossessione.

Alla fine della competizione la squadra che torna a casa maggiormente delusa dall’esito di Colonia è il Barcellona. Delusione per il risultato, naturalmente: i blaugrana sono stati costruiti per vincere e non ci sono riusciti, perdendo la sesta finale della loro storia su otto partecipazioni. Però serve porsi da un’altra ottica per valutare davvero la stagione del Barça. Innanzitutto è tornato alle Final Four dopo sette anni di assenza e di stagioni per lo più da dimenticare (nel 2017 non si qualificò nemmeno per i playoff) e non è affatto poco visto quanto è stretto l’imbuto che porta all’atto conclusivo. Ha dominato la stagione regolare, ha espresso a lungo un attacco di enorme qualità ma poi ha saputo vincere tante partite con la dedizione difensiva, ha sofferto l’intraprendenza e la sfacciataggine dello Zenit nei playoff ma ha comunque trovato il grimaldello per andare oltre. Tutto questo per dire che non si possono giudicare 9 mesi di basket solo ed esclusivamente sulla base di una partita, per quanto sia la più importante, decisa sul filo del rasoio.

Come ha saggiamente detto coach Jasikevicius a fine partita, ciò che è mancato al Barcellona sono i dettagli, quelli con cui vinci le finali: una palla persa di troppo, un tagliafuori non eseguito, un aiuto e recupero troppo lento. A questo dobbiamo aggiungere: Brandon Davies a lungo eccellente nei cambi difensivi ma ovviamente incapace di tenere quell’intensità a lungo, Nikola Mirotic troppo ad intermittenza per poter essere incisivo, Nick Calathes commovente per come ha giocato sul dolore della caviglia infortunata in semifinale. Ecco che dunque la sconfitta del Barça trova una spiegazione più completa: un eccellente Cory Higgins (sicuro MVP se l’esito della gara fosse stato diverso) non poteva bastare da solo. Però resta il fatto che a questo Barça basti veramente poco per tornare a giocarsela per il trofeo, anche perché non appare necessario chissà quale restyling dal momento che il roster è mediamente nel pieno della maturità agonistica. Fa eccezione naturalmente Pau Gasol, all’ultimo ballo della sua infinita carriera e comunque resosi utile in molti più frangenti del previsto nel cammino verso la finale.

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