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Illustrazione di Anna Deflorian
Calcio Cesare Alemanni 13 maggio 2014 23'

Fenomeno

Alla fine degli anni ’90 appare il primo calciatore moderno, con il dribbling di Maradona e il passo di Michael Johnson: Luís Nazário de Lima, più semplicemente Ronaldo.

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Visto da vicino, a ventuno anni Ronaldo Luís Nazário de Lima era giovane come un proiettile, levigato come un cristallo. Aveva i colori e il cranio nudo di un monaco shaolin, zigomi pronunciati, due incisivi da scoiattolo.
Era novembre 1997 e all’Arena di Milano l’Inter giocava un’amichevole infrasettimanale con una squadra croata. A fine partita, mentre calava una gelida foschia serale, i giocatori si fermarono a bordo campo per firmare qualche autografo. Naturalmente quello di Ronaldo era il più ambito e come tutti anche io mi avvicinai, ma non con l’intento di strappargli uno scarabocchio: volevo solo guardarlo bene. Del resto era il mio idolo, l’unico personaggio pubblico che confesso di avere davvero idolatrato, seppure per un breve periodo, nella mia vita.

 

Dieci anni dopo l’ho incontrato nuovamente. Era la primavera del 2008, un soffice pomeriggio di sole, e ci trovavamo entrambi in una sfarzosa boutique di Corso Venezia a Milano. Lui in compagnia di una giovane donna molto appariscente, io di un amico con cui ero entrato per scherzo e unicamente per testare le reazioni dei commessi alla presenza di due studenti squattrinati. Ronaldo indossava occhiali da sole fascianti e un cappellino da baseball blu scuro, forse dei New York Yankees. In parte fu per questo che non lo riconobbi subito, più probabilmente perché dall’involucro del ventunenne di un tempo era sbucato un milionario paffutello che proiettava cenni annoiati alla merce. Gli incisivi erano rimasti identici, gli zigomi invece erano scomparsi inghiottiti dalle guance adipose e di certo “levigato” non era la parola più adatta per descrivere il suo totale.
Tra quei due momenti in cui avrei potuto dirgli “ciao” e non l’ho fatto, a Ronaldo, come è noto, è capitato di tutto e questo tutto è, a mio parere, l’unica ragione per cui non lo ricordiamo come il più grande calciatore di sempre.

 

UNA LOCOMOTIVA UMANA
Lessi il nome di Ronaldo per la prima volta sul Guerin Sportivo, nel periodo in cui lo compravo ogni settimana per divorarlo nel viaggio di ritorno da scuola. Alla fine del 1995 non c’era nessuna ragione per cui quella pagina in particolare mi rimanesse impigliata nella memoria ma di fatto lo fece e, a distanza di quasi vent’anni, la ricordo piuttosto bene.
Era uno degli articoli che il Guerin dedicava ai “nuovi talenti” internazionali, per solleticare la fantasia di lettori non ancora avvezzi a osservare da lontano quelli che oggi chiamiamo “top player”. Da interista avevo almeno due buone ragioni per non fidarmi ciecamente delle segnalazioni del settimanale: Caio e Rambert, dipinti l’estate precedente da potenziali fuoriclasse, si erano rivelati già in autunno come i primi di una serie di bidoni transitati per Appiano in quel periodo.
E tuttavia la fotografia che apriva l’articolo su questo potenziale prodigio non si lasciava ignorare facilmente. L’immagine, verticale e a tutta pagina, lo riprendeva di tre quarti a figura intera e lo mostrava in progressione, la palla al piede e la maglia a righe bianche e rosse del PSV Eindhoven indosso, la sua prima squadra europea. La composizione era piuttosto classica e familiare – un momento di gioco come tanti immortalato da qualche anonimo fotografo a bordo campo per venderlo a un’agenzia – e tuttavia c’era qualcosa di inspiegabile, di perturbante in senso freudiano al suo interno. O il fotografo aveva scelto per sbaglio un tempo di esposizione troppo lungo, finendo col catturare scie fantasmatiche di movimento oppure il soggetto stava “viaggiando” a una velocità inaudita per un giocatore di calcio. Non avevo mai visto prima – considerate che parliamo di venti anni fa – una fotografia così tanto dinamica di un calciatore. Nella prima foto che vidi di lui, Ronaldo sembrava una locomotiva umana.
Queste le poche informazioni fornite dal pezzo: Luís Nazário de Lima aveva 18 anni, era campione del mondo (senza aver giocato neppure un minuto di Usa ’94) e capocannoniere in carica dell’ultima Eredivisie con 30 gol in 33 partite. Proveniva dal Cruzeiro dopo un’infanzia molto povera a Bento Ribeiro, un quartiere disagiato di Rio. L’articolo raccontava anche che l’Inter lo stava seguendo e ricordo che pensai: “Beh, peggio di Rambert non può essere”. Le cose, si seppe in seguito, stavano pressappoco così: l’Inter aveva un accordo con il PSV per cui la società olandese era tenuta a informare quella milanese di qualunque offerta per il giocatore, così da permetterle di rilanciare. Ma di questo parlerò meglio in seguito. Prima voglio mostrarti un video.

 

“BAYER LEVERKUSEN CONTRO RONALDO”
È il video di una partita. O meglio: è il video della prima partita di Ronaldo in una competizione europea, il primo turno della Coppa UEFA 1994/95 per essere precisi. È un filmato che, all’epoca in cui lessi l’articolo, ovviamente non conoscevo, diversamente non avrei affiancato i nomi di Sebastián Rambert e di Ronaldo Luís Nazário de Lima nello stesso pensiero. La partita è Bayer Leverkusen – PSV Eindhoven finita 5 a 4 e disputata a Leverkusen il 13 settembre 1994, cinque giorni prima del diciottesimo compleanno di Ronaldo e due mesi dopo il suo arrivo in un Paese in cui non conosceva nessuno, di cui non parlava la lingua e dove la temperatura invernale media era una ventina di gradi inferiore a quella del luogo in cui era cresciuto.
Era stato Romario – che aveva giocato lì dall’88 al ’93 – a consigliargli il PSV, a suo giudizio la piazza ideale per iniziare la scalata al calcio europeo. Dopo un anno di permanenza a Eindhoven, Ronaldo però non sembrava così entusiasta dello stile di vita locale. «Cosa ti piace di Eindhoven e dell’Olanda?» – gli chiede un giornalista. «Non so, ci dovrei pensare… il calcio?», risponde il futuro Fenomeno. Quando arriva al PSV Ronaldo pesa 74 chili per 179 cm, quando se ne va, due anni dopo, ha preso quattro centimetri e cinque chili. Anche a causa di questo repentino aumento di stazza il suo corpo mostra le prime crepe e il suo secondo anno al PSV è segnato dal primo di una serie di problemi alle ginocchia che gli condizioneranno la carriera. E per la stessa ragione, molto tempo dopo, qualcuno agiterà il sospetto del doping – ma senza prove a supporto – sugli esordi europei di Ronaldo.
Comunque ecco il video.

 

Quello che io “vedo” in questo filmato è un ragazzino di diciassette anni che ridefinisce il concetto di prendere a pallonate undici avversari da solo. Come dice il telecronista olandese dopo il terzo gol di Ronaldo: «È incredibile. È Bayer Leverkusen contro Ronaldo. E ora sono 4-3». Basta questo a rendere il video eccezionale, anche senza aggiungere che il ragazzino in questione è atterrato da poche settimane in un calcio e in un continente su cui non aveva mai posato i tacchetti.
Prima di avere l’età per prendere la patente, sul campo da calcio di una competizione di alto livello europeo, Ronaldo è già in grado di creare pericoli partendo da ogni posizione di campo, che riceva la palla sulla corsa o spalle alla porta. Sa segnare sia dalla distanza sia di rapina. È in grado di saltare avversari con dribbling precisi nello stretto come con spaventosi allunghi in velocità, superandoli anche quando hanno diversi metri di vantaggio. A un certo punto, sempre il telecronista olandese dice: «E tenete a mente che ha appena 17 anni. Se continua così può giocare dovunque». Non poteva essere più profetico.

 

Nell’estate del 1996 il PSV decide infatti di mettere sul mercato il prezioso diciannovenne, autore di 54 gol in 58 partite. Come ho anticipato, l’Inter ha una prelazione sul giocatore, pattuita nel corso della cessione di Wim Jonk agli olandesi, ma Massimo Moratti si dimostra indeciso. Ronaldo ha saltato gran parte della stagione precedente per problemi al ginocchio e circolano dubbi sulla sua integrità fisica. Nella trattativa si inserisce così il Barcellona che offre la cifra “record” di 30 miliardi di lire. All’Inter “basterebbe” rilanciare di poco ma la dirigenza preferisce lasciare la trattativa, stizzita forse da alcune esternazioni di Ronaldo che afferma di preferire qualunque destinazione all’Inter per «non fare la fine di Caio». Moratti rinuncia quindi al brasiliano dichiarando: «Un anno fa avrei pagato a occhi chiusi ma ora ho dei dubbi che Ronaldo valga queste cifre». Dodici mesi più tardi infatti vale il doppio.
In una stessa estate quindi l’Inter non compra Ronaldo perché “troppo caro” e vende Roberto Carlos al Real Madrid a prezzi di saldo. In compenso Moratti tra gli altri “regala” a Hodgson lo sciapo centrocampista svizzero Ciriaco Sforza, espressamente richiesto dall’allenatore inglese, e la promessa nigeriana Nwankwo Kanu che in tre anni gioca dodici partite per una malformazione cardiaca salvo poi andare a fare buone cose all’Arsenal. Ma anche questa, ovviamente, è un’altra storia.

 

BEFORE AND AFTER RONALDO
L’anno di Ronaldo al Barcellona è una lingua di fuoco. Arrivato nell’estate in cui finisce il regno in blaugrana di Johan Cruyff, Ronaldo è per metà l’oggetto misterioso e per metà la ciliegina sulla torta di una campagna acquisti che porta al Camp Nou Luis Enrique, Vítor Baía, Giovanni, Laurent Blanc e Fernando Couto. Stelle che vanno a rinforzare una squadra che può già contare su Josep Guardiola, Robert Prosinecki, Iván De La Peña, Albert Ferrer, Sergi, Gheorghe Popescu e Luís Figo. L’allenatore è Sir Bobby Robson, il vice José Mourinho.
È un Barcellona atipico rispetto alla sua tradizione e a come lo abbiamo conosciuto negli anni di van Gaal, Rijkaard e Guardiola. È guidato da un allenatore inglese già avanti con l’età che non può assimilare del tutto la complessa filosofia calcistica catalana e infatti non ci prova nemmeno. Da offensivista Robson si limita a mandare in campo sette giocatori spiccatamente tecnici su undici e ad aspettare che tanto talento individuale lo ripaghi. Il che avviene con una frequenza impressionante ma comunque non sufficiente a vincere la Liga, ghermita dal Real Madrid di Capello, Roberto Carlos, Seedorf, Raul e Suker. Il Barcellona si consola con Copa Del Rey, Coppa delle Coppe e numeri offensivi che appartengono a un altro pianeta. In totale i gol nella Liga sono centodue, dodici invece sono le volte che il Barça ne segna più di quattro nella stessa partita.
Di tutta questa prolificità, Ronaldo è insieme beneficiario e artefice. Pur se da soli i dati sono impressionanti (47 reti in 49 partite giocate e titolo di Pichichi della Liga), comunque non bastano a descrivere l’impatto che hanno alcuni suoi gol sul mondo del calcio della seconda metà anni ’90. Su tutti quello realizzato al Compostela il 12 ottobre del 1996 e che resta, ancora a diciotto anni di distanza, una delle più prepotenti dichiarazioni di supremazia fisico/tecnica mai viste su un campo da calcio. Un’azione che fa l’effetto di osservare un adulto che gioca seriamente con dei bambini di tre anni. Jorge Valdano, allenatore del Valencia di quell’anno, al termine della partita in cui Ronaldo segna tre gol, alla sua squadra dichiara: «Non è un uomo, è una mandria di cavalli». E lo era.

 

Il gol al Compostela è il momento in cui Ronaldo smette di essere il più forte under 21 al mondo e si trasforma nella prima donna assoluta del calcio globale, il primo calciatore a compiere il balzo da semplice atleta a brand multinazionale. Per fare un paragone non troppo eccessivo: la stagione 1996/97 di Ronaldo al Barcellona sta al calcio europeo come la stagione 1988, la prima da MVP di Michael Jordan, sta alla NBA.
Si potrebbe obiettare che il processo di deflagrazione marketing/mediatica del calcio era già in corso e, al netto di Ronaldo, sarebbe avvenuto comunque. E l’obiezione, sensatissima, verrebbe accolta. Ma lo stesso si può dire dell’NBA Ante-Jordan. Magic e Bird, Erving e Jabbar etc… erano già qualcosa più di semplici giocatori di basket così come – prima e durante l’apice di Ronaldo – i vari Baggio, Romario, Cantona e ovviamente, in modo del tutto speciale, Maradona… erano già qualcosa più di semplici calciatori.
Come qualunque forma culturale, anche il calcio si trasforma attraverso un divenire continuo, un processo costante e fluido al cui interno non è possibile isolare in modo inequivocabile un punto di svolta. Ci sono però momenti e fasi storiche in cui, se si presta attenzione, è possibile avvertire a fior di pelle che, per qualche motivo, le dinamiche dell’evoluzione hanno subito una spinta decisiva, uno strappo. I quattro anni tra Usa ’94 e Francia ’98 sono stati, a mio parere, una di quelle fasi. E, se è vero che non si possono imputare al solo Ronaldo fenomeni tanto complessi come l’esponenziale espansione mediatica o l’esasperato sviluppo agonistico sperimentati dal calcio in quel periodo, di certo è innegabile che il brasiliano sia stato sia il volto di copertina sia un potente catalizzatore di entrambi. Come Jordan, Ronaldo ha catturato gli occhi del mondo mostrando una cosa che sembrava venire dal futuro prossimo del suo sport. Per Jordan quella cosa era la capacità di staccare dalla lunetta o di concludere sottomano in volo tra una selva di braccia avversarie. Per Ronaldo quella cosa era la capacità di dribblare (quasi) come Maradona con il passo (quasi) di Michael Johnson.

 

Nel biennio 1996/98 Ronaldo è stato il teaser del calcio a velocità raddoppiata che si sarebbe giocato nel ventunesimo secolo ormai alle porte: uno sport extraterrestre, compiutamente globale e vendibile a tutte le latitudini, in cui la produzione e la fruizione di “sensazionale” avvengono a ciclo continuo. Ronaldo è stata la prima manifestazione dello Zeitgeist del “calcio moderno”, per usare un’espressione sulla quale si è ricamato molto negli ultimi anni. Era l’uomo giusto, al posto giusto e nel momento giusto: quello dell’affermazione delle pay-tv, dell’allargamento della Champions League, delle prime enormi sponsorizzazioni.
E infatti Nike, che in quegli anni stava facendo il proprio ingresso in pompa magna nel business del soccer, sceglie proprio Ronaldo come suo principale interprete e attorno a lui e alla Seleçao brasiliana costruisce una delle più imponenti operazioni di marketing sportivo di quel decennio, culminata con l’ormai leggendario spot dell’aeroporto, con colonna sonora di Quincy Jones, prima dei Mondiali del ’98. In un momento di autocoscienza, qualche anno fa è stata proprio la stessa Nike a voler ribadire la “frattura Ronaldo”, il punto di svolta rappresentato dal brasiliano, con una campagna del 2011 in cui si enfatizzano le differenze – a livello di immaginario e di ecosistema mediatico/sportivo – tra il calcio “B.R.” (Before Ronaldo) e quello “A.R.” (After Ronaldo).

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Tags : attaccantiinterluis nazario da lima ronaldoreal madrid

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