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Viaggio nella festa di Piazza del Duomo
04 mag 2021
04 mag 2021
Racconto dei festeggiamenti dei tifosi dell’Inter e dell’indignazione in tempo di pandemia.
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Foto di Claudio Furlan / LaPresse
(foto) Foto di Claudio Furlan / LaPresse
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Quando negli anni scorsi mi è capitato di studiare Piazza Fontana, tutto quello che riguardava l’attentato neofascista del 1969, capitava mi chiedessi che effetto potesse fare l’esplosione di una bomba in centro – il Duomo, in fondo, è a due passi dalla piazza. E se dovessi partire dai momenti segnanti della festa scudetto del due maggio – insieme a un dilettante del trombone con la maglia di Škriniar, insieme a una trattativa davvero torbida intorno a una sciarpa di poliestere, e a un tifoso seminudo aggrappato a Garibaldi a venti metri d’altezza – citerei senza dubbio lo scoppio del primo bombone, e il conseguente spavento di un chow chow per fortuna guinzagliato, e il mio, che non mi ricordo più com’è stare a San Siro, quali forme possa assumere la forza collettiva.

È un momento che ricordo bene perché ho provato qualcosa che non provavo da tempo. Sorpresa, ma direi anche tranquillamente paura di qualcosa che non fosse astratto, immateriale come un virus; sia chiaro: tutto questo sentire si andava ad aggiungere, e non sostituire, alla solita tensione, al senso di minaccia, che ormai ci accompagna in società. Il pensiero del contagio e la coreografia delle regole da rispettare per una convivenza civile innescano diverse reazioni, tutte umane: dall’apprensione al terrore. Le feste dovrebbero servire ad allentare la pressione, e sono sacre; la contraddizione irrisolvibile di questa festa, ovviamente, è che la minaccia potrebbe aumentarla.

È futile, nei confronti dell’intelligenza di chiunque, precisare che di questi tempi presentarsi in massa in uno spazio urbano, per quanto aperto, non sia cosa da fare; offensivo non precisare come sia ingiusto che il calcio, più che essere assolto dai doveri degli altri campi delle attività umane – come si è detto in questi giorni –, si sia strappato uno spazio di eccezione nato dalla volontà cieca di persone che, all’unisono, hanno distorto le regole. Questa volontà cieca si chiama vocazione popolare e il calcio, nonostante l'ipocrisia esasperante di larga parte delle sue istituzioni, ne gode ancora.

Ma visto che l'Ultimo Uomo chiede di scrivere qualcosa di più lungo, attraverso le persuasioni labirintiche e gli abili giochi mentali della sua redazione, passerei a un tentativo di racconto del cosiddetto “popolo nerazzurro”.

La parte delle magliette

Il popolo è, si esprime. Si compone di pezzi unici che sono le persone, una più improbabile dell’altra. Il popolo è fatto di schiene, l’una diversa dall’altra: ogni schiena, domenica due maggio, raccontava una storia.

C’era un po’ di tutto, in Duomo. Pensavo di fare delle interviste, di lavorare, ma le mascherine e la difficoltà di comunicare a distanza mi hanno permesso di raccogliere giusto un paio di storie. Si inizia da una maglia di Facchetti, con il numero di Facchetti, comprata a una bancarella nel parcheggio del Dall’Ara da un tifoso bolognese all’inizio del secolo. Questo Facchetti si ricorda vagamente la prima Coppa dei Campioni degli anni Sessanta e, aggiunge, è venuto apposta da Bologna per festeggiare lo scudetto. C’è poi una maglia che recita Caronte 49, perché quando Caronte l’ha comprata aveva – vi stupirà – quarantanove anni. Caronte sventola una enorme bandiera cucita da sua nonna Ada nel 1971; sono cuciti, a mano, i trofei dell’epoca. È una bandiera che porta mezzo secolo, cucita da una nonna del Novecento, per suo nipote.

Foto di Claudio Furlan / LaPresse.

Ci sono maglie misteriose, soprannomi: c’è “Il Mai” che porta la 90, c’è un certo “Mascio” che porta la 40, nella mente lo pronuncio alla veneta, Mash–cio, come il maschio del maiale, animale totemico. C’è un certo “Geolier” 69, come il rapper, magari era lui. Altre maglie curiose: Marotta, con il numero 1, poi un paio di maglie ritoccate a mano, con delle strane scritte appiccicate, come “Pioli is on fire ahahah”, incollato alla maglia–pigiama del 2014. Dedico solo una riga alla più macabra, e quindi più impressa: c’era scritto Pistorius.

Ci si potrebbe soffermare sulla varietà degli sponsor tecnici, delle stilizzazioni, ma c’era un po’ di tutto: dalle maglie Fiorucci [ricordo quella di un padre di famiglia, con il figlio rannicchiato in grembo che forse per la prima volta vedeva tutte quelle persone], e quel punto di azzurro perfetto che portano, alle più edgy e coraggiose, come la quarta di quest’anno, che vede già cucito il nuovo logo del club, la sua mercificazione definitiva. Una tendenza minoritaria: quelle delle leggendarie match worn, le maglie indossate dai calciatori nelle partite. Ne vedo una di Figo, perché il proprietario era amico di un dirigente del Lecce, che gliela regalò dopo una partita di Coppa Italia (o almeno così mi dice), e una di Julio Cruz, il giardiniere, forse uno dei calciatori più amati dai tifosi, senza dubbio tra i più sottovalutati, e simboli di un’epoca. Per tirarne fuori uno più attuale: il 33 di D’Ambrosio era diffuso, in piazza, grazie a gol pesantissimi, notissimi.

C’erano, è ovvio, anche gli oggetti di feticcio, o se si preferisce, i bidoni o circa tali, come le maglie fluorescenti di Gabigol e Jovetic, c’era chi aveva la maglia di Sforza [interrogato, come si può immaginare, mi è stato risposto “perché quella di Ronaldo era finita”], ma anche giocatori canonizzati nonostante le brevi militanze, come Kovavic e Cancelo.

Tra migliaia di schiene, una soltanto indossava Icardi. Molte indossavano Lukaku, Lautaro, Milito, Barella. E poi sì, alcune erano schiene nude, appese dove di solito non si vedono esseri umani, su monumenti e cartelli come per un mondiale, e sembravano per qualche ora all’oscuro di una certa situazione pandemica.

Foto di Claudio Furlan / LaPresse.

Realismo pandemista

Il prefetto di Milano, Renato Saccone, su Repubblica: "Abbiamo valutato che chiudere piazza Duomo, spazio urbano ampio e con numerose vie di esodo, sarebbe stato inevitabilmente occasione di ancora più densi e rischiosi assembramenti, sotto ogni profilo. [...] Di fronte a trentamila tifosi esultanti circa diecimila nel picco in piazza Duomo, non si usano idranti, né ha senso transennare una città. Si opera per evitare incidenti di qualsiasi natura, che non ci sono stati, per ridurre nei tempi le manifestazioni di festa, con il rispetto del 'coprifuoco', per salvaguardare le tante attività commerciali e della ristorazione e il diffuso passeggio domenicale di un pomeriggio primaverile in zona gialla, così come è stato. Con questo approccio, sono stati previsti e approntati servizi mirati e flessibili, con la consapevolezza che la gestione dell'ordine pubblico è un delicato equilibrio tra interessi non sempre collimanti, i cui risultati positivi non sono facilmente visibili perché consistono spesso in 'ciò che non accade'".

In un mondo ideale, nelle pandemie le masse negli spazi aperti potrebbero comportarsi come un fluido intelligente. Come quella melma policefala, una muffa che si muove dove è meglio muoversi, che segue le corsie preferite dalla sopravvivenza. Ma: il mondo ideale, domenica, sembrava ad alcuni quello dove tricipiti e pensiero magico bastano a proteggerti dal rischio del contagio.

Mi chiedo se tra la malvagità dolosa dell’untore e la colpevolizzazione generalizzata del privato, dopo quindici mesi di pandemia, possa pur esserci una terza via. Festeggiare per una vittoria sportiva, una vittoria poi per procura, mediata dagli schermi e dagli stadi deserti, è un atto disperatamente illogico dal punto di vista razionale, e sbagliato dal punto di vista civico. Nessuno aveva una vera ragione per essere lì, qualcosa da giustificare su un modulo – esclusi forse i giornalisti, i bibitari? Ma dubiterei anche di questi personaggi ambigui. In una situazione del genere, sul piano emozionale, diventa tutto ambiguo. Ti chiedi a cosa stai assistendo, nei momenti di silenzio e di caos, di fronte all’ultras col fumogeno lungo come un femore o alla famiglia incuriosita, le bambine in braccio, anche loro con la mascherina, avvolte dalle casacche gigantesche con nomi assurdi, Guarin, Vieri, Stankovic... Ti chiedi sei fai parte della massa, o no.

La situazione di Piazza Duomo, a riviverla nelle immagini, mi sembra un esperimento mentale a cui mi sono prestato insieme ad altre migliaia di persone. Come raccontare, a chi non c’era, che con la FFP2 intorcinata sulle orecchie, e un paio di metri di bolla d’aria tra me e gli altri, ci si possa sentire al sicuro? Com’è possibile che possa sembrare possibile? La ragione ha lasciato il posto ad altro, una sorta di prassi informe, di realismo sospeso; in questo caso è successo in una terra di nessuno che spazia tra istituzioni e cittadini, e riconoscerlo può essere utile per cercare di capire cosa sta succedendo nell’ultimo anno.

Attratto domenica dall’energia cogliona, che distorce le regole, mi trovo ora a cercarne l’origine. Fingere che non esistesse un buco nero illuminato dai fumogeni, attraente come un buco nero, disturbante, ipnotico nei colori e nell’energia, sarebbe ipocrita. Fingere che in quel momento avrei voluto essere a casa, nel solito angolo del computer, altrettanto. Ti chiedi se fai parte della massa e, nonostante tutto, ti rispondi di sì. Su questo non ho nulla da aggiungere, se non sperare che all’euforia consegua un senso di realtà, per il bene di chi non c’era. Ci sono state altre feste sportive, c’è stata la Coppa Italia del Napoli, e abbiamo avuto fortuna. È così: abbiamo avuto fortuna, niente di più. I dati racconteranno la seconda parte di questa festa fuori luogo, nata sfocata, a tutti i livelli. Poi seguirà un’altra storia, quella degli Europei a Roma e l’Italia di Mancini attesa dai tifosi di tutto il Paese.

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