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FantaIbra
12 giu 2017
Abbiamo immaginato 9 squadre in cui sarebbe bello veder giocare Zlatan Ibrahimovic il prossimo anno.
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Zlatan Ibrahimovic sembra prossimo a passare ai Los Angeles Galaxy, anche se sono tantissime le squadre che stanno provando a convincerle a sposare il loro progetto come un atto d'amore incondizionato. Dal Lecce all'Hertha Berlino, fino allo Zenit San Pietroburgo, che ha addirittura pubblicato una foto di Ibra con la maglia del club. Noi ci siamo divertiti a immaginare 9 ulteriori destinazioni che potrebbero accrescere il mito di uno dei giocatori che più amiamo.

Ibra alla Roma

di Emiliano Battazzi

“La Roma non ha un cartello su cui è scritto si vende, ha un cartello in cui c‘è scritto si vince”: quando aveva pronunciato queste parole, nella conferenza stampa di presentazione di inizio maggio, Monchi già sapeva tutto. Sapeva che la Roma non avrebbe rinnovato il contratto a Totti, e che sarebbe servito un campione per colmare quel vuoto di carisma, e addirittura per indossare subito la numero 10 lasciata dal Capitano. Monchi soprattutto sapeva che il destino gli aveva appena trovato una soluzione: il giorno prima di quella presentazione, Ibrahimovic era stato operato a Pittsburgh ai legamenti del ginocchio destro, e il Manchester United aveva già avvertito Raiola che non ci sarebbe stato alcun rinnovo di contratto. Re Zlatan al 30 giugno era diventato un parametro zero.

Dopo un burrascoso mese di calciomercato, in cui la Roma era stata costretta a vendere Salah e Paredes per esigenze di bilancio, a inizio luglio un’altra notizia tremenda per i tifosi giallorossi: Totti rifiuta il contratto da dirigente per accettare l’offerta di Zeman e diventare il capitano dei biancazzurri del Pescara, in una citazione in chiave contemporanea di Attilio Ferraris IV (che per dispetto passò alla Lazio). Il giorno dopo, un famoso quotidiano sportivo pubblica la foto a tutta pagina della dirigenza della Roma con la scritta “Indegni”, corredata da un editoriale di tale Max Thriller dal titolo “Monchi vattene”.

A quel punto, Monchi decide di accelerare una trattativa che durava da quasi due mesi con Mino Raiola, e si presenta a Miami, dove Zlatan sta proseguendo la riabilitazione: per convincerlo, il Ds spagnolo offre un ricco biennale, la maglia numero 10 e addirittura l’acquisto del Prof. Mariani e del suo staff, che dopo aver operato praticamente metà della rosa diventa finalmente un tesserato della Roma, ma a totale disposizione di Ibra.

Quando la Roma annuncia con un tweet l’arrivo di Ibra a Fiumicino si scatena il finimondo. A Fiumicino si riversano migliaia di persone (la Questura poi dirà addirittura 10mila), e per questioni di sicurezza il jet privato della coppia Ibra-Raiola viene fatto atterrare addirittura all'aeroporto militare di Pratica di Mare, dopo consulto con il Ministero della Difesa.

Con un elicottero, nottetempo Ibra viene condotto in località segreta della Capitale, si vocifera addirittura in una caserma.

Il mattino seguente, la Roma annuncia la presentazione di Ibra al Colosseo alle 20.45, trasmessa in diretta in tutti i paesi del mondo: con un complesso sistema di cavi e teli che ricorda il velarium della flotta di Misano, Ibra viene calato dall'alto con un fascio di luce ad avvolgerlo, mentre intorno è tutto spento, con in sottofondo EVERYTHING NOW degli Arcade Fire. Una volta "atterrato", Ibra mostra la sua nuova maglia, la numero 10 con una novità assoluta: sopra il numero non c'è scritto Ibrahimovic ma Zlatan Augusto. Ad Angelo Mangiante che lo intervista, Ibra risponde: "qui finora si è parlato sempre di re, ma con me la storia cambia: Roma è pronta ad accogliere il suo nuovo imperatore".

Nei giorni successivi le radio romane raggiungono il picco di ascolti, con molti speaker che accusano Ibra di essere "un bollito, ormai zoppo e che non ha mai vinto niente di rilevante in Europa a parte un portaombrelli".

Mentre i giallorossi allenati da Di Francesco si avviano alla prima partita del nuovo campionato, Ibra compra un complesso di ville all'Aventino e le trasforma in unica gigante mansion provvista di centro sportivo. Da lì prosegue la sua riabilitazione, senza mai farsi vedere a Trigoria.

Foto tratta da Un anno di Ibra.

Dopo tre sconfitte consecutive nelle prime tre partite, la panchina di Eusebio Di Francesco sembra già a rischio, e i giornali cominciano ad accusare il "fantasma Ibra". Lo svedese risponde pubblicando una foto su Instagram: in tunica e con il capo cinto da una corona di alloro, su un trono, Ibra mostra il pollice verso l'alto. La didascalia recita:"Zlatan Augusto ha deciso, Di Francesco non si muove".

Da quel momento la Roma inizia una striscia di risultati positivi che dura fino a novembre, quando Ibra è finalmente pronto a esordire. Si presenta a Trigoria per i primi allenamenti con il gruppo, ma Di Francesco lo inserisce nella squadra riserve. Colto dall'ira, Ibra viene alle mani con Strootman, che ha la peggio.

La partita successiva di campionato è a Torino contro la Juventus, prima in classifica con due punti di vantaggio. In conferenza stampa, di Francesco dice che Dzeko per lui è il titolare, perché ha capito bene i movimenti del suo 4-3-3 mentre Ibra si deve ancora abituare. A 10 minuti dalla fine, mentre si è sull'1-1, tocca a Ibra: a bordo campo Di Francesco gli fa vedere degli schemi su un foglio ma Zlatan spinge il suo allenatore per terra. È il 90esimo quando, a seguito di un calcio d'angolo, Ibra segna con un incredibile colpo di tacco a Buffon, remake dell'Europeo 2004. La Roma vince e va in testa al campionato, fino a diventare campione d'inverno. Durante un Angelus, anche Papa Francesco cita Ibrahimovic come esempio di perseveranza: nel frattempo la Roma rimane prima in classifica, ma con un solo punto di vantaggio sulla Juve, fino all’ultima giornata di campionato, a San Siro contro l’Inter. La partita è durissima, Spalletti dice ai raccattapalle di perdere tempo e finisce per litigare con Zlatan. A 30 secondi dalla fine, la Roma segna con un tiro da 40 metri di Ibra, un gol impossibile, che il numero 10 giallorosso festeggia mostrando la maglia a Spalletti. In tribuna Sabatini fuma contemporaneamente 5 sigarette, la Roma vince lo scudetto e al ritorno è di nuovo costretta ad atterrare a Pratica di Mare e a dormire una notte in caserma. è li che una moltitudine di dirigenti e impiegati comunali riesce ad arrivare, per consegnare ad Ibra timbri, codici e carta intestata del Comune di Roma. Il giorno dopo, Ibra pubblica un’ordinanza sul suo profilo Instagram, in cui si dichiara ufficialmente destituita la sindaca Raggi e proclama se stesso come unico reggente dell’amministrazione cittadina. Inoltre, indice 100 giorni di festa, avviando così la nuova Estate Romana: 100 giorni consecutivi di concerti al Circo Massimo, con apertura del Boss Springsteen. La sera stessa, una lettiga issata da centurioni attraversa ali di folla e viene portata fino al Campidoglio, dove solerti impiegati comunali hanno già provveduto a portare via tutto il materiale della precedente sindaca. Alle ore 21 Zlatan Augusto si affaccia dal balcone con la miglior vista del mondo, quella sui Fori Imperiali, e annuncia ai tifosi in festa che la squadra devolverà l’intero premio scudetto per il rifacimento del manto stradale in vari quartieri, e soprattutto che non dovrà più essere considerato calciatore ma divinità. Divo Zlatan Augusto.

Ibra a Napoli

di Emanuele Atturo

Nonostante sia uno dei giocatori più celebrati e amati della storia del calcio, Ibrahimovic ritiene comunque che la sua grandezza sia stata riconosciuta troppo poco. A pensarci bene è incredibile che un anno fa, quando chiese ai parigini di sostituire la Torre Eiffel con la sua statua, nessuno lo prese sul serio. A questo punto della sua carriera, a 36 anni, con al massimo una o due stagioni di buon livello davanti, Ibra dovrebbe decidere di andare in una delle poche città in grado di regalargli un amore finalmente all’altezza delle sue aspettative. Una città, quindi, capace di rispettare la sua mitomania: riconoscerla come qualcosa di perfettamente legittimo, se non persino giusto.

Napoli ha un sincero bisogno di elevare i propri migliori giocatori a eroi popolari, abituata ad affidare un ruolo messianico ai propri giocatori offensivi. Ibra vi troverebbe l’unico luogo in grado di nutrire il suo ego con del materiale di prima qualità: un amore incondizionato e totale, che lo farebbe entrare nella cultura popolare all’istante fino ai limiti della santificazione. Gli verrebbero intitolate strade, palazzi, spiagge e pizze. Un’intera generazione di napoletani verrebbe battezzata ‘Zlatan’: Zlatan De Luca; Zlatan Russo; Zlatan Coppola; Zlatan Buonocore. Tra i vicoli si sparpaglierebbero i suoi santini; il sangue rappreso di San Gennaro assumerebbe il volto ieratico di Ibra. Il suo livello iconico, incontrandosi con l’immaginario sacro napoletano, si ingigantirebbe fino a una dimensione mistica.

Scegliendo Napoli Ibra coglierebbe l’occasione per raccogliere la sfida dell’eredità di Diego Armando Maradona: l’unico giocatore in grado di portare lo scudetto a Napoli. Eguagliarne la leggenda rappresenterebbe uno dei pochi miglioramenti davvero tangibili alla sua immagine di vincente perfetto. Alla fine della sua carriera da conquistatore, del resto, dovrebbe capire che i trofei hanno un peso diverso a seconda di dove si vincono: «Io al San Paolo? Perché no, non si sa mai. Con lo United ho firmato per un anno con opzione sul secondo. Vedremo…» aveva dichiarato lo scorso anno.

E se Liberato fosse Zlatan Ibrahimovic?

Non c’è neanche da sottolineare che il Napoli, con Ibrahimovic schierato centravanti, diventerebbe la candidata più credibile per lo scudetto insieme alla Juventus. Certo, ci sarebbero alcuni problemi a integrare un cannibale dentro un organismo delicato come il Napoli di Sarri: abbiamo già visto a Barcellona i limiti di Ibrahimovic a scomparire dentro un sistema corale. Ma Sarri, da parte sua, ha dimostrato nel tempo di riuscire a cesellare il suo gioco, mantenendone l’identità profonda, assecondando comunque le qualità dei suoi giocatori migliori. Pensiamo a come è riuscito a valorizzare Insigne la scorsa stagione o Mertens in questa. Ibrahimovic da parte sua, a 36 anni, potrebbe adattare il suo gioco a delle doti atletiche più ridotte, facendolo diventare più essenziale. Nel Napoli di Sarri il gioco a muro del centravanti è fondamentale per guadagnare metri durante il palleggio, ma anche in fase di rifinitura (quest’anno Mertens ha messo insieme 9 assist). Non ci sarebbe neanche da ricordare, al pubblico italiano, un genio e una sensibilità negli ultimi metri di campo che Ibra ha mantenuto intatta fino a oggi.

Con Ibra in campo salterebbe un po’ la centralità della catena di sinistra nella costruzione del gioco del Napoli, ma questo potrebbe rendere più imprevedibili gli attacchi della squadra di Sarri, dandogli un copione in più. Mertens potrebbe proseguire il suo sviluppo migliorando ulteriormente il suo gioco senza palla, diventando un giocatore ancora più verticale, e potrebbe prendere il posto di Callejon e beneficiare della creatività di Insigne e Ibra per attaccare la porta negli spazi svuotati dallo svedese.

Ibra ha già dimostrato un feeling particolare con Napoli. Mentre altri giocatori hanno citato Gomorra come motivo per non accettare un trasferimento in città, Ibra pare si sia innamorato di Napoli anche grazie a Gomorra. Pochi posti al mondo lo farebbero sentire a casa come Napoli, e pochi giocatori si sentirebbero a casa a Napoli come Ibra.

Dopo la conquista del terzo scudetto della sua storia, quando Ibra chiederà una sua statua marina di 60 metri svettante sul golfo - sullo stile di quella degli Argonauti - i napoletani sarebbero davvero capaci di dirgli di no?

Riportando Ibra a Malmoe

di Marco d’Ottavi

There is no place like home. Anche se puoi permetterti una casa ovunque, ma pure un’isola o - volendo esagerare - un piccolo stato. Deve averlo pensato Ibra quando il Manchester United non gli ha rinnovato il contratto rendendolo di fatto lo svincolato più intrigante del mercato. Deve averlo pensato, e casa sua è a Malmö.

Se alla fine dell’avventura con il PSG aveva detto di essere troppo forte per il campionato svedese, dopo aver dimostrato di poter dominare anche in Premier League, Ibrahimovic restava ancora troppo forte per il campionato svedese, ma il suo cuore era pronto ad accettarlo. La scelta di firmare per il Malmö Fotbollförening è stata la scelta puramente emotiva di un uomo che ha capito che era arrivato il momento di chiudere alcuni cerchi della sua vita.

Non c’è stato neanche bisogno di annunciare un granché: un giorno a caso di luglio Ibrahimovic si è presentato al campetto di Rosengård, lo Zlatan court, con indosso la maglia numero 9 del Malmö e si è messo a giochicchiare con i ragazzi presenti. Non è servito dire altro, tutti hanno capito. Lo svedese ha continuato la sua riabilitazione nel ghetto che l’aveva cresciuto, dividendo il suo tempo tra esercizi per il ginocchio e lunghe chiacchierate con i residenti.

Nella sua autobiografia Ibrahimovic racconta tutti i problemi di un immigrato di seconda generazione: la sorella con problemi di droga, la madre accusata di furto, il padre ubriaco. Ma anche il suo carattere complicato, le biciclette rubate per andare ad allenarsi, le bravate, l’atteggiamento violento fin da bambino, tanto che i genitori dei compagni firmarono una petizione per mandarlo via dalla scuola calcio. Il ritorno a Malmö è servito ad Ibrahimovic a venire a patti con la sua infanzia turbolenta. Una volta tornato a casa non ha avuto più bisogno di dimostrare nulla, perché aveva già il rispetto di tutti.

Nel giro di qualche settimana si è liberato di Raiola, ha stracciato il precedente contratto con il Malmö, pagato dal fondo sovrano svedese, e ha firmato a zero. Non è più solo calcio, non conta più solo vincere: quella di Ibrahimovic è diventata una missione evangelica in un’Europa sempre più divisa.

L’esordio con il Malmö segna l’inizio di un nuovo Ibra, completamente diverso. Il suo gioco appare spogliato di tutta l’arroganza che lo aveva reso così forte. Diventa un giocatore minimale, sicuramente meno risolutore, ma incredibilmente più corale. Non a tutti piace questa versione, sembra un animale in gabbia, solo Guardiola se la ride di gusto. Dal canto suo ad Ibrahimovic non interessa: nei suoi discorsi parla di integrazione, multiculturalismo, unità. Passa la maggior parte del proprio tempo a catechizzare i bambini di Rosengård.

C’è un documentario dal titolo The road back che racconta la stagione 2000 del Malmö nella serie B svedese, la stagione in cui Ibrahimovic si presentò al mondo, a soli 19 anni. Alla fine diventa ovviamente un documentario su di lui, il cui carisma oscura già quello dei compagni. In ogni momento si capisce che gli stessi compagni lo odiano.

A 35 anni è tornato nello stesso spogliatoio per farsi amare da tutti. È l’ultimo tassello di una carriera straordinaria, non conta più il campo, non ha niente da dimostrare. Ibrahimovic è tornato a casa per diventare veramente un re.

Un dio per la Dea

di Daniele Manusia

Ok non è il passaggio più intuitivo per Ibra, ma ha senso. In un contesto in cui basta garantirgli un contratto all’altezza per portare la sua leggenda ovunque lo desideri, perché non pensare alle possibilità dell’Atalanta che, in fondo, gli offrirebbe la certezza dell’Europa League e un gioco già collaudato di alto livello? Considerando le cessioni già effettuate e spalmate in questa e nelle prossime stagioni di Caldara, Gagliardini e Kessié; i ricavi del nuovo stadio di proprietà; chi potrebbe dire al presidente Percassi che non può concedersi il lusso di portare Ibrahimovic a Bergamo per un anno, vendendo un altro paio di giocatori (Petagna e Conti) e reinvestendo direttamente 15 milioni nello stipendio di un anno di Ibra?

L’ambizione è un tratto del carattere umano troppo spesso accusata ingiustamente, accomunata all’arroganza, o all’egoismo. Ma da un certo punto di vista è anche una risposta all’impossibilità di stare fermi, di restare sempre uguali. E un rifiuto a tornare indietro, al decadimento, all’accettazione della resa. L’Atalanta è stata la migliore tra le squadre lombarde per la prima volta nella propria storia. È arrivata davanti al Milan. È arrivata davanti all’Inter. Anzi, a dir la verità, è arrivata davanti a tutti tranne Juventus, Roma e Napoli. Certo, non ha (ancora) la potenza economica delle rivali, ma perché non dovrebbe pensare in grande? Perché non dovrebbe pensare a una stagione ancora più grande di quella passata? Perché non provare a vincere un’Europa League in cui è arrivato in semifinale il Celta Vigo? Che cos’ha di più l’Ajax dell’Atalanta?

Dal punto di vista di Ibra avrebbe molto senso. La moglie e i figli potrebbero fare facilmente su e giù con Milano e lui troverebbe anche a una delle tifoserie più calorose e autentiche al mondo, una delle poche città in grado di prendere il suo ego smisurato e riportarlo a una dimensiona umana e durevole. Ibra avrebbe una città intera dietro di sé, un bel centro storico a cui pensare quando va sul dischetto con la palla in mano, ma una città in cui fare una vita normale, tra imprenditori e gente del popolo. Potrebbe godersi un altro tipo di grandezza, quello che gli è mancato finora. La grandezza di sentirsi una parte del tutto. Potrebbe, perché no, restare a vivere a Bergamo. Andare a caccia sulle Alpi Orobie, anziché sull’isola di sua proprietà. Riscoprire il piacere della compagnia, della vita comune.

Anche dal punto di vista tattico Ibra all’Atalanta makes sense. Il gioco di Gasperini per ora si appoggia poco al centro e il centravanti tocca palla per lo più nella trequarti avversaria. Ma al tempo stesso un gioco ricco di tagli profondi si sposerebbe bene con la tendenza di Ibra a venire incontro. Alzando la linea difensiva avversaria per gli inserimenti degli esterni, oppure del trequartista. O magari, chissà, anche di un secondo attaccante come Cornelius, o Paloschi. D’altra parte quando si arriva negli ultimi metri con la palla il gioco dell’Atalanta si fa poco rigido, c’è la ricerca del lato debole, degli inserimenti dei centrocampisti, i tiri da fuori di chi arriva a rimorchio, ma tutto questo non verrebbe esaltato dalla fantasia di Ibra? Dalla verticalità di Ibra? E Ibra stesso, non potrebbe smentire tutti quelli che dicono che all’interno di un sistema organizzato non avrebbe senso?

Altri argomenti a favore di chi pensa che l’Atalanta debba puntare a una nuova grande stagione con Zlatan Ibrahimovic centravanti:

Ha uno dei migliori allenatori italiani.

Ha uno dei migliori allenatori italiani, con un gioco corale e riconoscibile.

Ha uno dei migliori allenatori italiani, con un gioco corale e riconoscibile, indipendentemente o quasi dalle qualità dei giocatori a disposizione.

Ha uno dei migliori allenatori italiani, con un gioco corale e riconoscibile, indipendentemente o quasi dalle qualità dei giocatori a disposizione, in più ha il Papu Gomez.

Ha uno dei migliori allenatori italiani, con un gioco corale e riconoscibile, indipendentemente o quasi dalle qualità dei giocatori a disposizione, in più ha il Papu Gomez, ma il centravanti è Petagna che ha fatto solo 5 gol.

Ha uno dei migliori allenatori italiani, con un gioco corale e riconoscibile, indipendentemente o quasi dalle qualità dei giocatori a disposizione, in più ha il Papu Gomez, ma il centravanti è Petagna che ha fatto solo 5 gol, ma addirittura 7 assist.

Adesso immaginate il Papu Gomez in coppia con Ibra. Perché le squadre ambiziose non possono avere un solo leader offensivo.

Immaginate Ibra che aggancia al volo, in spaccata sospeso a mezz’aria tra i difensori avversari, una palletta profonda del Papu.

Il Papu che scatta su un filtrante no look di tacco di Ibra.

Il Papu che triangola con Ibra. Ibra che triangola con il Papu. Ibra e il Papu che triangolano con un giocatore X, e magari anche uno Y, che si inseriscono da dietro e vengono messi davanti al portiere avversario.

Se Petagna ha fatto 7 assist e 5 gol, cosa può fare là in mezzo Ibrahimovic?

Adesso chiedetevi: chi siamo noi per dire no a uno scenario di questo tipo? Quali sono gli ostacoli a un’unione così naturale, e giusta? Chi di voi non vorrebbe vedere l’Atalanta in finale di Europa League con Ibrahimovic in campo. La sua prima finale europea.

Vamos a Las Palmas

di Daniele V. Morrone

Quando ha letto la notizia del mancato rinnovo di Ibra allo United - letta su un giornale che stava svogliatamente sfogliando su una spiaggia de las Canteras - Kevin-Prince Boateng si è fiondato immediatamente per recuperare dallo zainetto lo smartphone, e dopo aver cercato il gruppo whatsapp che condivide con i compagni più stretti del Las Palmas, ha copiato il link che rimandava al video del “gol dell’anno” realizzato qualche mese fa, di cui avevano parlato ancora pochi giorni prima.

Poi ha incollato il link nella sua chat privata con Ibrahimovic, a cui ha fatto seguire una foto del mare - scattata in quell’istante dalla sua sdraio - il messaggio: “Zlatan, qui si sta da Dio e guarda che gol. Manchi solo tu. Vieni a fare la storia delle Canarie”.

Dopo di ché Boateng è tornato ad oziare soddisfatto, coccolato dal ritornello di “despacito” in sottofondo. Il suo contributo per mettere in moto la macchina era stato fatto con tempismo, ora stava solo a Ibra fare la sua mossa.

È innegabile che Zlatan abbia un conto in sospeso con la Liga spagnola, una competizione che ha vinto ma non da protagonista, e che, soprattutto, ha lasciato in tutta fretta dopo gli ultimi tormentati mesi del suo rapporto con Guardiola a Barcellona. La soddisfazione di poter ancora fare il bello e cattivo tempo contro le difese della Liga (dimostrando agli scettici di poter reggere il ritmo di Messi e Cristiano), ma anche la possibilità di segnare un gol al Camp Nou e zittire chi l’aveva fischiato ormai tanto tempo fa, lo avevano spinto a scegliere di tornare in Spagna. In fondo a lui bastava trovare una squadra che gli pagasse l’ingaggio per un anno.

Nel momento in cui Boateng invia quel messaggio, Zlatan deve ancora riprendersi dal brutto infortunio al ginocchio e non sarà al 100% per ancora qualche altro mese. L’idea, quando sceglie il Las Palmas, è anche quella di recuperare la forma alle Canarie - dove, si sa, è più semplice e piacevole - e arrivare a giocarsi l’ultimo grande torneo della sua vita al Mondiale in Russia nel 2018. Questo perché, messo di fronte alla possibilità di un addio per via della scelta di Mourinho e del Manchester United, Ibrahimovic ha scelto di seguire la massima when in trouble, go big: parlando con il selezionatore della Nazionale svedese Jan Andersson e facendosi assicurare che, se integro fisicamente, gli avrebbe riaperto le porte della squadra svedese. Così, Ibra ha annunciato al tempo stesso il ritorno in Nazionale e il passaggio al Las Palmas. A life in yellow, è stato scelto come slogan della sua campagna marketing (a cui era legata anche la nuova collezione del suo marchio di abbigliamento sportivo, per l’occasione ripensata sui toni del giallo e arancione).

In fondo quelle stesse spiagge da sogno, il clima sempre perfetto e l’assoluta mancanza di pressione ambientale - unite a un trattamento regale - sono state il segreto della rinascita della carriera di Boateng. Ibra ha potuto tornare in forma con calma e intanto riflettere alla sua vita successiva al calcio. Legandosi a doppio filo alla sua nuova vita canarina.

Post-calcio che può comprendere la futura costruzione dell’hotel “Zlatan” che vediamo qui rappresentato in un modello in scala 1:1.

Visto il periodo di transizione per Ibra il fuori dal campo è stato fondamentale, ma non bisogna dimenticare cosa significava il Las Palmas dal punto di vista calcistico e cosa significava per il Las Palmas avere a disposizione Ibrahimovic.

Il Las Palmas con Ibra è diventata forse il caso di studio più interessante per la recente storia del marketing nella Liga: una squadra “simpatica”, ricca di giocatori cresciuti in casa, che gioca un calcio di posizione eseguito in modo naturale e pulito pur mantenendo una tecnica di strada barocca, tipica del calcio canario, e che si è specializzata nello scovare giocatori di livello da rilanciare.

Una squadra che non accetta compromessi essendo marcatamente offensiva, una squadra umorale come Ibra stesso, capace di passare da un periodo positivo in cui è in grado di segnare e mettere in difficolta chiunque, candidata credibile all’Europa come è stata per parte della stagione 2016/17, a un periodo negativo in cui subisce gol da tutti e permette alle partite di raggiungere l’over nell’arco dei primi 20 minuti.

Una sicurezza, se si vuole promuovere un calcio divertente, di intrattenimento. Uno spettacolo irresistibile, se in attacco possono incrociare le proprie mosse Ibrahimovic, Kevin Prince Boateng e Marco Livaja.

Il Las Palmas con il suo gioco può mettere Ibra in condizione di segnare minimo 5 gol di tacco in 6 mesi.

Ibra è il più incredibile giocatore da strada in circolazione e il Las Palmas è la squadra che più di tutte esalta giocatori così unici però in un contesto organizzato. Vederlo inserito in un contesto in cui viene incoraggiato ad esibirsi, esaltando i suoi numeri davanti a dei tifosi che ne capiscono immediatamente la lingua calcistica, è forse la cosa più bella di questo passaggio.

Ibra che può prendersi la sua vendetta in un campionato che non l’ha capito, nel posto in cui più di tutti verrebbe capito. Ibra portato in trionfo per quello che è che rappresenta più nel profondo, senza neanche più l’ossessione per la vittoria a tutti i costi.

Make Ibra Great Again

di Fabrizio Gabrielli

L’infortunio drammatico e l’insistenza, da parte di Mino Raiola, nel cercare di tenerlo lontano dalla Terra delle Grandi Opportunità si sarebbero potuti tradurre in una Sant’Elena triste, solitaria e finale: ma Ibra è testardo e se decide di imporre i suoi propositi imperialistici, ecco: semplicemente non ce n’è. «Forse dovrei fare quello che non è riuscito a Napoleone», aveva dichiarato lo scorso novembre: «attraversare l’oceano e conquistare gli States come ho fatto con qualsiasi altro Paese in cui ho giocato».

Il flirt tra Ibra e la MLS è una storia annosa: ogni estate, impegnato in tournée americane con le più iconiche squadre europee, puntualmente si è presentata l’occasione per ribadire l’inevitabilità di una condizione destinata a realizzarsi. Ai tempi del PSG disse «sono venuto qui l’ultima volta 10 anni fa e il calcio non era al livello di oggi. Va nella direzione giusta e voglio che sia al livello dell’Europa». I Los Angeles Galaxy, i suoi corteggiatori storici, gli hanno sempre promesso compensi stratosferici, fuori dalla portata di ogni precedente giocatore della Lega. Los Angeles ha una forte portata immaginifica: c’è Hollywood, con tutto quello che significa, e calcisticamente si porta dietro una voragine di carisma lasciata dagli addii di Robbie Keane e Landon Donovan che Gio non ha mai saputo del tutto riempire, nonché una narrativa piuttosto vincente da perpetuare.

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«Che ne pensi di Landon Donovan?». «Chi???». L’approccio giusto per conquistare LA.

Ma alle divinità non serve essere ricoperti d’oro. Vogliono solo che la loro famelica brama di vittorie sia soddisfatta. «Se arrivo, voglio portare risultati», chiosava in quella stessa intervista Ibra. «Sennò non vengo. Io gioco per vincere, è questo il mio lavoro».

Il 10% della popolazione del Minnesota, secondo il Censimento del 2000, è costituita da cittadini di discendenza svedese. Minneapolis, negli anni ‘20, era la terza città al mondo con più svedesi dopo Stoccolma e Chicago. La squadra di football ha un vichingo nello stemma, e poi ci sono conifere, sterminate pianure innevate, fiumi ghiacciati: uno scenario che racchiude in un’immagine l’immarcescibilità della terra e lo spirito selvaggio degli elementi della natura. Lo scenario perfetto per Zlatan, la crasi delle sue origini e delle proiezioni future.

L’annuncio del suo ingaggio da parte del Minnesota United FC avviene con un video di trenta secondi sull’account Twitter ufficiale della franchigia di MLS: un SUV guida a velocità sostenuta lungo il corso ghiacciato del Mississippi, fin quando arriva - in limine all’alba - alle porte di Minneapolis, che riluce in lontananza. Dal SUV esce una figura statuaria: indossa pantaloni mimetici e un parka, dal quale fuoriesce la maglia argentea dei Loons. L’inquadratura si stringe su Ibra, che sussurra «Let’s do it». Facciamolo.

Zlatan + neve, ed è subito saga più o meno norrena.

L’esordio al nuovissimo impianto Minnesota United FC Stadium, ribattezzato ufficialmente Volvo Arena e amichevolmente Zlatan Arena, è fissato per la prima giornata della nuova MLS, in Marzo. Zlatan, pienamente recuperato a tempo record dall’infortunio, indossa la maglia numero 10: intorno a lui dieci ragazzini, provenienti dal programma di homegrown, messi sotto contratto al minimo salariale dal momento che lo stipendio di Ibra copre quello dei tre Designated Players destinati a ogni franchigia (più il monte ingaggi di metà del resto della squadra). Alla prima conferenza stampa, in una dimostrazione di egotismo socialista di chiaro stampo scandinavo promette di condividere con i compagni, in caso di vittoria della MLS Cup, il suo ingaggio.

I "Loons" crolleranno solo nel mese di Giugno, letteralmente, quando il loro principale pilastro volerà in Russia per disputare un Mondiale che nessuno, tantomeno la sua Svezia, avrebbe voluto saltasse.

Come Paul Bunyan e il suo fido bovo blu fecero con la geografia, allo stesso modo Ibra nel giro di un anno ridefinirà la geopolitica calcistica yankee portando Minnesota sul tetto degli States.

Perché se Ibra dice che vuole vincere, ecco: normalmente, Ibra, poi vince.

Totalmente Ibra

di Emanuele Atturo

La narrazione di Ibrahimovic è tante cose, ma senz’altro non è una storia di ritorni. La sua carriera è stata una sequenza ininterrotta di successi e fughe. La personificazione del motto romano Veni Vidi Vici. Ibra arriva in una squadra, ne colonizza l’identità tattica, porta i trofei e riparte per un’altra città che ne potrà rinnovare la leggenda.

Ibra, però, è anche tra i pochi giocatori ad aver lasciato un ricordo memorabile in tutte le squadre in cui ha giocato. Non c’è un club che non ha avuto nel Periodo-Ibra uno dei migliori della propria storia recente. Non c’è squadra, forse, che non lo riaccoglierebbe a braccia aperte. Non solo per i benefici tecnici che ne trarrebbe, ma anche perché sarebbe una testimonianza d’amore a suo modo unica, un privilegio, dato che viene da un calciatore che ha costruito la propria immagine sulla propria non esclusività.

Il ricordo.

Ibrahimovic è forse arrivato al punto della sua vita in cui vale la pena riflettere se legare la sua immagine a un club più che a un altro. Tra tutti i club in cui è stato l’Ajax non è solo uno di quelli più ricchi di tradizione, ma anche forse l’unico che gli garantirebbe ancora una centralità tecnica: all’Ajax Ibrahimovic si metterebbe alla testa di uno dei gruppi di giovani più interessanti a livello europeo, ne sarebbe la chioccia e il primo riferimento tecnico. Li aiuterebbe a competere a livello continentale e a riconquistare una supremazia in patria che manca da due anni.

In Eredivisie, un campionato dove l’ultima classifica marcatori è stata vinta da Nicolai Jorgensen, Ibrahimovic sarebbe semplicemente illegale. Le sue combinazioni tecniche con giocatori come Younes, Ziyech o Justin Kluivert diventerebbero pura realtà virtuale nel contesto olandese. Insomma, potrebbe continuare a far parlare di sé, dell’assurdità dei suoi gesti tecnici, nelle compilation settimanali: un lusso che contesti di livello più alto non gli permetterebbero.

Dentro l’Ajax, Ibra potrebbe lavorare con eleganza sulla propria legacy - da cui sembra piuttosto ossessionato - associandola a un club non solo fondamentale nella storia del calcio, ma anche per essere il baluardo di un calcio corale di cui Ibra è sempre stato la nemesi. All’Ajax l’immagine di Ibra si smusserebbe, ne uscirebbe come un giocatore più umile e attaccato al gioco del calcio e meno al proprio ego.

C’è però un’altra ipotesi. L’Ajax è tuttora senza panchina e lì Ibra potrebbe anche cominciare la propria vita oltre il terreno di gioco: Ibrahimovic allenatore-giocatore per un anno. Ibrahimovic che si toglie la tuta e si auto-inserisce per risolvere le partite; Ibrahimovic che istruisce i giovani biancorossi tra campo e panchina.

Una delle poche cose che accrescerebbe ulteriormente il suo mito, la sua immagine di unicum della storia del calcio.

Inter

di Dario Saltari

La cessione di Icardi arrivò per i tifosi dell’Inter come il ritorno di un incubo. #InterIsComing, si era detto, e invece sembrava essere tornati agli anni ‘90, col Milan a spendere e spandere, e l’Inter a sottostare ai freddi vincoli finanziari del Fair Play finanziario.

Ma al di sotto delle paure dei tifosi, l’Inter si stava muovendo davvero. Non aveva ceduto Icardi per i dettami dell’UEFA, ma per diretta richiesta del suo nuovo allenatore: Luciano Spalletti non apprezzava quella punta così ossessionata dal gol e così poco dal gioco della sua squadra, voleva qualcosa di diverso.

Anzi, mettiamola così, quando Spalletti aveva saputo che il Manchester United non avrebbe rinnovato il contratto ad Ibrahimovic gli si erano illuminati gli occhi. Esiste un giocatore più creativo, associativo, fisico e decisivo di Ibrahimovic? Era per quello che era venuto a Milano, pensò Spalletti, per avere la possibilità di allenare giocatori come Zlatan.

La società fu convinta in maniera abbastanza semplice: certo, c’era da superare lo scetticismo iniziale dei tifosi, per aver iniziato il mercato con una cessione così importante, ma non si poteva far tornare Ibrahimovic senza prima vendere una figura ambigua come Icardi. Tenere i due nello stesso spogliatoio, con il pericolo che Icardi finisse in panchina, o peggio all’ospedale, era comunque troppo pericoloso, e la situazione sarebbe potuta diventare esplosiva anche con i tifosi, che con lo svedese non si erano lasciati benissimo.

E infatti la reazione del pubblico interista al ritorno di Zlatan fu piuttosto fredda, e anche Spalletti fu criticato fin da subito, per aver ceduto una delle punte più promettenti in circolazione in cambio di un campione in declino, proveniente da un grave infortunio al ginocchio, per di più. Così, per difendersi, il tecnico di Certaldo arrivò addirittura ad autocitarsi: «Se a Roma mi avessero chiesto che attaccante volevo, avrei risposto Ibra». Alla prima di campionato, durante la lettura del nome dell’allenatore da parte dello speaker, qualcuno lo fischiò. A Milano ricominciava dal punto in cui aveva finito a Roma, in un certo senso.

Ma per Spalletti il problema principale con Ibra fu quello di inserirlo a metà stagione. Nella prima parte di campionato Spalletti aveva adattato con sorprendente successo Eder come prima punta nel suo 4-2-3-1, l’italo-brasiliano era apparso in forma smagliante e perfettamente a suo agio con i movimenti del falso centravanti. In pochi mesi aveva accumulato assist e passaggi chiave e mano a mano che si avvicinava il ritorno di Zlatan in campo erano sempre più i tifosi interisti preoccupati per un’eventuale rottura dell’equilibrio tattico raggiunto. Dopo tanta instabilità finalmente l’Inter aveva un gioco, e Ibrahimovic non era visto come un’opportunità di miglioramento. Oltretutto, nell’inconscio del tifoso interista l’idea che la Champions League di Mourinho fosse arrivata proprio l’anno successivo alla cessione di Ibra era ancora troppo radicata: se avevano già vinto tutto senza di lui, che bisogno c’era di farlo tornare sette anni dopo?

Il ritorno in campo effettivo di Zlatan avvenne i primi di dicembre, con l’Inter incredibilmente prima in classifica ad un punto dalla Juve, ma altrettanto incredibilmente in difficoltà contro una SPAL agguerrita che a San Siro è riuscita a portare il risultato sul 2-2 a inizio del secondo tempo. Il suo ingresso avviene in un clima quasi spettrale, inedito per uno abituato ad accoglienze regali come Ibrahimovic. Lui stesso sembra essere sorpreso: appena entrato si ferma con le mani sui fianchi a guardare la Curva Nord, scuotendo la testa. In campo sembra ancora macchinoso, forse è anche ingrassato e l’elasticità di un tempo sembra sparita. All’ultimo minuto di recupero, però, appoggia in rete un cross al bacio di Candreva che permette all’Inter di rimanere in testa. Esultanza polemica con braccia larghe e sguardo che abbraccia uno per uno e tutti insieme i tifosi interisti.

A fine partita gli chiedono come si è sentito al suo ritorno in Serie A e lui, sorprendentemente, risponde accigliato: «Se mi avessero fatto entrare prima, l’Inter non avrebbe avuto tutti questi problemi». Nel post partita, pressato sulla questione da Panucci, Spalletti risponderà con un sorriso beffardo: «Deve ancora imparare i giusti comportamenti…». Il giorno dopo la Gazzetta titola: «Ibra – Spalletti 3-2».

Da quel momento in poi il duello tra Zlatan e Spalletti diventerà il tema mediatico dominante dell’Inter, e delle Serie A. Ibrahimovic continuerà a venire utilizzato come super-panchinaro, a volte anche solo per gli ultimi 5, 10 minuti, non riuscendo sempre ad essere decisivo. Ma ogni volta che ci riesce, lo sguardo è rivolto alla panchina, con labiali fin troppo facili da leggere. Il pubblico nerazzurro di spezza a metà: chi vorrebbe vedere in campo Ibra, sempre e comunque, chi si fida di Spalletti per vincere lo Scudetto o tornare in Champions League. L’Inter di Spalletti finirà il campionato seconda, con la Roma dietro di 1 punto e la Juve davanti di 5, e a fine stagione Ibrahimovic annuncia di non voler rinnovare con i nerazzurri.

Ma chi si aspettava il ritiro, o una pensione anticipata in Cina, o in Qatar, sarebbe rimasto sorpreso. Incredibilmente Ibrahimovic decide di passare dall’altra parte della città, tornando a vestire le strisce rossonere, dichiarando il giorno della presentazione: “Questa è la squadra di Milano che ho sempre amato”.

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