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Arnaldo Greco
Fantasport
03 giu 2014
03 giu 2014
Il successo dei giochi manageriali nasce dal piacere di poter incidere sul risultato, ma che rapporto abbiamo con l'avatar sportivo? Lo stesso del giocatore in carne ossa?
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Arnaldo Greco
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Quando qualche settimana fa un noto giocatore di football americano ha annunciato il suo abbandono allo sport adducendo, tra le cause del prematuro ritiro, lo strapotere del fantasy football mi sono chiesto cosa ci fosse di così orribile in quel passatempo. E se dovessi sentirmi—pur non avendo mai provato il fanta-football—in qualche misura responsabile, essendo un fan assoluto di qualsiasi fantasport. Parlando con qualche amico, ho scoperto che per loro la chiave del successo dei fantasport o dei giochi manageriali, risiede tutta nel controllo. Ciò che adoriamo è la sensazione di poter controllare quell’assist in più, quel tiro da tre sbagliato di troppo, o il terzo decimale della media battuta. In un’epoca di control freak, ciò che ci tiene, dunque, attaccati al più semplice fantacalcio (il fantasport col minor numero di variabili al mondo) o al manageriale più complesso è quella sensazione di poter incidere su un risultato analizzando e agendo sui minimi particolari, che sia l’allenamento infrasettimanale dei propri atleti o impostare l’atteggiamento più o meno offensivo di un’ala destra. Di conseguenza quel giocatore di football lì non doveva sentirsi vittima dei giochi, era una posizione semplicemente illogica: i numeri che realizzava non gli appartenevano più. Lui credeva che senza quei numeri sarebbe stato considerato un giocatore più forte, ma era una pretesa assurda: dal momento in cui lui realizza quei numeri, lui è quei numeri. Sono sanciti e non c’è niente oltre quelli se non la possibilità di migliorarli o peggiorarli. Eppure a me sembra di sentire che ci sia qualcosa oltre al controllo. Che la corrispondenza tra un atleta e come usiamo le sue cifre non si limiti al rapporto tra noi e le cifre ma si allarghi anche all’atleta. Allora mi sono chiesto se l’affetto o la simpatia che proviamo per le versioni statistiche e gli avatar degli atleti corrispondano ad affetto e simpatia anche per gli atleti in carne e ossa oppure non c’è passaggio tra gli uni e gli altri. Un tifoso della Roma vuole bene a Pjanic più o meno di un tifoso della Roma che ha Pjanic pure al fantacalcio? E a Chris Paul voglio più bene di un anno fa perché segna 26 ragguardevoli fantapunti di media nel mio team di fantanba? O non me ne frega niente di lui visto che non ho visto nessuna partita dei Clippers quest’anno e Chris Paul non so neppure che faccia abbia? A chi voglio bene? Di chi mi preoccupo? Del vero Chris Paul o di quella riga che corrisponde a Chris Paul su hoops sports? Se si facesse male per chi mi dispiacerebbe? Quella riga di statistiche, di rimbalzi, assist, falli fatti e subiti a partita è sempre Chris Paul o è un’altra cosa che non gli appartiene? Nel 1968, Roobert Coover scrisse The Universal Baseball Association, Inc., J. Henry Waugh, Prop. (in italiano "Il gioco di Henry"). Il libro racconta la storia di Henry, una persona ordinaria con una passione totalizzante, il baseball. In realtà, a voler essere il più precisi possibile, Henry si appassiona a una sorta di pre-fanta-baseball, crea, infatti, una sua lega professionistica, l’Universal Baseball Association, con le sue squadre e i suoi giocatori, tutti inventati di sana pianta; e ogni sera, dopo il lavoro, torna a casa e gioca coi dadi e il suo campionato. A ogni lancio corrisponde un'azione dei giocatori. Lui annota tutti i punteggi su alcuni quaderni. La diversa abilità del lanciatore, la diversa abilità del battitore, le diverse abilità dei ricevitori, le misure dello stadio, il tempo atmosferico, la stagione, tutto contribuisce a determinare un punteggio che poi il caso, nella forma di un lancio di dadi, informerà in qualche modo. Henry calcola e appunta i punteggi, annota le statistiche, calcola le percentuali, immagina le telecronache. Quando, però, il rookie Damon Rutheford, figlio di uno dei più forti giocatori di ogni epoca (inventato anch’esso ovviamente), riesce a concludere un “perfect game” dopo una lunghissima, appassionante, e raccontata in ogni minimo dettaglio, serie di lanci fortunati di dado, Henry si esalta a tal punto da perdere anche l’ultimo contatto con la realtà. E la fantalega prende il sopravvento sulla sua vita. Quello che Coover e Henry non potevano immaginare nel 1968 è che a un certo punto avremmo avuto computer adatti a creare intere centinaia di leghe finte come quella di Henry e ci avremmo giocato. Con l’unica differenza che al posto dei dadi alcuni processori avrebbero calcolato i risultati per noi, esattamente allo stesso modo di Henry e cioè tenendo in considerazione le abilità degli atleti, quelle del manager e mille altre variabili ancora e tenendone perfino una da parte attribuendole il ruolo del “caso” per non rendere tutto troppo prevedibile. Baseball Mogul è il più noto massively multiplayer online game (i giochi a cui possono partecipare migliaia di utenti contemporaneamente) sportivo al mondo, Henry l’avrebbe adorato, e magari non sarebbe neanche andato via di testa giocandoci. (Nonostante l’accusa fatta a questo genere di videogame sia esattamente quella di alienare i giocatori costringendoli a mosse ripetitive continue per fidelizzarli.)

Probabilmente il più noto gioco sportivo di questo genere in Italia è ovviamente sul calcio e si chiama Hattrick. Giocare ad Hattrick è molto semplice ed economico. Ti iscrivi, ti affidano una squadra di giocatori dai nomi inventati ma realistici (io per anni ho provato ad acquistare un portiere argentino col mio stesso nome di battesimo ma il proprietario non l’ha mai messo in vendita) e ti fanno partire dall’ultima serie. Al momento dovrebbero esserci 11 serie in Italia. Ci sono circa duemila gironi di otto squadre in undicesima serie, altri duemila in decima, un migliaio in nona e un sistema che si assottiglia sempre più fino alle 8 squadre di serie A. Una stagione—un anno nella vita di un calciatore di Hattrick—dura quattro mesi. Ogni squadra ha anche le giovanili e si gioca una partita di campionato ogni settimana alle 12 e 30 circa (io ho smesso di giocare da qualche anno, ma come un ex-tossico per me il sabato alle 12 è il momento della partita di Hattrick e vorrei connettermi di continuo per sapere quanto sta facendo la mia squadra), si giocano i Mondiali di calcio, una sorta di Champions League, si vota l’allenatore della Nazionale (con un sistema, senza entrare nel merito, molto simile a quello usato dal M5S). Il punto è che, proprio come capita ad Henry, col tempo ci si affeziona ai propri calciatori nonostante non siano altro che pezzi di codice che non hanno neppure lo stesso nome dei calciatori in attività. E i programmatori di Hattrick sanno talmente bene quanto ci si può affezionare ai propri pezzi di codice che quando raggiungono l’età del ritiro e le loro abilità svaniscono, ti permettono di dargli un ruolo nell’organigramma della società. Luigi Massimo Toffolo ha giocato nella mia squadra fin dalle giovanili e quando si ritirò divenne “responsabile diritti televisivi” o qualcosa del genere. Un titolo solo onorifico perché poi nel gioco non aveva alcuna reale funzione, ma intanto un modo per tenere in vita quel pezzo di codice che altrimenti sarebbe svanito. Quando, al lavoro o a casa, non avevo nulla da fare e mi capitava di cliccare sullo spazio riservato alla hall of fame, lì ritrovavo le vecchie glorie care solo a me stesso, quei nomi e cognomi che non avevano mai significato nulla per nessun altro al mondo nemmeno per un istante, ma che mi avevano fatto compagnia settimana dopo settimana per anni e anni, veri e di Hattrick. Luigi Massimo Toffolo, Giovanni Colasanti, Alexis Volet. Quando ho abbandonato il gioco li ho cancellati. Chissà dove siete ora. In realtà l'hall of fame è una delle opzioni a pagamento di Hattrick—certe peculiarità disponibili sono pagando un piccolo contributo e che non aiutano a vincere ma rendono più avvincente l’attesa tra due partite—, un'altra consiste nel dare un volto ai tuoi giocatori. Scoprire, come fossero figurine, chi è biondo, chi bello, chi sorridente. È un tentativo elementare per farti affezionare ai giocatori e per fingere che non siano solo linguaggio html. Per quanto suoni assurdo mi tocca scomodare Levinas: “Nel semplice incontro di un uomo con l’altro si gioca l’essenziale, l’assoluto: nella manifestazione, nell’«epifania» del volto dell’altro scopro che il mondo è mio nella misura in cui lo posso condividere con l’altro”. Si finge, insomma, che Luigi Massimo Toffolo esista, e la cosa funziona anche. Ma qual è la differenza, allora, tra Luigi Massimo Toffolo e Chris Paul se di Luigi Massimo Toffolo conosco il volto e di Chris Paul neanche quello? Quando sono apparsi i primi giochi manageriali calcistici, negli anni ’80, i motori di gioco erano più simili a quello rudimentale di Henry che a quelli sviluppatisi negli ultimi 15 anni. Ricordo molto bene il primo gioco manageriale che abbia mai fatto—ho scoperto che si chiamava Football Manager anche se, sospetto, sulla mia cassetta venisse definito New Football Manager—, non poteva avere nomi di squadre o calciatori più lunghi di 8 lettere e cose tipo Casertana o Salernitana o Campobasso diventavano Casertna, Salrntna o Campbaso. Le partite non avevano durata fissa, variavano dai 5 secondi ai 10 minuti ed era pressoché impossibile salvare (almeno su un Commodore 64 a cassette). E anche gli stessi calciatori avevano nomi più simili a codici fiscali che a essere umani. Era bellissimo e io adoravo avere la febbre perché significava poter giocare partite molto lunghe, di quattordici ore, senza che nessuno mi spegnesse il computer. O senza dover nascondere il fatto che l’avrei lasciato acceso di notte. (Quanto tempo è passato lo vedo anche dal fatto che oggi lasciare un pc acceso di notte non sembra così inconcepibile.) È stato evidente fin dai primi videogame che gli utenti avrebbero gradito giocare con le squadre coi nomi “veri”. Ma non credo sia stato subito altrettanto evidente che anche poter simulare l’uso di calciatori con nomi veri sarebbe stato immediatamente gradito, e c’è voluto qualche anno in più per poterli manovrare. In certi casi abbiamo visto anche dei nomi leggermente storpiati per risparmiare e aggirare i diritti o la mancanza di qualsiasi regolamentazione. Ma alcuni di questi nomi di fantasia, per chi ci ha giocato e capisce cosa intendo, sono perfino più indimenticabili dei calciatori reali manovrati. L’enfasi che un telecronista giapponese di Winning Eleven dava ai gol segnati da un tizio che, nella mia trascrizione fonetica, suonava come "Eduso" li ricordo tuttora, quelli di qualche altro vivente col nome vero, no. Tuttavia, se oggi Football Manager viene considerato anche dagli addetti ai lavori una simulazione efficace e plausibile non dipende solo dall’impianto di gioco, dal motore e dalle situazioni offerte, ma anche dal fatto che i giocatori inseriti nel database rispecchiano i giocatori reali non solo nei nomi. Se El Sharaawy scopre che il suo tiro da fuori area secondo Football Manager è meno preciso di quello di Insigne—io penso sbaglino—ma forse El Shaarawy si domanda se è vero. E in molti ci credono. Anzi, si conta già più di un caso—Lukaku e Yaya Touré quelli più noti—di calciatori offesi coi valori assegnatigli dagli editor di videogame perché si ritenevano, nell’ordine, più veloci e più precisi al tiro. Diversi anni fa vivevo in una di quelle comuni case di studenti in cui la Playstation non lanciava giochi diversi da Pro Evolution Soccer e tra coinquilini e gente di passaggio si giocava ore al giorno. Ricordo che una volta un amico si divertì a usare l’opzione che permette di creare nuovi giocatori e realizzò una squadra attribuendo a ogni amico le caratteristiche richieste. Ne vennero fuori discussioni interminabili. “Davvero credi che io valga così poco nei lanci da lontano e nei passaggi lunghi?” “Vuoi dirmi davvero che Arnaldo crossa meglio di me?” O, perfino peggio: “Se hai una cosa che ti manca è la concentrazione e la freddezza”. Se infatti, ma vale per gli amici come per i professionisti, si possono ricostruire dei dati e dei criteri oggettivi per definire le abilità tecniche, il discorso si complica quando bisogna assegnare dei valori alle specifiche caratteriali e morali. L’aggressività, il carisma, il gioco di squadra, la disponibilità, il coraggio, chi stabilisce cosa siano e come si misurino? Al di là della plausibilità del gioco ho l’impressione che le resistenze che vengono fatte alle statistiche nei fantagiochi e alle trasposizione virtuali degli atleti abbiano qualcosa a che fare con l’iconoclastia. Così come per secoli delle persone sane di mente hanno pensato che fosse assurdo copiare qualcuno in una rappresentazione su un quadro perché ciò poteva trasformare quelle raffigurazioni in oggetti a sé stanti e toglieva qualcosa all’anima dei soggetti, credo che usare dei dati sulle abilità di un calciatore in un videogame o misurare le sue prestazioni secondo dati oggettivi sia una forma analoga di rubare qualcosa a qualcuno, non chiamiamola anima che è ridicolo, certo, ma qualcosa di intimo. Tuttavia anche la simulazione di un mondo di calciatori veri non ha scalfito la passione degli amanti delle simulazioni per calciatori inventati o pressappoco. Anche giocando in un mondo realistico come quello di Football Manager non è una scelta inusuale quella di partire dalla terza divisione inglese o dalla serie C italiana. E quelli sono giocatori veri, certo, ma insomma, se uno non è di Savona e sceglie il Savona, chi li conosce? Che i giocatori siano veri fa parte del contratto, è implicito, ma poi è una questione giusto fiduciaria: i giocatori cominci a conoscerli davvero solo giocando. Io ho sempre adorato la Third Division (Football League 2 oggi, sic) e portare in Premier il Torquay o l’Exeter, ma quale differenza fa che quei giocatori siano veri o falsi? In quel caso portare degli sconosciuti a tavola con i grandi è solo una proiezione di se stessi all’interno della simulazione. (È facile vincere se parti come José Mourinho allenando il Chelsea, il difficile è essere Arnaldo Greco e arrivarci col Dundee Utd.) Perché mi interessa che siano veri? L’unica risposta plausibile è, per me, che saperli veri mi dà un brivido in più. Non sono dei Luigi Massimo Toffolo. E io non sono come l’Henry del libro se perdo tempo con loro. E questo brivido lo devo al fatto che qualcuno li abbia trasformati in dati. Ciò che quindi rende davvero umani, ai miei occhi, quei calciatori di squadre sconosciute sono le loro caratteristiche: sapere cioè che esattamente come Lampard o Rooney anche quelli hanno numeri, sensibilmente inferiori, che corrispondono alla loro abilità nei passaggi o nell’interdizione o nel coraggio. Gli viene rubato qualcosa per dargli una vita. Il calciatore del Torqay accetta, più o meno consapevolmente, di perdere qualcosa di sé in cambio del fatto che io, perdigiorno che vive a migliaia di km da lui, possa affezionarmi al Torqay e a lui.

Esiste, insomma, un punto di incrocio più complicato. Perché mentre i giochi di simulazione rispecchiano—secondo interpretazioni arbitrarie, certo—semplicemente le qualità dei calciatori, i giochi manageriali devono, a fianco dei giocatori più abili e conosciuti o comunque al massimo delle loro potenzialità, inventare e pronosticare il futuro di un numero enorme di talenti. Freddy Adu, Mark Kerr, Tommy Svindal Larsen, Andri Sigþórsson, se qualcuno ha giocato a Championship Manager non può non conoscere questi nomi. Erano alcuni dei potenziali talenti del gioco e investire su di loro garantiva vittorie. Io immagino che Adu, Kerr, Svindal e Sigþórsson sapessero—anche nella loro vita non virtuale—quanto si puntasse su di loro. Dopotutto i programmatori del gioco non sono molto diversi da altri scout, a dire che Adu era forte e che avrebbe potuto spaccare non erano certo solo i programmatori, eppure il “fallimento” di Freddy Adu ha un peso diverso rispetto a quello di un carneade. Se hai giocato qualche volta a Championship Manager non puoi non volere bene a Freddy Adu, un bene immeritato, una simpatia immeritata, dovuta solo a pezzi di codice, non c’è dubbio, ma un bene reale. Eppure, nonostante mi sembrino sovrapponibili Freddy Adu e Luigi Massimo Toffolo (il tizio di Hattrick) non sono la stessa cosa. (Anche nelle simulazioni di gioco, non solo in quelle manageriali, accade qualcosa di simile. Chi ha giocato con una Playstation 1 ricorderà di sicuro Roberto Carlos con un affetto particolare perché non può dimenticare la diffusissima mossa, a volte vietata come la rullata a biliardino, di Roberto Carlos esterno d’attacco nel 3-4-3 solo per lasciarlo calciare bolidi dall’angolo sinistro dell’area di rigore. O del fatto che primo in assoluto abbia avuto una rincorsa “dedicata” in occasione dei calci di punizione.) I parenti più stretti dei numeri dei simulatori sono i numeri delle statistiche. Sono correlati. Senza fare troppo i pagliacci e sparare altri nomi di filosofi si può dire che gli uni in maniera oggettiva, le statistiche, gli altri in maniera soggettiva—per quanto al massimo dell’analiticità—i dati immessi in un computer, provano a restituire l’identità di un giocatore. Io temo che fino a quando non vedremo un centrocampista vincere un contrasto con la voglia di conquistarlo anche per le statistiche e non solo per il pallone non potremo credere davvero a certi valori. E la conseguenza immediata di ciò è che anche i nostri fantagiochi siano fondamentalmente limitati. Basta aver giocato un paio d’anni al fantacalcio e aver preso a poco prezzo e con disinteresse un giocatore poi rivelatosi decisivo per aver provato il desiderio di riprendere quel calciatore anche il successivo. Ma al di là dei pochi bonus sui gol, dell’asta che assegna un valore e quindi una relazione tra costo e risultato e dei voti—quelli sì, del tutto arbitrari dei giornalisti—il fantacalcio non offre particolari spunti e il gioco si limita ai cinque minuti del sabato per l’invio della formazione. I fantasy sport “americani” non sono, per l’appunto, così. (Quanto il baseball ha goduto dei computer che ne riportano le statistiche è incredibile visto quanto è fatto e finito per quegli “H” e “BA”). La mole di dati a disposizione è infinita e le possibili combinazioni di punteggio pure. Giocando poi molte più partite rispetto ai nostri standard anche le variazioni si sprecano. Nel fantanba che mi è più caro il punteggio di un giocatore scaturisce da un complicatissimo calcolo (mica una semplice somma) che tiene conto di punti segnati su tiri tentati da due e da tre, rimbalzi, assist, stoppate, palle recuperate, falli fatti e fatti subiti. Tutto rispetto al numero di minuti giocati in una partita perché a parità di cifre conti chi ci è arrivato in meno minuti. Il punteggio permette poi di punire troppi tentativi al tiro o altri “errori” con ulteriori malus perfino a seconda del ruolo in cui s’è giocato. Ciò comporta che sul sito si può restare a lungo e trovare statistiche di ogni genere per migliorare le prestazioni del proprio team dai simulatori dei risultati della prossima partita sulla base del calcolo delle ultime tre prestazioni realizzati dei tuoi alle classifiche dei giocatori del momento realizzate prendendo in considerazioni le scelte sulle compravendite delle decine di leghe esistenti con lo stesso numero di partecipanti della tua. Sono esigente con i miei giocatori? Sicuramente sì. Voglio bene ad Al Horford anche se, incontrandolo per strada, non saprei riconoscerlo? Più che altro mi sembra che il giocatore di football americano si sbagli e che con le cifre siamo sì esigenti, ma solo perché le cifre sono il veicolo dell’affetto che senza di esse non capiremmo.

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