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Foto di Christian Petersen/Getty Images
Sport Francesco Casati 4 febbraio 2016 7'

Fattore Manning

I Denver Broncos che arrivano al Superbowl dipenderanno ancora molto dal loro generale.

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Conversione da due punti fallita dai Patriots, onside kick recuperato dai Broncos e cronometro che si avvicina allo zero. Lo Sports Authority Field at Mile High è una bolgia, Peyton Manning con la palla della partita è circondato da fotografi che vogliono immortalare il suo ritorno al Super Bowl. Quarta finale in carriera e la possibilità di lasciare questo gioco in parità, con due titoli vinti, oltre a raggiungere il fratello minore Eli, che pur avendo la metà del suo talento (e siamo generosi) a ogni riunione di famiglia ricorda che lui di anelli ne ha due. In tutte le foto scattate sul finire del championship l’espressione di Manning è sempre la stessa e sembra quasi volerci dire: «Ho un piccolo segreto da confessarvi, ma ve lo dirò tra due settimane».

 

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È la settimana del Super Bowl e le attenzioni mediatiche sono tutte su di lui, lo sport non può vivere solo di tattica e tecnica e l’ultima partita di Peyton Manning è un concentrato di romanticismo e giornalismo. Al contempo però preparare la finale è complesso: la routine non è la stessa, le strutture per allenarsi non sono le proprie e tenere il gruppo lontano da feste, arrampicatrici sociali e parassiti non è facile, specie per i più giovani. Manning si è presentato alla prima sessione di interviste con una poker face epica, sapeva benissimo a cosa andava incontro.

 

«È il tuo ultimo anno? Potresti lasciare da vincitore, ci pensi? Eri microfonato quando hai detto a coach Bill Belichick che questa potrebbe essere la tua ultima corsa (letteralmente “last rodeo”). È davvero così?» Manning con il sorriso sulle labbra dice tutto e niente, tra piccole bugie e mezze verità cerca di non prendersi sul serio e protegge il suo segreto con battute e frecciatine: «Brady può giocare fino a 70 anni e Belichick può allenare fino a 90. Magari il mese prossimo mi immergo nella fontana della giovinezza e ci giochiamo il championship per le prossime dieci stagioni».

 

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L’importante è non caricare la squadra di pressioni e aspettative difficili da gestire. Per i Panthers ha subito rilanciato il cornerback Josh Norman (fortissimo): «Dobbiamo anche credergli quando dice che non ha più il braccio per lanciare profondo? Questo a inizio partita, quando è fresco, è ancora il solito Manning». Norman non ha tutti i torti vedendo il primo tempo della partita con i Patriots, ma Manning ha finito quella partita esausto, incapace di chiudere down e di trovare i compagni. Tra il championship e il Super Bowl c’è una settimana di pausa, cruciale perché si recupera dagli infortuni e si prepara la partita; soprattutto si lavora lontano dai riflettori del carrozzone mediatico. Lunedì e martedì si analizzano i filmati degli avversari e dal mercoledì si definisce il piano partita con schemi e formazioni da caricare sui tablet. È una mole di lavoro impressionante, da assimilare la settimana successiva, senza routine e con mille distrazioni.

 

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Professore e generale

“Stick to the script” dicono gli americani. Cioè, segui il copione, resta concentrato sul piano partita. Questo è un comandamento tanto banale quanto fondamentale per avere una squadra allineata e compatta. Il quarterback, insieme al proprio offensive coordinator può infrangere questo comandamento se il piano partita degli avversari è tatticamente superiore.

 

Ci sono i quarterback e poi c’è Manning. Prima dei tablet, delle app e delle analisi negli studi post partita, un’intera generazione ha imparato a conoscere il football e suoi dettagli con Manning. Essendo nato nell’83 faccio parte di questa generazione e considero Manning un professore del gioco. Ricordo la prima volta che lo vidi su Tele+2 nella stagione da Junior con la divisa di Tennessee. Il football NCAA per un ragazzo di nemmeno 15 anni aveva sfumature davvero difficili da cogliere, per fortuna mio fratello maggiore metteva in pausa il VHS e mi faceva vedere gli accoppiamenti e le letture.

 

I commentatori lo descrivevano come prima scelta assoluta del draft successivo, quello del ‘98. La cosa che non riuscivo a capire era il dislivello fisico tra NFL e NCAA, non mi spiegavo perché in NBA Kevin Garnett, Kobe Bryant o uno Stephon Marbury potessero dominare senza passare dal college o quasi, unico a giocare a livello NCAA per una stagione fu Steph a Georgia Tech. Perché aspettare, perché giocare anche l’anno da senior? Poi mio fratello cambiava VHS, si passava a guardare la NFL e la struttura fisica dei placcatori e finalmente mi arresi all’idea di dover aspettare il ‘98.

 

Furono i Colts a mettere le mani su Manning e, partita dopo partita, vidi una caratteristica unica in lui: leggeva gli schemi avversari così velocemente da riuscire a cambiare la chiamata offensiva in pochi secondi e, ancora più incredibile, riusciva a farlo con continuità, azione dopo azione. La velocità  con cui riusciva a comunicare le proprie idee ad altri 10 compagni in pochi secondi era una cosa mai vista; e la mia generazione ha avuto la fortuna di conoscere Steve Young e Dan Marino. Nessuno come Manning. Hanno iniziato a chiamarlo sceriffo, ma lui è un generale in campo.

 

Quante volte abbiamo letto storie di ragazzi difficili usciti da contesti sociali degradanti grazie allo sport? A volte ci si sente perfino sporchi, degli speculatori, nel raccontare la redenzione di questi ragazzi dalla nostra posizione di privilegio. Molti benestanti in America impediscono ai figli di giocare a football, perché molto cinicamente lo ritengono un rischio che ha senso solo se non si ha nulla da perdere.

 

Manning non viene da un contesto sociale complicato, la sua è una famiglia ricca e per fortuna dello sport il suo vecchio, papà Archie, è un ex giocatore NFL, quarterback ovviamente. Tra i ricevitori preferiti di Peyton c’è Demaryius Thomas, un ragazzo che ha visto la mamma e la nonna andare in prigione quando aveva appena 11 anni.

 

La nonna ha un ergastolo da scontare per traffico di droga, mentre la mamma ha ricevuto la grazia dal presidente Obama ed è stata rilasciata prima del 2017, scadenza naturale della condanna. La vittoria contro gli Steelers nel divisonal è stata la prima volta che Thomas giocava con sua mamma allo stadio. Contesti sociali diversi, una famiglia presente e una sfasciata, un bianco e un nero, due fratelli in campo. Senza prove di forza, Manning si è guadagnato i gradi di generale con rispetto ed intelligenza. I suoi compagni, tutti (dal contadino del Texas fino al ragazzo cresciuto tra le gang di una metropoli), credono in lui nonostante la stagione più difficile della propria carriera. I Broncos tornano al Super Bowl dopo solo 2 stagioni, in quella partita sono stati spazzati via dalla difesa dei Seahawks a New York. Oggi sono una squadra profondamente diversa e anche Manning è un giocatore completamente diverso.

 

Nuovo vecchio Manning

I Broncos oggi sono una squadra difensiva, probabilmente la più forte dai tempi di Ray Lewis e i suoi Ravens. Derek Wolfe e Nnalik Jackson erano inesperti oggi sono solidi, Aqib Talib è T.J. Ward hanno aggiunto al reparto esperienza, colpi al limite e grandi placcaggi; in più ci sarà anche Von Miller, vero fuoriclasse che ha saltato i Seahawks per infortunio. Miller è il leader della difesa, quello in grado di mettere pressione al quarterback da solo,

 

 

 

ma anche di arretrare e prendere il tight end.  

 

 

A questo bisogna aggiungere la forza di DeMarcus Ware e il quadro è completo. E il nuovo vecchio Manning?

 

Nonostante le difficoltà, questo Manning ci piace ancora di più se possibile. Ci fa sentire umani, ci toglie delle certezze e ci fa tifare per lui. La sua testa legge football come sempre, ma le sue esecuzioni non sono sempre lucide e il tempo tecnico della giocata non è più automatico. In singola giocata è il Peyton di sempre e nel championship con i Patriots i due touchdown di Owen Daniels sono la sintesi perfetta di una carriera vissuta in anticipo sulle difese.

 

 

I ricevitori allargano il campo e portano fuori le safeties avversarie, Jamie Collins si ritrova uno contro uno con Daniels, più lento e vecchio di lui, e non si aspetta una ricezione profonda. Quel tipo di movimento se lo aspetta da Vernon Davis e, in più, per tutto il drive i Broncos non hanno rinunciato a correre la palla, per mandare Collins in chiusura (tipo così). Solo un grande quarterback poteva trovare una debolezza nell’anello forte della difesa avversaria.

 

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Il secondo touchdown è ancora più incredibile. L’accoppiamento è ancora lo stesso, Daniels-Collins, questa volta il tight end parte largo come un wide receiver. Sembra uno schema rubato al playbook dei Patriots con Gronkowski. Collins è ancora una volta preso di sorpresa e quella esitazione viene punita da un lancio perfetto di Manning. Solo un genio poteva rubare uno schema agli avversari e giocare per la seconda volta consecutiva sul miglior difensore, con il tight end più lento a disposizione.

 

I Panthers, proprio come Steelers e Patriots in questi playoff, non possono pronosticare una prestazione di Manning. È tutto troppo imprevedibile e per certi versi frustrante, perché complica le scelte da prendere.

 

Poi c’è la questione romantica e il paragone con John Elway, grande quarterback dei Broncos e oggi general manager che ha chiuso la carriera con una vittoria al Super Bowl. Elway si è tolto l’etichetta di perdente solo nel finale di carriera. C’è perfino una puntata dei Simpson in cui Homer sogna di essere lui e realizzare la meta della bandiera in una finale persa malamente. Qui la storia è diversa, Manning ha riportato l’intelligenza al centro di questo sport mettendo in secondo piano le doti atletiche, un po’ come Stephen Curry ha reso il tiro in sospensione più spettacolare delle schiacciate o di come Andrea Pirlo abbia riportato la qualità davanti la difesa con un fisico da trequartista e un passo da guardalinee.

 

Qui siamo di fronte a una rivoluzione del gioco che compie il suo ciclo e lascia un’eredità indiscutibile. Bisogna aspettare domenica sera e scoprire qual è il segreto di questo ennesimo Super Bowl. Provando a leggere i suoi occhi, come Manning ha sempre fatto con le difese, azzardiamo la parola “Trust”. La fiducia nella propria difesa che è sempre in grado di tenerlo in partita e metterlo nella condizione di essere decisivo. È la fiducia che si percepisce ad ogni high five con i compagni che lo porta a fare cose che non ha mai fatto in carriera e a farle bene. Come la corsa di 12 yard per chiudere il down contro i Patriots. Guardate la corsa

 

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e guardate la reazione dei compagni.  

 

 

Oltre ogni limite. Da macchina a uomo, da stella a gregario di lusso, da certezza a variabile impazzita. In ogni caso protagonista e leader.

 

 

Tags : carolina panthersdenver broncospeyton manningSeattle Seahawkssuper bowl

Francesco Casati, nato a Milano, classe 1983, è il caporedattore della sezione football de l'Ultimo Uomo. Laurea in scienze politiche con una tesi su Nick Young. Nel tempo libero segue NBA, NFL, rap e legge biografie. Sposato con Valentina. Insieme hanno un bulldog inglese di nome Apollo Creed. Segue le partite dei Packers con la maglia di Ha Ha Clinton-Dix.

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