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Federer e la ricerca del finale perfetto
16 apr 2020
16 apr 2020
Vincere un'ultima volta a Wimbledon è l'ossessione che perseguita Roger Federer.
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Roger Federer è a casa, si annoia. Fa esercizi, guarda Netflix, gioca coi figli. Non sa quando potrà tornare a fare quello che ha fatto per tutta la vita. A dirla tutta, a 39 anni, non sa neanche

tornerà mai più a farlo. Almeno da professionista. Non sa se avrà ancora la possibilità di giocarsi la vittoria di quel maledetto ultimo Wimbledon, chiudendo questa esasperante ricerca del finale perfetto.

 

Il tennis è fermo, l’ATP cancella un torneo dietro l’altro. Il Roland Garros è stato rinviato all’autunno e la cancellazione dello slam londinese è questione di giorni. Il suo programma è andato in fumo: vincere Wimbledon a luglio e le olimpiadi di Tokyo ad agosto. Non sa quando finirà questa pandemia, e se il tennis tornerà davvero come prima.

 

Magari sarà costretto ad alzare il trofeo in un centrale disabitato per ragioni sanitarie: dovrà mostrare la coppa dorata a un maxi schermo di persone adoranti dal divano di casa; oppure dovrà celebrarlo insieme a pochi intimi distribuiti sugli spalti rispettando la distanza di sicurezza. Non potrà baciare sua moglie, abbracciare suo padre. Avrà 40 anni.

 

Magari Federer non è andato così in là con i pensieri; magari è davvero solo annoiato. Allora prende una racchetta, indossa uno zuccotto sulla testa e un piumino sopra la tuta. Va sul retro e comincia a tirare la pallina contro un muro con disegnata sopra una rete. Attorno a lui uno scenario alpino freddo e ostile: il cielo bianco, gli abeti, la neve che cade a cumuli.

 

Questa scena sarebbe potuta rimanere privata, o magari sarebbe potuta finire in uno dei film che verranno dedicati alla sua carriera - se il cinema continuerà a esistere. Il vecchio leone indomito fuori ad allenarsi in mezzo agli elementi come Rocky che si prepara all’incontro con Ivan Drago correndo tra le neve del Wyoming. Federer invece ha deciso di riprendersi col telefono e di postare il video sui social, sorridente. Forse voleva sentire l’amore folle e incondizionato dei suoi tifosi, di quelli per cui Federer e il tennis sono praticamente la stessa cosa, due esperienze sovrapposte. La mancanza di tennis è la mancanza di Federer.

 

https://twitter.com/rogerfederer/status/1244696825602473988?s=20

 

Oppure riprendendosi voleva lanciare un messaggio, magari banale: la sua ossessione è ancora lì, quella per il tennis e quella, disumana, per la competizione.

 

Non rinuncerà al suo finale perfetto. Piuttosto è pronto a usare questo periodo di inattività per aggiungere un inedito livello di epica al suo ritorno in campo.

 

***


 

Pochi giorni dopo arriva l’ufficialità: per la prima volta dai tempi della prima guerra mondiale Wimbledon è stato cancellato. Federer ha riassunto il suo stato d’animo in una sola parola: “Devastated”. Dal

: «Distrutto moralmente, sconvolto profondamente: animo devastato dalle sventure».

 

***


 

La scena è nota. Federer è in vantaggio 8-7 al quinto set nella finale di Wimbledon. È 40-15 e ha due servizi a disposizione per vincere il suo nono titolo. Davanti a lui Novak Djokovic è la solita sfinge: un tennista che vince non perdendo, e se lo conoscete avete capito il paradosso. Il primo punto va bene, abbiamo imparato ad accettarlo: Federer tira un servizio anemico, Nole gli risponde tra i piedi, lui è pigro in uscita e tira un impacciato dritto a lato di un metro. Il secondo, però, è ancora un trauma: Federer tira un servizio violento e centrale, Djokovic appoggia una moscia risposta stoppata; lo svizzero si è già spostato sul dritto per attaccarla, tirare un vincente e alzare il trofeo. L’attacco è corto, Nole sembra quasi aspettarselo e, col guizzo di quei grossi rettili acquattati nella sabbia, tira un passante incrociato senza appello.

 

Federer perderà e quei due matchpoint svaniti hanno continuato a perseguitare chi vedeva nella sua vittoria una forma di giustizia divina. Marco Imarisio sul

che «a una settimana di distanza, quei due match point si sono fatti carne. Sono quasi diventati un’entità viva, con la quale sfogarsi e recriminare, cercando di elaborare un lutto collettivo».

 

Nell’intervista post-partita l’intervistatrice dice a Federer: «Il modo magnifico in cui hai giocato lo ricorderemo per sempre». Lui risponde: «Proverò a dimenticare».

 

***


 

I tennisti si dividono in due categorie: chi ama Wimbledon e chi lo odia. L’ostinazione ai completi bianchi, la diversità dell’erba, le fragole con la panna, il clima generale denso di una formalità sempre sul confine del kitsch. C’è chi vede in tutto questo una specie di quintessenza del tennis, uno sport che avanza nella modernità senza mai rinunciare al peso della tradizione; chi invece un insopportabile relitto del passato, un’esibizione non richiesta di conservatorismo.

 

Se diamo per scontato che una vittoria a Wimbledon sia la massima aspirazione di un tennista, è perché oggi c’è più diplomazia. Un tempo non ci si faceva troppi problemi a parlarne male. Ivan Lendl, nel 1982, si lasciò andare a un cinico: «L’erba è per le mucche»; Gustavo Kuerten si dava sempre malato quando arrivava la stagione sull’erba, seguendo l’esempio di altri illustri specialisti della terra. Yannick Noah, uno dei più grandi ed eccitanti tennisti della storia, ha giocato a Wimbledon appena tre volte nel suo prime. Appena un anno fa Fabio Fognini si augurava che “scoppiasse una bomba” sull’All England Club.

 

Federer, come sapete, fa parte della categoria di tennisti che mette Wimbledon su un piano diverso dagli altri tornei. Identifichiamo Federer con Wimbledon, consideriamo le due cose inseparabili. Perché lui stesso nella sua carriera ha sovrapposto la propria narrazione, il proprio immaginario, in modo inscindibile da quella di Wimbledon; un tennista che rimane competitivo nella modernità pur mantenendo un certo stoico classicismo. Considerare sottilmente quello su erba, come ha dichiarato Kyrgios “l’unico vero tennis”. Il tennis su cui per essere competitivi occorre creatività e un braccio sensibile: le caratteristiche di chi ha il sangue blu. Federer ha vinto 20 tornei dello slam: 8 Wimbledon e 12 altri che forse considerava la preparazione a Wimbledon.

 

***


 

La storia d’amore tra Roger Federer e Wimbledon è iniziata quando il 2 luglio del 2001, a neanche vent’anni, si era presentato al mondo battendo il sette volte campione del torneo Pete Sampras. L’americano veniva da una striscia di 31 vittorie consecutive sull'erba londinese. Era considerato l’ultimo baluardo di uno stile di gioco che stava venendo cancellato dall’imbarbarimento del power tennis.

 

Per Federer sconfiggerlo è stato come estrarre la spada dalla roccia: la prova che era degno dell’eredità, e che il tennis aveva trovato un altro giocatore che aveva nello stile e nell’eleganza le armi da contrapporre alla potenza di Hewitt o Roddick.

 

Dopo quella partita il

titolava: «Segnatevi sulla vostra agenda la data del 2 luglio 2001: è il giorno in cui tutto è cambiato a Wimbledon». Sampras lo aveva benedetto: «Ci sono tanti giovani che stanno venendo fuori, ma Roger ha qualcosa di speciale. Ha un gioco completo, e come me non è troppo emotivo. Gli dovete dare fiducia».

 

Sampras quindi lo aveva riconosciuto come suo simile, dandogli il benvenuto nel club dei giocatori offensivi e glaciali a cui apparteneva anche Stefan Edberg, l’altro idolo di Federer proprio insieme a Sampras.

 

Forse è da quel momento che Federer ha cominciato a sentirsi parte di una stirpe. Vincere Wimbledon era diventata una missione.

 

***


 

Prima di diventare un campione infallibile, era uno specialista in fallimenti. Ci sono voluti altri due anni di alti e bassi perché Federer si presentasse a Wimbledon da favorito. Nel 2003 è ancora nella dimensione dell’incompiutezza. Un tennista incredibile la cui riuscita sembrava fragile e incerta. Oggi Federer ha attraversato talmente tante vite che ci risulta difficile forse ricordare quando soffriva la pressione di dover vincere il suo primo slam.

 

Nel 2003, prima di Wimbledon, negli slam aveva perso cinque volte consecutive da tennisti con una classifica peggiore della sua. Al Roland Garros di quell’anno, poche settimane prima, era stato sconfitto in tre semplici set dal modesto Horna, commettendo 82 errori non forzati. Una vera impresa al contrario. Sul Palm Beach Post, un giornale della Florida, viene definito “Il Phil Mickelson del tennis”, un golfista di grande talento che non era ancora riuscito a vincere un grande torneo. Per Federer il tennis non era una cosa facile, e ai suoi occhi i tornei dello slam erano le fatiche di Ercole: «Dopo il primo set mi sono detto: anche se superi questo turno dovrai affrontarne altri sei per vincere il torneo. E questo pensiero mi ha fatto perdere la testa. Sentivo una tale pressione che non riuscivo più a giocare». (Questi virgolettati

scritta da René Stauffer).

 

Per tutte queste ragioni la vittoria a Wimbledon 2003 viene considerata - anche da lui stesso - il punto di svolta della sua carriera. C’è stato ancora un momento in cui le cose hanno rischiato di precipitare, e non è detto che la carriera di Federer sarebbe stata la stessa.

 

Agli ottavi di finale deve affrontare Feliciano Lopez, come sempre è nella posizione scomoda di avere tutto da perdere. Si gioca sul campo due, il “cimitero dei campioni”. Non ci pensa ma intanto l’incertezza ha cominciato a infiltrarsi nel suo corpo. Durante il riscaldamento prova un servizio e qualcosa si spezza, sente un dolore pungente alla schiena. «Ho pensato "Mio Dio cos’è successo"? Non riuscivo più a muovermi, ero completamente bloccato».

 

La partita comincia ma Federer prova dolore durante ogni servizio, si muove a malapena, non riesce neanche a stare seduto al cambio campo. Sull’1-1 crolla sulla sedia, chiama l’intervento del fisioterapista. Cominciano i massaggi; in seguito dirà che in quel momento, con la pancia a terra e mentre pregava per la pioggia, aveva seriamente meditato il ritiro. Invece si è rimesso in piedi miracolosamente e ha vinto la partita in tre set.

 

In finale, contro Mark Philippousis, Federer gioca forse la miglior partita della sua carriera fino a quel momento. Un tennis trascendentale, “un tennis ispirato e impeccabile solo come può esserlo sull’erba” scrive il

. La sua incoronazione comincia a sembrare un fatto naturale. Il talento magnetico di Federer era finalmente sbocciato.

 

Abbiamo cominciato a considerare Wimbledon la casa di Federer, e Federer a vedere Wimbledon come il terreno su cui edificare la propria eredità.

 

***


 

Da spettatori tendiamo a pensare che certi miti e narrazioni sullo sport siano ricami che esistono solo nella nostra testa. Un piano astratto che sovrapponiamo a quello ben più materiale e terreno della competizione. Possiamo pensare che ai professionisti non interessi più di tanto il modo in cui li raccontiamo. Ma è lo stesso Federer, in più occasioni, a ricordarci quanta importanza ha per lui il piano simbolico e formale dello sport di cui si sente il primo ambasciatore: «Ho sempre voluto vincere il mio primo slam a Wimbledon, là dove tutto è cominciato. Le divise bianche, l’erba, è semplicemente un classico».

 

Federer è cresciuto col mito di Stefan Edberg, della sua eleganza impassibile. Un tennista capace di ripulire il tennis dalla sua violenza intrinseca. Quello di Edberg da molti non era considerato

, un modo di interpretare il gioco, ma una specie di verità. Era come se Edberg, nelle parti più spirituali del suo gioco - il suo rovescio, da fondo e a rete -  riuscisse a toccare una parte profonda, essenziale del tennis. Per questo Carmelo Bene diceva: «Mentre gli altri giocano a tennis, Edberg, a mio avviso, è sempre stato il tennis».

 

Non è assurdo pensare che Federer abbia provato a inseguire quel piano ideale. Non solo ci è riuscito, ma lo ha portato a un livello persino superiore, in una dimensione che semplicemente non pensavamo possibile. E questo fatto è ciò che oggi ci fa identificare Federer con il tennis in sé. Qualcosa che agli occhi dei suoi tifosi più fanatici - per questo mal tollerati da molti - nessuna sconfitta contro Nadal e Djokovic sarà mai capace di togliergli.

 

Probabilmente è un pensiero che fa lo stesso Federer.

 

Perché questa sensazione di magia continui a esistere, però, Federer ha bisogno di vincere a Wimbledon; di affermarsi come il migliore sulla sua superficie preferita, in un campo che considera un tempio.

 

***


 

A dire il vero bisognerebbe domandarsi se Federer ne abbia davvero bisogno.

 

Negli ultimi 8 anni è riuscito a vincere una sola volta, nel 2017, quando ha potuto battere l’abbordabile Cilic in finale. Per il resto ha coltivato un’epica dorata del fallimento, attraverso sconfitte diventate più memorabili di tante vittorie altrui. Con l’effetto collaterale di far passare i suoi carnefici come i cattivi che non sono.

 

In tutto questo tempo Federer ha giocato come se fosse postumo a sé stesso, e abbiamo accolto ogni sua grande partita come un miracolo. Nel frattempo abbiamo voluto dimenticare che dal 2012 in avanti per Federer le sconfitte - intese come mancate vittorie - sono diventate la normalità. Ha continuato a giocare in modo divino, certo, ma ha smesso di essere il migliore al mondo. Almeno nel senso più comune che il discorso sportivo ci mette a disposizione: essere il più competitivo, il più difficile da battere. Ma non voglio essere frainteso: non è stata decadenza. O se lo è stata ha assunto la forma lussuosa ed enigmatica della tartaruga intarsiata di diamanti di Des Esseintes.

 

Abbiamo accolto questo lungo, interminabile tramonto come un ulteriore segno di grandezza. La consunzione fisica e mentale che il tempo ha imposto al suo talento ha finito per trasfigurarlo, dandogli una consistenza più spirituale e misteriosa. Un uomo capace di giocare un tennis sconosciuto agli altri, arrivando quasi a scucire il senso di realtà attorno a noi. Eppure fragile, così fragile. Lucente e invincibile nei suoi momenti migliori, e un attimo dopo, spesso nel momento decisivo, debole e incerto.

 

Riguardando indietro a tutto questo lungo periodo diventa difficile capirci qualcosa, è stato come essere dentro un’allucinazione. Per cinque o sei anni abbiamo visto Federer essere davvero imbattibile, e poi per i successivi dieci lo abbiamo visto declinare senza mai farlo davvero. Nel 2015, quindi ormai cinque anni fa, Brian Phillips

che il prime di Federer era durato di meno della sua fase più opaca. Che tipo di esperienza è stata guardare Federer scontrarsi col fallimento ancora e ancora? E lui cosa prova a essere il tennista più vincente della storia e

? Che effetto gli fa sapere che probabilmente Djokovic supererà il numero delle sue vittorie? Cosa lo spinge ad andare avanti?

 

Ha quasi quarant’anni e parla mal volentieri del suo ritiro. Abbiamo continuato a interpretare la sua ossessione, la sua resistenza, come una forma di generosità.

 

Fatichiamo a immaginare il tennis dopo di lui, e lui forse fatica a vedere sé stesso dopo il tennis. E insieme siamo uniti in questo patto silenzioso: che ci conceda un ultimo grande Wimbledon, un’ultima enorme manifestazione della sua grandezza che restituisca un senso diverso e compiuto a tutti questi anni. Un finale cerimonioso a cui lui stesso, così assorbito nel simbolismo del tennis, sembra tenere più di ogni altra cosa. Un finale che nella sua testa era Wimbledon dello scorso anno, battendo non il suo nemico più caro ma quello a lui più alieno. L’unico ad averlo davvero fatto sentire inadeguato.

 

Il suo finale è stato rimandato di un anno, e ora di un anno ancora, e questa strana sospensione in cui siamo immersi fa sembrare il tramonto di Federer ancora più indecifrabile.

 

Forse si tratta solo di togliersi dalla testa lo spettro di quei due matchpoint.

 

 

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