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Felipe Anderson è diventato concreto
04 apr 2017
04 apr 2017
Il numero 10 della Lazio si è trasformato in un giocatore meno appariscente di prima ma più di sostanza.
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Foto di Marco Rosi / Getty
(foto) Foto di Marco Rosi / Getty
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Dal suo arrivo in Italia nel 2013, Felipe Anderson non aveva mai giocato così tanto come in questa stagione; eppure la produzione offensiva (0,46 gol o assist per 90 minuti) è lontana da quella tenuta due anni fa (0,73), quando trascinò la Lazio al terzo posto con una serie di partite straordinarie, ed è addirittura inferiore a quella dell’anno scorso (0,48), in cui il rendimento si era adeguato alla mediocre stagione dei biancocelesti e il brasiliano aveva finito col rappresentare una delle più grandi delusioni del campionato. Lo sviluppo di un calciatore è quasi sempre tortuoso, ma pur avendo fatto l’abitudine alla discontinuità come tratto caratteristico di alcuni, il caso di Felipe Anderson resta particolare, se non proprio unico. Il brasiliano è passato da comparsa a stella della squadra, e poi da stella a delusione a una velocità ai limiti della schizofrenia, complicando notevolmente i discorsi sul suo reale valore. Chi è il vero Felipe Anderson? Quello immarcabile di due anni fa o la versione triste del campionato scorso? Che tipo di stagione sta passando, cosa ci dice di più sulla sua identità in campo? Mettere sostanza L’attuale stagione in realtà complica ulteriormente la situazione, ma fa anche chiarezza su cosa ci sia da aspettarsi realmente, su base continuativa, da lui: Felipe non restituisce ancora la sensazione d’immarcabilità di due anni fa, e segna meno, eppure si può dire che stia giocando il miglior campionato della sua carriera e che il declino nel numero di gol segnati sia ampiamente compensato dai miglioramenti in ogni altro aspetto del gioco. Innanzitutto, il brasiliano partecipa di più alla manovra: i 47,7 passaggi per 90 minuti tentati in media rappresentano il record personale da quando è in Italia. È importante sottolineare come la crescita nel numero di passaggi non sia stata accompagnata da un cambiamento nello stile di gioco della Lazio, maggiormente votato al palleggio. Anzi, il possesso medio dei biancocelesti è sceso al 50,8% (l’anno scorso era al 53,3%, due anni fa al 52,7%), il che significa che l’influenza di Felipe è cresciuta in maniera considerevole. Nei princìpi di gioco di Simone Inzaghi la costruzione del gioco avviene soprattutto sulle fasce: così il brasiliano, sfruttando anche la cessione di Candreva, è coinvolto come mai prima d’ora in carriera. In particolare, Felipe gioca un ruolo chiave nel fare da collegamento tra fase di costruzione bassa e quella di rifinitura. L’anomalia è che ci riesce pur restando largo sulla destra, una posizione che lo tiene lontano dal centro del campo, ma gli permette di ricevere con una certa libertà. Il limite della linea laterale diventa così un’opportunità per guadagnare il margine di tempo e spazio in cui effettuare il passaggio decisivo (un filtrante o un cambio di gioco) che trasforma l’azione in un’occasione da gol.

Un esempio dalla partita contro il Pescara.

La precisione con cui gioca questi palloni e la padronanza dei tempi sono da centrocampista di altissimo livello. In una squadra fortemente verticale e abituata a risalire il campo in pochi secondi, è lui a prendersi spesso la responsabilità di rallentare la manovra, permettendo ai compagni di ricevere nel momento e nella posizione migliore per rifinire o concludere l’azione. Le “pause” sulla fascia sono diventate così frequenti da rappresentare uno dei tratti più caratteristici del modo di giocare di Felipe Anderson. Questo non vuol dire che abbia rinunciato alla giocata che lo definisce più di ogni altra: l’accelerazione palla al piede. Il brasiliano resta uno dei giocatori più pericolosi del campionato in campo aperto ed è stato ulteriormente responsabilizzato da Simone Inzaghi, che ha cucito sul suo tridente d’attacco il modo di giocare della Lazio. È agli esterni, infatti, che tocca definire l’azione, dando lo strappo decisivo alla manovra con un’iniziativa personale. Per Felipe, che gioca sulla destra e non è invitato naturalmente ad accentrarsi, significa arrivare al cross con una frequenza mai toccata in carriera: 5 volte ogni 90 minuti in media, con una precisione del 36% circa. L’esterno biancoceleste non è soltanto uno dei più assidui crossatori del campionato, ma è anche il primatista per distacco per numero di dribbling tentati (177) e riusciti (97). Se si aggiunge che da quest’anno batte anche i calci piazzati, non stupisce vederlo ai vertici delle classifiche sulle occasioni create: oltre ai 9 assist (record condiviso con Callejón), Felipe ha mandato al tiro un compagno altre 59 volte. Solo quattro giocatori hanno fatto meglio. https://youtu.be/xBQl-W4ZqkU?t=1m22s

Il nono assist stagionale è un’ottima rappresentazione dell’importanza di Felipe Anderson nel dare l’accelerazione decisiva alla manovra della Lazio.

I miglioramenti senza palla L’aspetto più sorprendente riguarda però i progressi in fase di non possesso. Simone Inzaghi è riuscito a mettere le sue straordinarie qualità atletiche al servizio della squadra anche quando difende, trasformandolo in un eccezionale recuperatore di palloni. Per la Lega Serie A è il quarto migliore in assoluto (101 palle recuperate), l’intruso in una classifica composta da difensori e centrocampisti difensivi. Un risultato raggiunto non tanto grazie a letture sofisticate, quanto piuttosto alla bravura nel prevalere nei duelli con l’avversario diretto – d’altra parte nessuno in campionato ha tentato (135) e vinto più contrasti (90). La velocità, la capacità di allungarsi e deformare il proprio corpo come fosse fatto di gomma, che gli permettono di fare la differenza quando ha il pallone tra i piedi, sono diventati preziosi strumenti difensivi per la Lazio. Trovarselo davanti è insomma una brutta notizia anche quando la palla ce l’hanno gli avversari. La sensibilità con cui ha descritto il nuovo modo di stare in campo a Globo Esporte dice molto sulla sua comprensione del gioco. «Non è cambiato molto, continuo a giocare largo, anche se in alcune partite ho fatto il laterale. Preferisco attaccare, ma l’allenatore sa che può contare sulla mia velocità, la mia forza, e sto migliorando anche nella marcatura. Così mi ha dato questa nuova missione di giocare da laterale, e mi trovo bene. (…) Faccio più assist perché vengo marcato stretto e così i miei compagni sono più liberi. Quando ricevo palla, per il fatto di essere veloce e pericoloso nel dribbling, ho sempre due o tre giocatori che mi chiudono. Vuol dire che i miei compagni possono entrare in area liberi e io sono felice nel dare l’ultimo passaggio». Pochissimi altri giocatori incidono quanto Felipe Anderson sulla pericolosità della propria squadra. Così gli errori – il brasiliano è tra i giocatori che hanno accumulato il maggior numero di palle perse (70) – sono il prezzo da pagare al ruolo ritagliatogli da Inzaghi nel sistema della Lazio, che lo sollecita continuamente a ricercare la giocata decisiva. E anche se ciò ha significato rinunciare a qualche gol (ovviamente restare largo a destra o arretrare il proprio raggio d’azione quando viene schierato da esterno a tutta fascia non l’ha aiutato) per sviluppare come mai prima d’ora il proprio lato associativo, i miglioramenti in ogni altro aspetto del gioco sono impossibili da ignorare. Forse non se ne sono accorti in molti, ma Felipe Anderson è tornato a essere uno dei giocatori più forti e decisivi della Serie A.

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