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L'acuto di Gimondi al Tour de France
19 ago 2019
19 ago 2019
Ricordo del Tour de France vinto nel 1965, prima dell'inesorabile ascesa di Merckx.
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19 min
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Il 2 agosto 1998 si concludeva la 85ª edizione del Tour de France, ovviamente a Parigi. A salire sul gradino più alto del podio c’è un ragazzo italiano senza capelli e col pizzetto tinto di giallo: Marco Pantani. Insieme a lui, sul palco delle premiazioni, c’è l’ultimo italiano ad aver vinto la Grande Boucle, ben 33 anni prima - un’enormità se pensiamo alla grande tradizione italiana in questo sport - e cioè ovviamente Felice Gimondi.

Gimondi prende il braccio di Pantani e lo alza al cielo in segno di vittoria. Ma lo fa in maniera goffa, col braccio sbagliato. La foto simbolo del ciclismo italiano è quella: Gimondi con il braccio destro incrociato sopra la testa, lo sguardo ben ancorato verso il terreno, una costante della sua vita; Pantani con un sorriso triste, la mano aperta rivolta verso il cielo, come il suo sguardo.

Felice Gimondi, che il suo Tour de France l’ha vinto nel 1965 a 23 anni ancora da compiere, dirà che quel 2 agosto 1998 era molto più emozionato rispetto a 33 anni prima. Forse perché quando era giovane pensava di avere una sfavillante carriera davanti a sé, che quello sarebbe stato solo il primo di una lunga serie di trionfi in giallo a Parigi.

Cos’era il 1965

Il 1965 è un anno in cui tutto sembra possibile. È anche la prima stagione di Felice Gimondi fra i professionisti. L’anno precedente aveva corso e vinto il Tour de l’Avenir, probabilmente la più importante corsa a tappe a livello giovanile, e aveva partecipato alle Olimpiadi di Tokyo, pur senza ottenere grandi risultati. Nel ‘65 passa professionista con la Salvarani, la squadra capitanata da Vittorio Adorni.

Adorni è un classe ‘37, quindi di cinque anni più vecchio di Gimondi. Ha già corso parecchio raccogliendo importanti piazzamenti soprattutto al Giro d’Italia e alla Liegi-Bastogne-Liegi. Nel 1965 Adorni è il capitano indiscusso della Salvarani.

L’avvicinamento al Giro d’Italia è perfetto, o quasi. Adorni coglie il secondo posto alla Milano-Sanremo battuto allo sprint dall’olandese Arie den Hartog (che nel 1967 vincerà la seconda edizione dell’Amstel Gold Race), poi arriva quinto alla Milano-Torino e ancora secondo alla Liegi-Bastogne-Liegi, battuto di nuovo allo sprint da Carmine Preziosi. Fu uno sprint strano, c’è da dire, macchiato da una caduta all’ultimo giro del velodromo di Liegi innescata dal belga Gilbert Desmet che spezzò a metà il gruppetto di testa. Tra i coinvolti c’erano nomi di grande rilievo, come il campione del mondo Jan Janssen e il britannico Tom Simpson, tristemente noto per aver perso la vita durante la tredicesima tappa del Tour de France 1967. In quella primavera del 1965 c'è però un altro giovane italiano che si mette in mostra nella Salvarani e si tratta proprio di Felice Gimondi.

Il 29 aprile 1965 si corre la Freccia Vallone su un percorso che da Liegi a Marcinelle si snoda lungo le piccole côte che caratterizzano quella parte di Belgio. Non ci sono grandi testimonianze di quella gara, ma quel che sappiamo ci basta: Gimondi va via con Roberto Poggiali, 24 anni appena compiuti, ma viene battuto allo sprint. Terzo arriva Tom Simpson, mentre il gruppo viene regolato dal belga Georges Vanconingsloo a quasi tre minuti di distacco. Vanconingsloo oggi è praticamente uno sconosciuto ma non è un ciclista così mediocre: in quel 1965 aveva già vinto una tappa alla Parigi-Nizza e si era spesso piazzato nelle grandi classiche del Belgio. A fine marzo era stato secondo ad Harelbeke e alla Brabantse Pijl (la Freccia del Brabante), e poche settimane dopo aveva colto il terzo posto al Giro delle Fiandre battuto solo dall’olandese Jo De Roo e dal belga Ward Sels. Per la Salvarani quella del 1965 sembra essere una stagione maledetta, costellata di secondi posti.

A maggio però iniziano le corse a tappe e la musica cambia drasticamente: Adorni domina il Giro di Romandia e si presenta al via del Giro d’Italia con i favori del pronostico. Gimondi arriva quarto alle spalle degli svizzeri Maurer e Hagmann e tutto sembra pronto per l'assalto al Giro d'Italia.

E infatti Adorni domina in lungo e in largo rifilando oltre 11 minuti al secondo in classifica, Italo Zilioli. Gli altri arrivano più o meno tutti nel giro di un paio di minuti: Gimondi è terzo a 12’49”, Vito Taccone, altro uomo della Salvarani, è sesto a 15’33” con due soli secondi di vantaggio su un giovane Franco Bitossi, che pochi giorni dopo vincerà il Giro di Svizzera. Anche per Vittorio Adorni quella vittoria sembra l'inizio di un lungo percorso fatto di trionfi. Anche lui, come gli altri, non poteva sapere che di lì a poco sarebbe arrivato un ragazzone belga con un cognome zeppo di consonanti a stravolgere la storia del ciclismo per sempre. Quella del Giro 1965 rimarrà per Adorni l'unica vittoria in una grande corsa a tappe in dieci anni di carriera ad altissimi livelli.

Vittorio Adorni e la Salvarani, ignari del futuro, si godono il favoloso trionfo e immediatamente rivolgono le loro attenzioni al Tour de France. L’occasione è ghiotta: Jacques Anquetil, il vincitore delle ultime quattro edizioni, ha deciso di non partecipare al Tour per provare a vincere la Bordeaux-Parigi, una classica d’altri tempi, circa 600 chilometri tutti d’un fiato. Si parte da Bordeaux verso le due del mattino e si arriva, circa 14 ore dopo, a Parigi. E c’è di più: la Bordeaux-Parigi del 1965 si corre esattamente il giorno dopo l’ultima tappa del Delfinato.

Gimondi al Giro d'Italia del 1967 (foto Allsport Hulton / Archive)

Anquetil partecipa a quel Delfinato e ovviamente vince, poi va all’aeroporto di Nîmes-Garons, sale su un aereo privato messo a sua disposizione per volontà diretta del presidente De Gaulle, atterra a Bordeaux cinquanta minuti dopo e alle due e mezzo del mattino si presenta al via della gara, senza aver dormito e dopo aver vinto il Delfinato contro il solito Raymond Poulidor. Come forse avrete già capito, vincerà anche la Bordeaux-Parigi, staccando nel finale Simpson, sulla côte de Picardie.

Il Tour de France 1965, insomma, è senza padrone. La Salvarani si presenta quindi con la squadra migliore possibile per cercare di cogliere un risultato storico con Vittorio Adorni: non solo la vittoria al Tour de France, ma anche la doppietta Giro-Tour riuscita fino a quel momento solo a Coppi e Anquetil.

Il bello di questa storia è che Gimondi non doveva neanche partecipare a quel Tour. Nonostante ciò, viene chiamato lo stesso, per dare una mano fin dove possibile.

La partenza

Si parte dalla Germania Ovest, da Colonia, in una prima tappa che termina però in Belgio, a Liegi. E i belgi infatti fanno tripletta: Rik Van Looy vince davanti a Georges Vandenberghe e Ward Sels. Quarto Jo de Roo, il vincitore del Giro delle Fiandre. Lo stesso giorno si corre una breve cronosquadre di 22,5 chilometri a Liegi ma la maglia gialla rimane saldamente sulle spalle di Rik Van Looy.

Il giorno dopo si arriva a Roubaix da nord, evitando quindi il pavé della Parigi-Roubaix ma affrontando varie côte. Vanno via in quattro: sono tutti gregari, messi lì per controllare la corsa. La Salvarani non ha nessuno davanti e lancia Felice Gimondi all’inseguimento insieme ad André Foucher, compagno di Janssen. I due rientrano sul quartetto al comando mentre da dietro si muovono in dieci, fra cui Vittorio Adorni, sempre molto abile in queste situazioni di gara, e lo stesso Jan Janssen. Rimangono nel gruppo invece altri grandi nomi come la maglia gialla Van Looy, Gianni Motta e Raymond Poulidor, tagliato fuori da una caduta poco prima dell’attacco decisivo, che chiuderanno con un ritardo di 1’19”.

Dal gruppo di testa vanno via in tre, proprio in vista della frontiera franco-belga: Van de Kerckhove (l’uomo di Van Looy), l’altro belga Victor Van Schil (gregario di Poulidor), e Felice Gimondi. Il gruppo però reagisce con forza, Van Schil davanti non ne ha più, Van de Kerckhove riceve l’ordine di risparmiarsi per la volata e Gimondi è quindi l’unico a tirare a tutta per sfruttare la situazione per la classifica generale. Nel velodromo di Roubaix Van Schil prova ad anticipare la volata ma non ha più energie e il suo spunto dura il tempo di percorrere neanche mezza curva. Van de Kerckhove invece sceglie il momento giusto e va a prendersi la tappa e la maglia gialla, proprio davanti a Felice Gimondi, che continua a rimandare l’appuntamento con la sua prima vittoria fra i professionisti.

Nella tappa successiva si affronta però il vero pavé da Roubaix a Rouen. La prima vittima è il beniamino francese Georges Groussard, quinto al Tour del 1964, che cade e si rompe il femore. Mentre lo portano via in barella è circondato da fotografi e cerca di nascondere le lacrime coprendosi il volto con il cappellino. La corsa prosegue spedita, come sempre, e a una ventina di chilometri dal traguardo è il giovane francese Roger Pingeon a lanciare l’attacco decisivo. Immediatamente si portano alla sua ruota alcuni cacciatori di tappe: ci sono i belgi Monty e Boucquet, gli spagnoli Hernandez e Uriona, l’olandese Haast. Sono in dieci, e tra loro c’è anche Felice Gimondi, a caccia di vendetta per la beffa del giorno precedente. Le sue tirate sono come sospinte da una forza animalesca e mettono spesso in difficoltà i suoi compagni di fuga. Ma al di là del suo stile, le immagini dell’INA (l’Institut national de l'audiovisuel) ci restituiscono l’immagine di un Gimondi letteralmente nervoso e che si volta spesso per incitare gli altri a collaborare.

Nell’ultimo chilometro è Ferdinand Bracke a provare l’azione solitaria. Bracke è il campione del mondo in carica nell’inseguimento individuale, non proprio l’ultimo arrivato. Gimondi è rapido a riportarsi sotto ed è devastante nel lasciarlo sul posto prima di involarsi da solo verso il traguardo. La voce che si sente nelle registrazioni in francese dell’INA lo chiama più volte “Gimondì”, con la “g” morbida e l’accento sull’ultima “i”. Poi si corregge: «Scusate, si dovrebbe dire Ghimondì».

È ovviamente la sua prima vittoria di tappa al Tour de France e insieme ad essa arriva anche la sua prima maglia gialla. Sul podio è visibilmente emozionato: si muove goffamente, come farà anche 33 anni dopo. Persino il bacio alla miss (in realtà un’anonima signora ben vestita con una classica acconciatura anni ‘50) risulta impacciato, il sorriso posticcio, lo sguardo umile sempre rivolto verso il basso, come a voler rimanere ancorato al terreno. Sul traguardo, le telecamere francesi scovano tra il pubblico Jacques Anquetil: lui, invece, sempre bellissimo e aggraziato nel suo completo nero.

Felice Gimondi al termine di quella terza tappa è in testa alla classifica generale con 2’16” di vantaggio sul suo capitano Vittorio Adorni e con oltre tre minuti di vantaggio su Raymond Poulidor, il grande favorito alla luce dell’assenza di Anquetil.

Foto LaPresse

È in queste prime tappe, insomma, che Felice Gimondi getta le basi per la sua vittoria. In quelle azioni e in quegli attacchi apparentemente scellerati, in cui guadagna quel tanto che gli basta per difendersi dagli attacchi dei suoi avversari durante tutto il resto del Tour de France. Anche se, ancora una volta, è una cosa che lui di certo non poteva sapere.

L’affermazione

Il primo attacco di Poulidor arriva nella cronometro di Châteaulin nella seconda semitappa del quinto giorno di gara. Il francese va molto forte a cronometro, e non potrebbe essere altrimenti: il suo destino è quello dell’eterno rivale del fuoriclasse di turno. Poulidor viene da anni di duelli persi con Jacques Anquetil che però l’hanno costretto a crescere come uomo e come ciclista, nel tentativo di superare i suoi stessi limiti pur di provare, vanamente, a vincere. E se Anquetil a cronometro sembra una macchina costruita apposta per affrontare quello sforzo disumano, Poulidor è un uomo che lo guarda, lo studia e cerca di avvicinarsi a lui il più possibile.

Pou-pou non tradisce le attese e sbaraglia la concorrenza a cronometro. Eppure Gimondi, nonostante la giovane età, va forte, in un modo che nessuno si aspettava davvero. Alla fine di quella tappa la maglia gialla riesce a tener testa al francese concedendogli un margine di soli sette secondi, e incrementando il suo vantaggio in classifica sul resto dei contendenti.

La prima tappa Pirenaica arriva pochi giorni più tardi. C’è da scalare l’Aubisque e il Tourmalet, che già in quel 1965 rappresentavano due mostri sacri. La Mercier di Poulidor prova a forzare l’andatura ma Gimondi non mostra segni di cedimento. Chi invece non tiene il passo del gruppo è Vittorio Adorni: il vincitore del Giro d’Italia rimbalza sui Pirenei ed è costretto al ritiro. Il giorno dopo sarà il momento dell’addio al Tour anche per il vecchio Federico Bahamontes, uno dei più grandi ciclisti spagnoli di sempre, vincitore del Tour de France nel 1959.

All’uscita dai Pirenei, la Grande Boucle si ritrova con un ventiduenne italiano in maglia gialla e privata di due grandi protagonisti come Adorni e Bahamontes, con Groussard costretto al ritiro già alla terza tappa e con Poulidor secondo in classifica con un ritardo di 3’12”.

L’attacco più violento di Poulidor alla maglia gialla di Gimondi arriva sul Mont Ventoux nella 14ª tappa, il 6 luglio 1965: era la seconda volta nella storia che una tappa del Tour de France si concludeva in cima alla salita che Petrarca scalò insieme al fratello nell’aprile del 1336. La prima volta, nel 1958, fu il lussemburghese Charly Gaul a imporsi gettando le basi per il successivo ribaltone in classifica ai danni di Raphael Geminiani, tradito dai suoi stessi compatrioti nella tappa di Aix-les-Bains. Sette anni dopo, Raymond Poulidor sogna di seguire le orme di Gaul ribaltando il Tour de France e all’imbocco della salita sferra il suo letale attacco a Gimondi. La maglia gialla stantuffa sulle rampe del Mont Ventoux in una solitaria sofferenza mentre Poulidor trova in Julio Jimenez un prezioso alleato.

Dietro il gruppo esplode: ci sono ciclisti da tutte le parti, piegati in due sulle rispettive biciclette nel tentativo di domare il gigante solitario del Massiccio Centrale, venendo inesorabilmente sconfitti. Rik Van Looy, “l’imperatore di Herentals”, il più forte specialista delle classiche in circolazione, naufraga a quasi otto minuti di distacco e quel giorno capirà di dover abbandonare per sempre le sue ambizioni di fare classifica in un grande giro. Gianni Motta soffre e perde 4’16”, Jan Janssen limita i danni e finisce a 2’13”.

Davanti, Raymond Poulidor e Julio Jimenez sono scatenati. Il francese, nonostante i suoi 29 anni, ha già la faccia stanca di un vecchio che ha vissuto troppe delusioni per poterne subire un’altra. Dietro, Gimondi ha ripreso coraggio e dopo l’iniziale scoramento si riporta su Henry Anglade e Joaquim Galera. Anglade dovrebbe lavorare per Janssen ma ormai è chiaro che è lui il vero capitano della Pelforth (chiuderà quel Tour de France in quarta posizione alle spalle di Gianni Motta). Anglade collabora con Gimondi per un lungo tratto di salita, probabilmente impedendo a Poulidor di conquistare la maglia gialla in quella tappa.

Foto Allsport Hulton / Archive

Quando arriva in cima, da solo eppure circondato da una folla di francesi in festa, Raymond Poulidor non alza neanche un braccio al cielo per esultare: ha appena vinto una tappa meravigliosa su una salita storica ma ha la faccia dubbiosa di chi teme di non aver fatto abbastanza. Dopo sei secondi arriva Julio Jimenez, distrutto dalla fatica. Poulidor è già circondato da rudimentali microfoni ma non dice quasi nulla. La sua attenzione sembra essere rivolta verso l’orizzonte, per capire quando arriverà la maglia gialla.

A 1’29” transita Henry Anglade; pochi secondi più tardi arriva stravolto Felice Gimondi. Il suo vantaggio in classifica è crollato a 34 secondi, visto che all’epoca le vittorie di tappa assegnavano la bellezza di un minuto di abbuono. La Francia è in festa, la vittoria di Pou-pou sembra sempre più vicina.

L’arrivo

Due giorni dopo, l’8 luglio 1965, si corre la 16ª tappa da Gap a Briançon su e giù per le Alpi francesi fra il Col de Vars e l’Izoard. La battaglia vera e propria si scatena già sul Vars con l’attacco di Poulidor che porta via un gruppetto con Motta, Jimenez, Galera e Haast, che poi saluta la compagnia e transita per primo in solitaria al gran premio della montagna. Alle sue spalle si fa largo Julio Jimenez a caccia di punti per la classifica degli scalatori. Seguono Gianni Motta e, poco più indietro, Raymond Poulidor e Galera.

Felice Gimondi è ancora una volta in difficoltà, attardato nel gruppetto con Jan Janssen, Gilbert Desmet e il tedesco Karl-Heinz Kunde. Sembra l’inizio del trionfo per i tifosi francesi: il giovane Gimondi è in crisi già sul Vars e c’è ancora da scalare l’Izoard. È la classica giornata da distacchi pesanti. Gimondi, però, è già l’uomo testardo e tenace che i suoi avversari impareranno a conoscere nel corso degli anni.

Il ciclista lombardo non molla e ai piedi dell’Izoard il gruppo è di nuovo compatto. Partono ancora una volta in tre: Haast, Motta e Jimenez, che ormai sembrano muoversi come un corpo unico. Poco dopo, dal gruppo guidato dal fedele Van Schil, Poulidor scatta con rabbia. È un attacco deciso anche se l’azione di Pou-pou non sembra più così brillante. Il volto si increspa in una strana smorfia di sofferenza quando Gimondi risponde prontamente, armato della freschezza data dai suoi ventidue anni. Quei due insieme ci mettono poco a riportarsi sul gruppetto di testa. Gimondi pare rinato e la sua azione successiva è da manuale: rientrato sui fuggitivi si prende qualche secondo per rifiatare e parte secco all’attacco. Quella che sembrava una normale sfida sportiva si trasforma in un duello psicologico devastante in cui ognuno dei due prova a innervosire l’altro, a fargli perdere la fiducia nei propri mezzi. Poulidor reagisce, aggrappato alle sue speranze di vittoria, sostenuto dai tanti tifosi a bordo strada che espongono striscioni con su scritto “Allez Poulidor!”. Un uomo con un elegante completo bianco corre accanto al gruppetto gridando in francese frasi d’incitamento per il suo beniamino mentre il gruppo transita dalle parti della stele in memoria di Fausto Coppi, morto solo cinque anni prima.

La salita però è ancora lunga e quell’attacco sfrontato in faccia agli avversari si ritorce contro Gimondi che perde le ruote a pochi chilometri dalla vetta. Joaquim Galera va via da solo indisturbato verso la vittoria di tappa, alle sue spalle transitano in cima all’Izoard tutti gli altri contendenti sparpagliati: Jimenez, Haast, e poi la strana coppia Motta-Poulidor.

Nella discesa verso Briançon succede di tutto ed è anche complicato a distanza di così tanti anni cercare di ricostruire con precisione l’accaduto: Haast finisce lungo in una curva a sinistra e viene raggiunto dai suoi inseguitori; Gimondi si tuffa alla disperata in discesa e in poche curve si riporta su Motta e Poulidor che, secondo alcune fonti, potrebbe essere addirittura caduto poco dopo lo scollinamento e per questo avrebbe alla fine perso quei fatidici cinque secondi da Gimondi. Le immagini dell’INA però ci mostrano Gimondi e Poulidor insieme in fondo alla discesa ed è quindi più probabile che la maglia gialla abbia sferrato il suo attacco nel breve strappo che portava i ciclisti fino al traguardo nel paese di Briançon.

Al di là della dinamica, rimane il fatto che Gimondi a Briançon recupera cinque secondi in classifica a Poulidor. E forse non sono nemmeno quei cinque secondi persi a fare la differenza, quanto l’idea di non essere riuscito a battere questo giovane e spavaldo neoprofessionista. Chissà magari è questo a bloccare mentalmente il francese nella sua rincorsa al Tour de France.

Dopo il traguardo Gimondi è assaltato da tifosi italiani che hanno passato il confine per guardare questo nuovo campione da vicino. Un uomo brizzolato con gli occhiali da sole gli stringe la mano sorridendo e poi gli dà un bacio sul braccio, come fosse la reliquia di un santo.

Quei cinque secondi guadagnati da Gimondi nello strappetto di Briançon dopo centinaia di chilometri di tentativi da parte di Poulidor segnano la fine dei giochi: Pou-pou molla definitivamente. Gimondi si impone nella cronoscalata al Mont Revard con 23 secondi su Poulidor e il distacco in classifica generale torna ad essere superiore al minuto. Infine l’ultima cronometro di 37 chilometri, da Versailles a Parigi. L’arrivo è al Parc des Princes e Gimondi vince ancora: dà 30 secondi a Gianni Motta, 1’08” a Raymond Poulidor.

All’arrivo diventa ufficialmente il vincitore del Tour de France, a soli 22 anni, alla sua prima partecipazione, nel suo primo anno fra i professionisti.

Sembra l’inizio di qualcosa di grandioso. La Gazzetta dello Sport il giorno dopo titola “Gimondi ha sfondato le porte alla nuova era italiana”. Bruno Raschi scrive che «la superiorità dell’asso italiano ha fatto precipitare all’istante l’atmosfera di tensione che nel primo pomeriggio sembrava ancora gravare sul Parco dei Principi, alimentata dal chiasso di una folla pittoresca, dentro la quale erano proprio gli italiani, dopo anni di acuta carestia, a calzare il berretto frigio. Era il loro 14 luglio».

Erano passati soltanto cinque anni dall’ultima vittoria italiana di Gastone Nencini nel 1960, gli anni di “acuta carestia” di cui parla Bruno Raschi. Nessuno poteva immaginare che da lì alla successiva vittoria italiana al Tour sarebbero passati non cinque ma trentatré anni. Una vita intera, tanto che Bruno Raschi non visse abbastanza per godersi il trionfo di Pantani nel 1998.

Il Tour de France del 1965 rimase l’unico di tutta la carriera di Felice Gimondi. L’uomo che sembrava dovesse far rivivere all’Italia i fasti di Coppi si schiantò contro una generazione fra le più sature di puro talento. Luis Ocaña, José Manuel Fuente, Joop Zoetemelk, Lucien Van Impe, Roger De Vlaeminck, Freddy Maertens, tolsero a Felice Gimondi la possibilità di vincere più di quello che alla fine effettivamente riuscì a vincere. Ma di lì a poco quella sarebbe diventata soprattutto l’epoca di Eddy Merckx, “il Cannibale”, uno dei più grandi ciclisti di tutti i tempi, nonché una leggenda dello sport intero.

Merckx sul podio del Tour de France 1972, insieme a Gimondi (Foto Allsport Hulton / Archive)

Dal 1968 le sfide fra Gimondi e Merckx proseguirono per tutto il decennio successivo e si conclusero quasi sempre con la vittoria del belga. Nonostante tutto, però, Gimondi nella sua carriera è riuscito a vincere praticamente tutto quello che poteva, a volte approfittando dell’assenza del suo principale rivale, altre volte battendolo a sorpresa come al Mondiale di Barcellona del 1973, forse la sua vittoria più bella, il capolavoro che vale un’intera carriera. Non tanto per il prestigio quanto per l’aver battuto in una gara secca tutti i grandi rivali della sua interminabile carriera: Merckx, Maertens, Ocaña, che, scrive ancora Bruno Raschi, «avrebbero dovuto lasciarlo, secondo pronostico, alla pedaliera», furono tutti messi alle spalle da quel bergamasco con lo sguardo umile.

Tre vittorie al Giro d’Italia (di cui l’ultima a quasi 34 anni, nel 1976), una alla Vuelta a España, un Tour de France, e poi la Parigi-Roubaix del 1966, due volte il Giro di Lombardia e la Milano-Sanremo 1974 ci raccontano di un ciclista capace di essere competitivo su tutti i terreni, e in momenti diversi della stagione. Era un altro ciclismo, certo, ma fra i suoi coetanei ce n’erano comunque pochi come lui. De Vlaeminck era uno specialista delle classiche e ne ha vinte molte più di Gimondi, così come Ocaña, Fuente o Thévenet magari erano più forti di lui nelle corse a tappe. Ma di ciclisti come Felice Gimondi, in grado di vincere in ogni momento e in qualsiasi modo, ce n’era solo un altro in quel periodo e purtroppo si chiamava Eddy Merckx.

Il primo incontro ravvicinato tra i due, ce lo racconta lo stesso Gimondi, fu però alla Volta a Catalunya del 1968. In particolare nella tappa a cronometro in cui un giovane Eddy Merckx riuscì a battere Gimondi in quella che era una delle sue specialità, come tre anni prima il giovane Gimondi aveva fatto con Poulidor. «Lui mi batté per la prima volta a cronometro e fu un boccone difficilissimo da mandar giù. Con Ferùn, Ferretti, il mio compagno di stanza, siamo stati fino alle due di notte a camminare avanti e indietro per la spiaggia per capire perché mi aveva battuto.

«Dopo l’ho capito: perché era più forte. Ma mi ci sono voluti due anni per capirlo».

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