È da poco scoccata la mezz’ora quando un poco più che ventenne Andrés Iniesta taglia la dissestata linea difensiva della Danimarca con un filtrante per l’attaccante, che a testa bassa attacca la profondità. In quei giorni circolano voci che vorrebbero il giovane centrocampista prossimo a un trasferimento da Barcellona al Bernabéu, cioè proprio lo stadio nel quale imbecca, un po’ defilato, un numero dieci atipico che potrebbe diventare il suo terminale di riferimento nel Real: Fernando Morientes.
La Spagna che affronta la Danimarca il 24 Marzo di dieci anni fa ha un piede, anche se è presto per dirlo, fuori dall’Europeo che si disputerà l’anno successivo: ha perso in Irlanda del Nord e in Svezia, ed è già davanti a un aut-aut. Luis Aragonés ha scelto a sorpresa, minando la coerenza delle sue gerarchie, di non affidarsi a Fernando Torres, ma a un centravanti che fin lì non ha mai buttato nella mischia: un altro Fernando, Morientes.
Il “Moro”, giunto al vertice dell’area piccola, con l’angolo di tiro ormai chiuso, inventa uno stop a seguire col tacco, portandosi il pallone sul sinistro, prima di chiudere in gol in diagonale.
È la sua ventisettesima rete in Nazionale, forse una delle meno caratteristiche del suo stile di gioco e nondimeno quella con cui supera Butragueño nella classifica dei marcatori di tutti i tempi delle “Furie Rosse”. Quattro giorni più tardi avrebbe giocato l’ultima partita in Nazionale, e quello contro la Danimarca sarebbe rimasto l’ultimo gol segnato. La Spagna avrebbe vinto l’Europeo del 2008, e poi i Mondiali sudafricani e ancora l’Europeo del 2012, portando a compimento un ciclo dorato dal quale, dei due Fernando centravanti, Morientes sarebbe stato l’escluso.
Fernando Morientes ha rappresentato, per quasi un decennio, la testa infuocata di una cometa destinata a spegnersi dopo aver attraversato il firmamento del calcio degli anni ‘90: è stato l’archetipo dell’ariete incarnato, prima di lui, da Julio Salinas e Kiko.
Per rimanere nel campo semantico dell’astrologia, il “Moro” è stato uno degli asteroidi che gravitavano nel Real Madrid siderale prima che galattico. L’erede, insieme a Raúl, della conformazione offensiva del centravanti prolifico che si accompagnava al fantasista talentuoso. Raúl e Morientes erano quanto di più vicino, nell’immaginario madridista, alla coppia formata dal “Buitre” e da Hugo Sánchez: in un certo senso hanno perpetuato, per una manciata di anni, una narrativa reazionaria che sarebbe finita strozzata dall’evoluzione del calcio, rilegata in un’oasi per nostalgici, e che avrebbe visto svanire in penombra la legacy del meno appariscente della coppia.
Anche nel deserto più arido può nascere un fiore
Il piccolo comune di Sonseca si trova nell’esatto punto in cui le bisettrici che attraversano tutta la Piel de Toro si incrociano, nel cuore arido della Castiglia-La Mancha. L’etimologia del suo nome è “fonte secca”: eppure, come sottolineava Epicuro, anche nei deserti più aridi può nascere un fiore. Morientes si è trasferito a Sonseca dalla natia Cáceres, uno dei paesi più poveri d’Extremadura e dell’intera Spagna, al seguito del padre gendarme della Guardia Civil: in quella terra brulla ha sviluppato una naturale predisposizione alla durezza e al sacrificio; come l’occhio è rassegnato all’impossibilità di scorgere un dettaglio memorabile, perso sulle vallate dell’Extremadura, allo stesso modo da Morientes non ci si aspettava che un’onesta carriera di provincia.
Sul campo riarso del Salto del Caballo, lo stadio di Toledo, centro nevralgico della provincia, Fernando per primo ha imparato che nulla ti spetta per diritto divino, e tutto è da guadagnare.
A Toledo si è messo in mostra, indossando la maglia delle selezioni giovanili della regione: è lì che l’hanno notato i dirigenti dell’Albacete. Ma a Toledo ha anche vissuto frustrazioni e privazioni, la gioia e il suo più enorme e doloroso contraltare, perché è a questo che serve Itaca: ad andarsene e a farvi ritorno, senza la certezza di poter sconfiggere i Proci che ti aspettano, o la sicurezza di poter riconquistare Penelope. Come la volta in cui, da campione d’Europa in carica, di fronte alla famiglia e agli amici di infanzia, con il Real ha sofferto un’eliminazione in Copa del Rey tanto inattesa quanto inesorabile, mandando a memoria la morale - complicata da accettare - che quando sei un attaccante, un attaccante del suo tipo, non puoi permetterti orpelli altri dal segnare.
«Da quando ho iniziato, a diciassette anni, è stato tutto così rapido. Eppure per arrivare all’élite ho capito che non dovevo dare niente per scontato, e che avrei dovuto lavorare molto».
All’Albacete si gioca un calcio che lo stesso Morientes definisce «amatoriale, tra amici. Di quelli in cui sogni di potercela fare, un giorno, ma non ti sembra un’ipotesi reale. In cui pensi che sono cose che succedono solo a quelli più fortunati, non a te».
Benito Floro, l’allenatore, gli insegna che per essere un calciatore di successo, un campione, non basta avere il dono della prolificità sotto porta: bisogna anche comportarsi da professionista, e imparare ad aspettare il proprio momento. Perché per calciatori come Morientes, dotati di nessun talento in particolare se non quello del tempismo, e della capacità di cavalcarlo, saper cogliere il momento segna la differenza tra l’intraprendere una carriera da campioni o sparire nel mare magnum dell’oblio.
Meritarsi tutto
Il primo salto nella sua carriera non è eclatante, ma comunque importante: il Real Zaragoza fresco vincitore della Coppa delle Coppe punta su di lui, che accatasta trentaquattro gol in settantasette partite divise in due stagioni, una media spropositata, assurda, persino irriverente. Morientes impara a nutrirsi della stessa materia di cui sembra essere fatto: i gol. Smussa i lati del carattere, quelli più istintivi e infantili (nella partita d’esordio col Zaragoza, per esempio, si fa espellere dopo aver segnato l’unica rete della sua squadra).
E nella Liga degli anni ‘90, saper fare gol e imparare ad accettare il proprio posto nel mondo, con umiltà e pazienza, è quasi sempre sinonimo della realizzazione dell’opportunità di guadagnarsi uno dei Migliori Mondi Possibili. Nel caso di Morientes, quello bianco dei merengues.
Fortuna, senso della posizione e caparbietà. E ancora, in quest’altra tripletta alla Romareda: abilità nel gioco aereo e rapacità. Timbri di visto perfetto da apporre sul passaporto necessario per accedere a un top club.
Trovare il proprio posto nel Madrid, per Morientes, è un percorso irto di difficoltà, certo, come per qualsiasi giocatore, per di più attaccante. «E ancor di più per il fatto di essere spagnolo», ha aggiunto successivamente, «perché sembrava che tutto quello che veniva da fuori, che andava di moda, meritasse più importanza e opportunità delle risorse interne».
Nella sua prima stagione deve provare a scalzare Davor Suker e Predrag Mijatovic: il primo sarà il capocannoniere dei Mondiali di fine anno, il secondo l’eroe della finale di Champions League di Amsterdam. E poi, negli anni a seguire: Anelka, Robinho, Ronaldo.
Sul fatto che Morientes fosse spagnolo, lui e i suoi principali sostenitori (ma anche i detrattori), hanno sempre insistito molto. In Spagna c’è un proverbio che dice: «árbol que crece torcido jamás su rama endereza»: significa, per grandi linee, che chi nasce tondo non può morire quadrato, e la rotondità del profilo di Morientes è sempre stata un limite più che un fascio di potenzialità. Il riduzionismo del quale, suo malgrado, o forse al di là delle sue possibilità, Morientes è stato vittima, più che accentuarne il lato iconico - in un’epoca fondamentalmente antinostalgica - ne ha limitato la portata: nel disegno di Florentino Pérez, una figura tradizionale come quella di Morientes è sempre stata vista come una stortura, una banalizzazione nel marketing plan dell’immagine Galáctica.
Santiago Segurola, giornalista de El País, è stato il primo a metterne in evidenza, già subito dopo la sua partita d’esordio in Nazionale contro la Svezia, l’aura vintage, gli appigli con una tradizione che il calcio iberico stava rischiando di perdere - prima di subire una ridefinizione totale. Scrisse «ha un tiro potente, e la tipica morfologia del centravanti all’antica», tracciando una linea di demarcazione quasi di tipo lombrosiano. «[Il profilo dell’attaccante] si divide in due tipi di calciatore: quelli da dentro e quelli da fuori dell’area di rigore. Morientes appartiene alla categoria di quelli da dentro, e merita credito perché ha l’istinto e l’attitudine per il gol». La similitudine con un simbolo del calcio spagnolo degli anni ‘70 come Santillana lo condanna, però, a un ghetto fatto di cliché (strabordante attitudine al colpo di testa nonostante la conformazione fisica, fisicità aggressiva e poco aggraziata) che forse non appartiene del tutto a Morientes. Perché il “Moro” era molto di più di un semplice ariete.
Certo, molti dei gol più iconici di Morientes seguono la direttrice e ricalcano il canovaccio di questo segnato nei Mondiali del 2002 contro l’Irlanda, non foss’altro perché l’uso della testa che faceva il “Moro” era simile a quello di un piede ben educato.
Ma sarebbe ingeneroso, oltre che intellettualmente miope, ignorare o tralasciare la capacità con cui sprimacciava e restringeva lo spazio tra sé, l’avversario e la porta a proprio piacimento, la delicatezza poetica di certi primi controlli, la grazia discreta di scelte mai scontate e per niente banali.
Oltre, ovviamente, a una piena consapevolezza che lo portava a poter disporre in maniera totale del proprio corpo nello spazio, qualità imprescindibile per le incursioni aeree ma anche, in maniera forse meno intuitiva, per certi tipi di arrocco offensivo che rendevano la sua presenza, per il solo fatto di accadere, un pericolo ostico e quasi inarginabile per gli avversari, come la difesa del Portogallo in questa circostanza.
Conquistador & esploratore
Morientes e Cortés, in comune, hanno il nome - oltre a una certa innegabile somiglianza dettata dal carattere battagliero, dallo spirito d’avventura e dall’animo da buon soldato: il Morientes di Madrid, come quello del Nuovo Mondo, sono accomunati dall’afflato conquistador, loro malgrado anche, in parte, quasi casuale.
Per quanto la refrattarietà all’appariscenza ci renda, a primo acchito, difficile crederlo, Morientes ha sollevato tre Coppe dei Campioni, tante quante Raúl: ma anche, per dire, tre in più di Van Nistelrooy e Ronaldo e lo stesso numero di Cristiano Ronaldo prima di Cardiff, tutti giocatori che in un modo o nell’altro sono stati, di Morientes, sostituti ed eredi nell’ultimo decennio di storia madridista.
Nei suoi anni di militanza madridista, Morientes ha vinto per tre volte la Champions League. La prima dopo una lontananza del trofeo dal Bernabéu che durava da più di trent’anni: poi, al ritmo di una ogni due anni. Nella finale tutta spagnola del 2000, a Parigi, contro il Valencia, apre le marcature con un tipo di gol che nel 2000, probabilmente, replicato nella piazza del paese, molti ragazzini avrebbero definito “alla Morientes”.
In Champions League, Morientes si è sempre esaltato, portando sugli scudi un concetto inedito e per larghi tratti senza replica, cioè quello del giocatore che nonostante la scarsa spettacolarità, e anzi in virtù di un pragmatismo lucido, ha saputo scrivere un’epica minore non solo a posteriori, ma già durante la stesura della sceneggiatura.
Morientes solleva riflessioni su concetti che si spingono più in là di un campo di calcio, che viviamo quotidianamente: la sopravvalutazione e la lotta quotidiana (in primis con noi stessi) per confutarla, e poi l’agile confine tra riconoscimento e irriconoscenza.
Nel 2003-2004, spinto lontano da Madrid dalla spinta uguale e contraria di chi vuole liberarsi dalle pressioni cercando gli stimoli di una nuova sfida paradossalmente più provante, accetta di trasferirsi al Monaco di Deschamps. Ronaldo, il Fenomeno, gli ha strappato la scena, l’amore del pubblico, addirittura il numero di maglia dalla schiena. Morientes si reinventa nel Principato: indossa il numero dieci e finisce per ritrovarsi leader, un ruolo che la lealtà (o la sudditanza) nei confronti di Raúl gli aveva precluso per anni.
Nella doppia sfida dei Quarti di Finale si trova di fronte il Madrid. Quelli che mettono a segno due gol, uno all’andata e uno al ritorno, sono due Morientes diversi tra loro, non sembrano neppure lo stesso uomo, per quanto sia possibile scorgere, nel calciatore, tutti i crismi del “Moro” di Madrid.
All’andata il suo pubblico lo accoglie tra gli applausi: gioca una partita evanescente, forse distratta in maniera nostalgica, che le merengues, dopo esser passati in svantaggio, ribaltano con un’attestazione di forza maiuscola, segnando tre gol in dodici minuti.
Quello che si materializza all’83’, quando Morientes si avventa, con il suo stile, su un cross dalla destra, anticipando la difesa madridista, sembra solo una specie di tributo alla memoria.
Esulta puntando le braccia al cielo: pochi giorni prima, l’11 Marzo, Madrid ha sofferto uno degli attacchi terroristici peggiori della sua storia. «Avevo letto molte notizie di vittime e feriti. Mi avevano spedito la lettera del familiare di un ragazzo che da grande tifoso del Real mi diceva d’aver sofferto molto il mio passaggio al Monaco».
Nell’economia della doppia sfida, quel gol così carico di significato e insignificante al contempo diventerà decisivo: Morientes segnerà ancora, esultando - stavolta - come fanno i rinnegati e gli irriconoscenti, trascinando il Monaco in semifinale, e ancora in finale, dove dovrà inginocchiarsi solo al cospetto del Porto di Mourinho.
La sfortuna della monodimensionalità
Se oggi la quasi totalità della memoria collegata a Fernando Morientes ha a che fare con un colpo di testa su un cross dalla fascia, in anticipo sulla linea difensiva, credo dipenda dalla sua monodimensionalità come calciatore. In un calcio che cominciava ad andar facendo della polifunzionalità un principio base, Morientes era - semplicemente - inadeguato e anacronistico.
Nonostante fosse stabilmente in rosa, e fosse anche andato a segno nella gara di playoff per la qualificazione a Germania 2006 contro la Slovacchia, Luis Aragonés non lo convocò per il Mondiale. Il “Moro” era reduce da una buona stagione al Liverpool (dove si era trasferito, primo spagnolo a sbarcare in una lega europea importante, nell’anno di Istanbul, pur senza giocare mai in Champions); ma per il “Sabio de Hortaleza”, nel calcio «i ruoli potenziali operano una scrematura». Lo stesso sarebbe successo in limine all’Europeo del 2008. «Le domande che mi sono fatto sono: come giocheremo? Con che sistema?», confessava Aragonés in conferenza stampa. «E quali sono i giocatori più idonei per quel sistema? In base alle risposte che mi sono dato, ho scelto pensando non agli 11 calciatori migliori, ma a quelli che mi danno più stabilità». Morientes, ovviamente, non faceva parte di questa stretta schiera.
Nel 4-3-3 di partenza, gli uomini prediletti di Aragonés erano David Villa, Fabregas e Fernando Torres. Neppure nel 4-2-3-1 Fernando I, il “Moro”, avrebbe trovato mai spazio. La sua esclusione dalla Nazionale, di pari passo con quella di Raúl, finì per determinare il tramonto di un’epoca calcistica, che coincise però anche con l’alba di un ciclo difficilmente ripetibile.
Morientes apparteneva, già nel suo presente, al passato, a un tempo mitico nel quale al nueve veniva richiesta semplicemente fisicità e predominio sulle teste degli avversari. Era lì che tutta la monodimensionalità di Morientes si faceva monolitica, e inscalfibile: in quel punto imprecisato a mezz’aria in cui il tempo si cristallizza, e se sei fortunato, oltre che preparato, dedito al sacrificio, e non hai nulla da perdere, forse puoi diventare anche il centravanti della squadra più forte d’Europa.