L’uomo era un italo americano basso e piuttosto grasso. Vestiva un completo di lino bianco con la camicia fuori dai pantaloni e i bottoni di finta perla; sulla testa un panama, tra le labbra l’immancabile sigaro. Si chiamava Joe Cambria, anche se in realtà all’ufficio dell’anagrafe di Messina nel 1890 l’avevano registrato come Carlo. Ma alla fine degli ‘40 all’Avana era diventato per tutti “Papa Joe”. Non parlava spagnolo ma un esperanto in cui mischiava italiano e parole in castigliano, ma per il baseball aveva l’occhio lungo. Dalla metà degli anni ’30 era “l’agente all’Avana” dei Washington Senators, lo scout capace di mandare di là dal mare dei Caraibi in tutta la sua quasi trentennale carriera più di 400 giovani giocatori cubani.
Secondo il mito un giorno lo sguardo di “Papa Joe” si posò su uno studente di legge con indosso la casacca dell’Università dell’Avana. Era un lanciatore dotato di una fastball veloce ma spesso fuori controllo e di una buona curva. Si chiamava Fidel Castro e Cambria decise di concedergli un provino. Il giovane Fidel fu scartato due volte.
La storia del provino di Castro con i Senators è destinata a restare una leggenda non suffragata da alcun solido appiglio storico. Secondo altre versioni anche gli Yankees e i Giants sarebbero stati interessati ad ingaggiare il lanciatore cubano futuro Lìder Maximo, che avrebbe perfino rifiutato un contratto di 5mila dollari offertogli da Alex Pompez, lo scout dei Giants.
Questi racconti non furono foraggiati solo da Fidel, nel tentativo di alimentare il proprio mito, ma anche dagli Stati Uniti, nello sforzo contrario di riscriverlo quel mito, di immaginare cioè una sceneggiatura diversa per la storia di Cuba, l’isola che nell’immaginario collettivo statunitense è stata per decenni uno spauracchio a sole 90 miglia di distanza. Un po’ come il plot rivisto di 22.11.63, la serie tv ispirata al romanzo di Stephen King, in cui si prova ad esorcizzare un altro doloroso momento della storia americana: l’omicidio di Jfk.
Del resto associare Castro a termini come “Senator" o “Yankee” è un tentativo che rivela anche una malcelata trama caricaturale. Secondo Brian McKenna autore di un lungo articolo per la Society for America Baseball Research, improntato ad una delle inclinazioni più peculiari dello spirito anglosassone, ovvero il fact cheking, Fidel non aveva un talento per il gioco tale da consentirgli un contratto professionistico, anzi forse praticò il baseball a livello scolastico solo sporadicamente. L’unica traccia di un Fidel Castro sul monte di lancio per la squadra della facoltà di legge opposta a quella di economia risale al novembre ’46 e Fidel, ammesso che fosse stato lui, concesse 5 punti e 5 valide risultando il lanciatore sconfitto. La partita finì 5-4. Questa prova è citata dal professore di Yale Roberto González Echevarría, nel libro The history of cuban baseball.
Sempre secondo McKenna è allo stesso modo un mito l’articolo scritto da Don Hoak, un ex giocatore di baseball, con il giornalista Myron Cope, “The day I batted against Castro”, pubblicato nel 1964 su un magazine sportivo, nel quale Hoak raccontava di essere stato testimone diretto di un particolare episodio accaduto a Cuba durante la winter league del ’50-’51. Nel corso di una partita tra Cienfuegos e Marianao alcuni studenti misero in scena una protesta contro Batista entrando sul diamante. Uno di loro, secondo Hoak proprio Fidel, eseguì anche alcuni lanci, prima di essere cacciato fuori dal campo. Hoak non risulta abbia giocato nella winter league cubana in quell’anno, Batista prese il potere con un colpo di Stato nel marzo del ’52, quindi è difficile immaginare proteste così vistose. Inoltre ci sarebbero una serie di incongruenze su nomi dei giocatori riportati in campo.
Eppure quella della destrezza di Castro sul monte di lancio è una bella storia. Forse perciò il tentativo migliore per raccontarla è proprio un romanzo: “Castro’s Curveball”, in cui lo scrittore Tim Wendel immagina il leader cubano come una promettente stella del baseball in procinto di passere ai Senators. La tesi di fondo è sempre quella: cosa sarebbe successo se Castro si fosse dato al baseball invece che alla rivoluzione.
“Los Barbudos”, il baseball usato per costruire il consenso
Fidel non ebbe mai abbastanza tempo per il baseball. In definitiva forse non fu nemmeno un buon atleta, anche se ovviamente su questa versione la propaganda ufficiale non concorda. Inoltre il baseball, inteso come occasione per svoltare la vita, era una prerogativa dei ceti sociali più poveri, mentre Castro proveniva da una famiglia abbiente e la laurea in giurisprudenza gli prospettava una carriera costellata da successi e lauti compensi.
Una volta preso il potere, la disciplina del “batti e corri” però gli tornò utile per costruire il consenso intorno alla rivoluzione che in quell’epoca muoveva i primi passi. In quest’ottica si collocano le esibizioni dei “Los Barbudos”, forse il nome più evocativo mai dato nella storia ad una squadra di baseball. Durante il periodo trascorso sulle montagne, infatti, Fidel e i suoi decisero di non tagliarsi più la barba finché non avrebbero ottenuto la vittoria. Ma evidentemente continuarono anche dopo.
Nei “Los Barbudos” giocavano Fidel, suo fratello Raul, Camilo Cienfuegos e altri eroi della rivoluzione. Ernesto Che Guevara da buon argentino preferiva il calcio (uno sport, per la verità, praticato in gioventù anche da Fidel). Una delle esibizioni di Castro sul diamante realmente testimoniate accadde il 24 luglio del ’59. Fidel salì sul monte indossando la casacca numero 19 per sfidare una formazione della polizia cubana. Giocò due inning e riuscì ad eliminare, con la compiacenza dell’arbitro, anche un paio di battitori. Cienfuegos, che inizialmente doveva lanciare per la squadra avversaria si rifiutò di farlo dichiarando: «Non sarò contro Fidel nella vita e nemmeno nel baseball», e fu schierato come catcher. Era un sinistro presagio: pochi mesi dopo Cienfuegos morì in un incidente aereo dalle circostanze poco chiare. Secondo alcuni Castro temeva la sua ombra.
Al termine del match di esibizione si affrontarono gli Avana Sugar Kings e i Rochester Red Wings per un match valido per l’International League, una lega del livello di triplo A aperta anche a Canada e Cuba. La partita, a cui presenziò sugli spalti anche Fidel, che era un fan appassionato dei Sugar Kings, si protrasse e fu rinviata al giorno dopo. Ma le cose andarono per le lunghe anche in quella circostanza. A mezzanotte partirono i festeggiamenti per l’anniversario del 26 luglio. Erano quelli gli ultimi bagliori del baseball a stelle e strisce sull’isola. L’anno dopo Castro nazionalizzò le aziende americane sull’Isla Grande e il commissioner della lega, su pressioni del segretario di Stato, decretò il trasferimento degli Sugar Kings a Jersey City. Nello stesso anno a Cuba fu abolito lo sport professionistico, perché gli interessi economici che vi giravano intorno non coincidevano esattamente con gli ideali della rivoluzione. «Chi ama veramente lo sport, preferisce mille volte questo tipo a quello professionistico», sentenziò il Lìder Maximo nel ’64.
Apparire agli occhi del popolo come un fan del gioco, anche se in realtà lo è sempre stato, e propagandarlo grazie alle esibizioni di tanto in tanto dei “Los Barbudos”, era però per Fidel un modo per identificare la rivoluzione stessa con lo sport nazionale, molto amato dai cittadini cubani, soprattutto quelli delle classi sociali più basse. Inoltre era la dimostrazione di poter competere con “gli imperialisti” esportando all’estero l’immagine di una Cuba vincente.
Sostiene infatti McKenna che «Fidel non si sarà esercitato a controllare la sua fastball durante il periodo trascorso a scuola. Ma si è dimostrato un vero fenomeno nel trasformare il baseball (inteso come istituzione) in uno strumento per costruire la sua società rivoluzionaria e per mantenere influente la propaganda durante la guerra fredda».
Negli anni, Cuba è rimasta infatti quella powerhouse del baseball mondiale, una fucina pressoché inesauribile di talenti, capace a livello di Nazionale di dominare le Olimpiadi (3 medaglie d’oro e due di argento in 5 apparizioni), l’Ibaf World Cup (25 vittorie in 39 edizioni) e i Giochi Pan Americani (12 vittorie), conquistando anche una medaglia d’argento all’esordio nella World Baseball Classic.
L’altra faccia del baseball amatoriale cubano, soprattutto dopo la caduta del muro, la fine delle preziose sovvenzioni sovietiche e la conseguente crisi economica, è stata la feroce repressione, con tanto di carcere e punizioni varie, attuata dal regime contro i giocatori che in misura crescente provavano ad abbandonare il Paese e le sue miserie attirati dal fruscio dei dollari. Molti di loro si sono messi nelle mani dei contrabbandieri, rischiando in alcuni casi la pelle pur di attraversare il braccio di mare che li separava dagli Usa. Qui c’è la lista, piuttosto lunga, di quanti negli anni hanno abbandonato clandestinamente Cuba per giocare nell’Mlb.
Il 1999, una squadra americana torna a giocare all’Avana dopo 40 anni
Il baseball nella politica di Castro è stato una costante, una sorta di filo rosso che ha contrassegnato i momenti più importanti. Come nel 1999, durante lo scongelamento dei rapporti diplomatici tra gli Usa e Cuba, deterioratisi progressivamente dopo la rivoluzione fino all’interruzione totale nel 1961. La guerra fredda era ormai tramontata da un decennio e Fidel, nonostante quarant’anni di potere incontrastato, faceva senz’altro meno paura di prima. L’amministrazione Clinton, che aveva già facilitato le restrizioni ai viaggi verso Cuba, avallò così l’idea di Peter Angelos, proprietario dei Baltimore Orioles, di giocare delle partite amichevoli contro la Nazionale cubana. Il 28 marzo 1999 allo stadio Latinoamericano dell’Avana per la prima volta dopo 40 anni una squadra americana rimetteva piede sul suolo cubano. 50mila spettatori presenziarono all’evento, compreso il Comandante che, dopo aver salutato i giocatori ospiti e tenuto, a dispetto delle abitudini, un breve discorso di incoraggiamento ai suoi, prese posto sugli spalti proprio dietro casa base, accanto ad Angelos e Bud Selig, commissioner della lega.
Lo stesso Selig in seguito ha raccontato l’esperienza di quel match a Cuba ricordando in particolar modo la cena della sera prima con Castro in persona, durata fino a notte a fonda, nella quale Fidel pare si dimostrò molto interessato al baseball. Per la cronaca, la partita fu vinta dagli Orioles 3-2 all’11esimo inning. Tra le file dei cubani si mise in luce il lanciatore Josè Contreras, che nel 2002 poi disertò da Cuba. Al ritorno, il 3 maggio, a Camden Yard, la Nazionale cubana rese la pariglia agli americani, sconfiggendo gli Orioles 12-6.
Il baseball ha fatto da contorno anche al viaggio dell’ex presidente Jimmy Carter, che nel 2002 incontrò Fidel per provare a distendere ulteriormente i rapporti tra i due Paesi e fu naturalmente invitato a presenziare ad una partita, effettuando anche il primo lancio.
Una squadra americana è tornata a giocare a Cuba proprio a marzo di quest’anno. Per l’occasione, che simboleggiava la normalizzazione dei rapporti tra Usa e Cuba, sugli spalti era presente Barack Obama in persona. Accanto a lui però non c’era Fidel ma suo fratello Raul, a cui “El Jefe” ha ceduto il potere nel 2008. Con la morte di Castro si chiude un altro capitolo della storia del Novecento. Un’avventura che dal fitto della giungla è arrivata alle onde dell’oceano. Con tanto di barbe, sbuffi di fumo di sigari e baseball.