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FantaGiubileo
09 dic 2015
Scottano le panchine di Rudi Garcia e Stefano Pioli. Ma chi potrebbe allenare la Roma e la Lazio?
(articolo)
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Sampaoli alla Roma

di Fabrizio Gabrielli (@conversedijulio)

Se Jorge Sampaoli accettasse il timone della Roma, l'ultima delle sue preoccupazioni sarebbe di che colore ridipingere i muri di Trigoria (anche se probabilmente è lì che trasferirebbe il proprio domicilio): tra il Maestro e l'allievo, è Bielsa quello che disegna crepe con la poesia: Sampaoli le stucca con il pragmatismo.

Gli argentini, per loro natura, sono profondamente comunitari: utilizzano un detector platense che suona quando riscontra appartenenza per sondare terreni, farsi consigliare, capire la cosa da fare è la cosa giusta per loro. Si muovono affidandosi a una specie di TripAdvisor emozionale albiceleste.

Oltre al suo vate più volte a un passo piccolo così dal sedersi sulla panchina giallorossa, forse Sampaoli chiamerebbe tutti gli argentini passati per l'Urbe per cercare di capire—provarci almeno—in quale cul-de-sac si stia avventurando. (Anche se dalla chiacchierata con Burdisso potrebbe non uscirne propriamente rincuorato, lui che fa della dedizione in allenamento uno dei suoi capisaldi).

Mettere a fuoco termini come pressing aggressivo e indomabile, disciplina, movimenti turbinosi senza palla, verticalità, immaginandoli cuciti sulla pelle dei giocatori della Roma per come li stiamo vedendo negli ultimi tempi appare un'utopia. Ma com'è che diceva Eduardo Galeano? «L'utopia è come l'orizzonte: cammino dieci passi e si allontana di dieci passi. L'orizzonte è irraggiungibile. E allora a cosa serve l'utopia? A continuare a camminare».

Per riconquistare quella voglia di camminare propedeutica alla corsa sfrenata, Sampaoli in prima battuta si affiderebbe al suo 3-4-3 di riferimento, magari nascondendolo sotto lo scalpo di lupo del solito-vecchio-4-3-3™; disegnerebbe una linea difensiva con Florenzi e Digne liberi di affondare sulle fasce (e convergere verso il centro quando i mediani saranno chiamati a spostare la gittata della loro propulsività in attacco; per questo sulla sinistra potremmo anche assistere all'infiorescenza di un inedito, ma non impossibile Iago Falque più indottrinato alla fase difensiva) e Manolas e Castán nella zona centrale, tra i quali però si incuneerebbe spesso, diventando il vero regista arretrato e primo motore del gioco, De Rossi.

Certo, al centrocampo della Roma mancherebbe un Charlie Aránguiz: se Sampaoli considera il cileno così insostituibile è perché concentra in sé le caratteristiche che normalmente in una squadra—e i giallorossi non fanno eccezione—sono più uomini a portare in dote. Strootman e Pjanic, per esempio, avrebbero pure la predisposizione alle verticalizzazioni, ma non il dinamismo esplosivo (per quanto confusionario) di un Nainggolan, e viceversa. Inadatto ai compiti che Sampaoli chiede alle sue mezzali, il bosniaco potrebbe reinventarsi vertice basso del tridente offensivo, una specie di rivisitazione balcanica dell'estroso "Mago" Valdivia, e dedicarsi all'innesco di una coppia d'attacco pronta a puntare la profondità aggirando i difensori alle spalle, partendo larga. In questa faretra i giallorossi hanno più di una freccia: Salah o Gervinho sarebbero perfetti, e potrebbe tornare in auge addirittura Iturbe, che Sampaoli potrebbe assurgere a personalissimo niño maravilla.

Anche se in nessuna delle squadre che ha allenato nell'ultimo decennio c'è mai stato un attaccante con le sue caratteristiche, questo non significa che Dzeko sia incompatibile con il gioco proposto da Sampaoli. Potrebbe utilizzarlo come faro terminale di un 4-2-3-1 (per Sampaoli i moduli tattici sono tutt'altro che un feticcio, ha spesso dimostrato una discreta inventiva nell'adattare i suoi schieramenti, anche a partita in corso), pronto ad abbassarsi per ricevere palla e permettere agli esterni di affondare negli spazi creati dal risucchio dei suoi movimenti accentranti, un po' alla maniera in cui Bielsa utilizzava Llorente nell'annata strepitosa del suo Athletic.

Distaccarsi dai propri mentori, smettere di viverne la vita in copia carbone, si sa, è sempre compiere un parricidio: qualcosa di tremendamente difficile. A Sampaoli, stavolta, semplicemente basterà evitare di incontrarsi con Sabatini su una panchina di Madrid.

E chissà che non possa essere lui l'uomo giusto per insegnare alla Roma che è solo sostituendo la corsa ai passi che la linea d'orizzonte, e l'utopia, diventano mica poi così irraggiungibili.

Bielsa alla Lazio

di Fabrizio Gabrielli

Certo che con due argentini sulla panchina delle squadre della capitale—se è vero che quando Burdisso è andato alla Messa dell’alba a Casa Santa Marta gli ha chiesto: «Ma l’hai portato il pallone?»—Bergoglio diventerebbe un habitué dell’Olimpico: l’Italia del pallone, libera dagli obblighi d’etichetta della celebratività one-shot-only, avrebbe finalmente un periodo di tempo più lungo per esercitare la sua skill migliore, vale a dire smontare, demitizzare pure Bielsa (la filosofia che ci sia una «sconfitta che serve e una vittoria che non serve a nulla» qua non ha mai trovato un gran terroir sul quale attecchire, da noi, a differenza del Cabernet-sauvignon).

Il cambiamento, per i biancocelesti, avrebbe una portata sismica tra l’ottavo e il nono grado della scala Mercalli-Cancani-Sieberg, perché ci sarebbe bisogno di un ripensamento di schemi e strategie, ma soprattutto di approccio, non apocalittico, ma decisamente invasivo. I giocatori si troverebbero a dover passare dal piolismo, con quel suo chincagliare quasi scolastico (che non significa inefficace) di catene laterali, al bielsismo, che è assai di più di un 3-3-3-1: è tutto ciò che era il piolismo, e cioè recupero palla alto, sovrapposizioni, scambi tra gli esterni, cross, ma anche, in aggiunta, verticalità, attacco della profondità, movimenti dall’esterno verso il centro e tra le linee durante le transizioni offensive. Ci vorrebbe una condizione atletica, e una tenuta mentale, che al momento la Lazio non ha, e forse l’innesto del Loco in corso d’opera non riuscirebbe neppure troppo a infondere.

«Resistete all’ingiustizia» è in fondo un discorso abbastanza laziale.

Però potrebbe essere interessante ritrovare Biglia playmaker arretrato (l’ha fatto anche con Pioli), vertice alto del rombo di difesa a 3 che in Hoedt e de Vrij avrebbe due interpreti perfetti per il gioco difensivo bielsista; Candreva e Felipe Anderson non avrebbero particolari problemi a partire da mezzepunte esterne per tagliare verso il centro, con Parolo—o Milinkovic-Savic, se dovesse servire peso specifico più che propulsività—nel ruolo di incursore e uomo dell’imbucata, dell’ultimo passaggio filtrante per la punta centrale, Klose o Djordjevic.

Ma soprattutto sarebbe magnifico se Bielsa e Sampaoli si trovassero per un periodo più lungo del fine settimana nella stessa città, insieme: il quartiere Prati è perfetto per fare le tre del mattino a tavola, a parlare di schemi, e idee, e del pantone scelto per le mura di Formello.

Capello alla Roma

di Emanuele Atturo (@Perelaa)

In una notte di giugno del 2004 Fabio Capello partì da Roma in silenzio, a bordo di una Mazda nera con i bagagli legati fino al tettuccio. Una scena di una drammaticità da feuilleton tipicamente romanista: «È convenuto a tutti. Per la Roma ero diventato un peso tecnico ed economico. Era chiaro da tempo che le risorse economiche della società non avrebbero potuto garantire un futuro ad alto livello alla squadra». Era Fabio Capello a essere un traditore o la Roma che era inadeguata per le sue ambizioni? È un dubbio con cui i tifosi della Roma convivono e che è l’altra faccia dell’arroganza, del romanocentrismo, del senso di predestinazione.

Se è vero che la vittoria è il destino della Roma, a sopportare il peso di questo destino servono uomini forti, all’altezza. Persone che si guadagnano il rispetto dell’ambiente evitando le sue trappole: criticandone apertamente i difetti, usando la cinghia, dimostrando su di esso un principio di autorità. «A Roma bisogna mantenere un po’ di distacco perché è una città ammaliatrice. È una piovra che ti prende e poi ti addormenta. Se tu non hai capito questa cosa, sei finito».

Fabio Capello è ancora oggi il simbolo del breve periodo in cui la Roma è riuscita a uscire dalla propria dimensione minore per abbracciare il suo “destino storico”. Dopo di lui in tutti gli allenatori si è ricercato il profilo dell’uomo forte, appiccicandolo anche sui personaggi meno indicati, con effetti spesso patetici.

Virgilio Monosilio è uno speaker romano con precise simpatie politiche.

Tutti i tifosi della Roma parlano ancora di Capello con l’affetto discreto che si tributa agli amori più grandi di noi. L’episodio della fuga di notte viene ricordato col sorriso, come una ferita che in fondo ha finito per legarci a lui ancora più in profondità. Inutile dire che un suo ritorno farebbe contenta la piazza, che ancora lo considera come una figura ai bordi della mitologia: l’unico in grado di vincere, l’unico capace di mettere da parte tensioni e divisioni. Fabio Capello è stato per la Roma, per certi versi, ciò che Tito è stato per la ex Jugoslavia.

Capello non allena un club da quasi 10 anni: l’ultimo fu il Real Madrid della stagione 2006/2007. È possibile comunque immaginare alcune scelte che prenderebbe per mettere un minimo d’ordine nella polveriera tattica della AS Roma. Nel suo 4-3-1-2 Maicon innanzitutto non vedrebbe MAI più il campo. Rüdiger verrebbe sottoposto a un disciplinamento marziale diventando forse quello che Zebina non è mai stato (cioè un centrale forte, veloce E affidabile). Iago Falque verrebbe usato con le stesse funzioni di Marco Delvecchio, permetterebbe: lavoro di fatica, equilibrio, la panchina di Mohamed Salah, pronto a subentrare per spezzare le partite come faceva Vincenzo Montella. Pjanic sarebbe il centro del sistema solare della squadra, giocando magari la palla più velocemente in verticale per i movimenti delle punte. Uçan sarebbe la perfetta replica dell’affascinante esotismo di Nakata, anche lui misurato su un minutaggio che lo mantenga sempre al massimo dell’efficacia.

Capello sembra per certi versi un allenatore di un’altra epoca. Eppure a Roma la sua eventuale arretratezza tattica, più che un difetto, sarebbe considerata una garanzia di quadratura e autenticità. Nessuno può più permettersi vezzi. Conta solo vincere, costi che quel che costi.

Mazzarri alla Roma

di Daniele Manusia (@DManusia)

Partiamo dal cortocircuito che creerebbe un allenatore, a torto o ragione, vittimista e con un karma, diciamo, non vincente, che arriva in una città anch'essa vittimista a cui però piace credere (almeno ai romanisti) in una specie di predestinazione alla vittoria storico/geografica mai pienamente realizzata. A mio avviso l'aspetto più discutibile della gestione Garcia è stata proprio la manipolazione di queste energie uguali e contrarie, parlando di destino e giocando, di fatto, con il fuoco di una tifoseria che ha bisogno di tutto tranne di profeti. Anche perché se lo scopo era affondare insieme, a quel punto tanto valeva farlo sulla nave ideologica, nichilista, paranoica, passatista e kamikaze di Zeman, che meglio si adatta allo spirito profondo della città, o no?

La classe conterà pure qualcosa dopotutto.

E se cito il Boemo insieme a Rudi Garcia per parlare di Mazzarri è perché se c'è una cosa che mi sembra sia diventata chiara negli ultimi anni è che alla Roma non serve un allenatore vincente, ma uno che sappia perdere. Uno disposto a prendersi le proprie responsabilità, a riconoscere i propri limiti e quelli della rosa, cercando di metterla in condizione di esprimersi al meglio. Quindi, per tornare alla possibilità che Mazzarri alleni l'AS Roma, dal punto di vista della mentalità è un grosso NO.

Sul piano del gioco, per il 5-3-2 di Mazzarri, il reparto più adatto sarebbe quello difensivo, con Manolas, Rüdiger e Castán che si adatterebbero alla perfezione al ruolo di marcatori, e De Rossi che potrebbe fare da centrale della difesa a 3, coprendo senza marcare e impostando più o meno da dove imposta anche adesso. Ma, adesso che ci penso, anche Rüdiger al centro potrebbe fare meglio di quanto non stia facendo da centrale di sinistra di una difesa a 4, garantendo in modo eccezionale la copertura della profondità con la sua velocità, impostando con più calma e meno pressione, grazie alla superiorità numerica sulla maggior parte degli attacchi, con in più l'uscita facile sui lati, e almeno due linee di passaggio in verticale (play e mezzala).

Con un solo uomo per fascia si risolverebbe il problema del terzino destro: se Florenzi non è il migliore dei difensori, in pochi coprono tutta la fascia come potrebbe farlo lui, con una pericolosità dalla trequarti di campo in poi che potrebbe dare risultati simili a quelli di Christian Maggio nel Napoli di Mazzarri. Lo stesso vale per Digne, che in una squadra più diretta potrebbe arrivare al cross in movimento: meglio delle sovrapposizioni prevedibilissime a cui lo costringe adesso il più che imperfetto gioco di posizione della Roma.

A Florenzi verrebbe l'acquolina in bocca.

Ho molti dubbi, però, su come si adatterebbe la difesa ai meccanismi che mescolano zona e marcature di uomo, tipici di Mazzarri, e dal centrocampo in su non credo ci sia motivo di pensare che qualcosa migliorerebbe. Certo, alcuni giocatori si troverebbero a loro agio con un gioco basato sul lasciare palla agli avversari e ripartire nello spazio: a partire da Pjanic, che in verticale dà il meglio di sé (visione, pausa, persino nel recupero palla è più adatto a un gioco aggressivo che di posizione), anche se gli manca l'energia di Hamsík per salire molti metri con la palla al piede; per arrivare a Salah e Gervinho, che hanno bisogno di campi il più lunghi possibile per esprimersi. Forse il giocatore a beneficiare di più di un cambio di panchina del genere sarebbe quello meno valorizzato, ora come ora: Iturbe potrebbe agire sia da punta che da esterno, dando il massimo in entrambe le fasi e mostrando quell'umiltà, a cui adesso sembra costretto (ed è l'unico modo in cui romani intendono l'umiltà: come una costrizione), è un valore vero e proprio.

Altri giocatori, però, rischiano di faticare ad adattarsi: Nainggolan probabilmente dovrebbe diventare un mediano davanti alla difesa, aumentando la precisione nei passaggi e la sensibilità nel gestire i tempi di gioco (fondamentale in squadre spezzate virtualmente in due come quelle di Mazzarri e un esempio di questo ruolo era Cambiasso ai tempi dell'Inter) o comunque dovrebbe dare maggiore equilibrio anche da mezzala, migliorando la scelta di tempo nelle incursioni (che adesso si vedono di rado): in entrambi i ruoli rischierebbe di finire dietro giocatori più ordinati come Vainqueur e, incrociando le dita, Strootman.

Poi: Dzeko dovrebbe pressare e puntare l'area con maggiore determinazione (vedi Cavani, ma anche Palacio) per arrivare sui molti cross che pioverebbero in area, che rischierebbero comunque di evidenziare ancora di più il fatto che, nonostante la stazza, non è un gran colpitore di testa. Iago Falque probabilmente dovrebbe adattarsi da esterno o da centrocampista e vista l'idiosincrasia di Mazzarri per i giovani, gente tipo Uçan farebbe meglio a cercarsi un'altra squadra. Keita mangerebbe a un tavolo da solo o inizierebbe uno sciopero della fame.

In sintesi, quella mancanza di fantasia che ha fatto paragonare il gioco offensivo di Mazzarri alle sedie Bauhaus non è molto diversa da quella della Roma di Rudi Garcia. Adesso manca quasi ogni movimento, ma anche il gioco di Mazzarri rischierebbe di stagnare in una squadra di portatori di palla (come è successo con l'Inter di Kovacic, Guarín, Hernanes).

Per la Roma non solo sarebbe meglio un allenatore capace di esaltare le caratteristiche dei giocatori a disposizione anziché provare a forzarli nel proprio gioco, ma il gioco di Mazzarri rappresenterebbe anche un'inversione di rotta rispetto a quella che doveva essere la nuova filosofia giallorossa: quel gioco offensivo palla a terra divertente per il pubblico (che però non significa tenere palla il 70% del tempo) sul cui altare sono stati già sacrificati Luis Enrique, Zeman e anche Rudi Garcia. Se non è bello affondare, non lo è neanche tornare indietro sconfessando le proprie idee.

Mazzarri alla Lazio

di Daniele Manusia

Rispetto al discorso fatto all'inizio per la Roma, la Lazio ha un vittimismo ancora più accentuato che, probabilmente, ha senso nel contesto di isolamento e minoranza in cui i tifosi laziali formano il proprio carattere di tifosi. E lo dico con il massimo rispetto: è una forma di autocelebrazione orgogliosissima che noi romanisti non conosciamo, che rende la Lazio più “durevole” come idea, refrattaria a illusioni o status sociali, che va bene con Cragnotti e con Lotito e che avrebbe le potenzialità morali per fare da base a un progetto identitario tipo Atlético Madrid.

Anche in questo contesto però Mazzarri non andrebbe bene, le scuse continue e fantasiose non si accordano con l'orgoglio di chi è disposto a perdere tutta la vita, ma con stile. Mazzarri non è adatto a una piazza che vive per distinguersi, finirebbe per frustrare e ridicolizzare la paranoia laziale, come in un certo senso fa Lotito quando attira su di sé le ire (a torto o a ragione) dei tifosi. La Lazio avrebbe bisogno di un profeta molto più della Roma, di qualcuno che parli di destino e che trovi una forma simbolica adatta a una squadra che, per forza di cose, dovrà interpretare per molti anni il ruolo dell'underdog, della sfavorita. La Lazio può essere competitiva in un contesto difficile, ma ci vorrebbe qualcuno dotato di visione filosofica e calcistica. E, almeno per ora, Mazzarri non corrisponde al profilo.

Tuttavia, da questa parte troverebbe una squadra più adatta al suo gioco. Gentiletti, Mauricio e Hoedt guadagnerebbero molto marcando con distanze più brevi e una linea più bassa, con meno spazio alle spalle. Per non parlare di de Vrij, che nel 5-2-3 di van Gaal è stato uno dei migliori dello scorso Mondiale e che potrebbe anche adattarsi al ruolo di centrale. Biglia sarebbe perfetto per dare tempi ed equilibrio, mettendo in moto le ali: da una parte senz'altro Lulic, dall'altra Candreva, che però potrebbe essere utile anche nella coppia di attaccanti grazie alla continuità nel pressing e agli strappi che atleticamente è in grado di compiere nelle ripartenze.

Se Candreva giocasse punta, e a destra giocasse Basta, allora la Lazio potrebbe spingere di più a sinistra, giocando anche con Felipe Anderson (o Keita, che però potrebbe anche fare seconda punta) esterno alto e Lulic a mezzala. Il brasiliano è capace di strappi su più decine di metri palla al piede e potrebbe diventare il motore in grado di trasformare la fase difensiva in offensiva.

Immaginate quante palle del genere potrebbe mettere dentro Felipe Anderson e quanto sarebbero felici Klose, Djordjevic e persino Candreva o Milinkovic-Savic di correrci a tutta velocità.

Lulic, Cataldi, ma sopratutto Mauri e Parolo sarebbero perfetti per il gioco fronte alla porta, fatto di corse continue alle spalle di centrocampi e difese che chiederebbe Mazzarri. Lo scorso anno è arrivata da loro una buona parte dei gol laziali e se Pioli sembra intenzionato a puntare maggiormente sulle qualità palla a terra dei suoi uomini più tecnici, magari potrebbe essere utile togliere loro qualche responsabilità. In attacco probabilmente Klose partirebbe avvantaggiato per eseguire i movimenti verso l'esterno che richiede Mazzarri, ma Djordjevic sarebbe utilissimo nel pressing e sui cross.

Certo, il rischio è che Candreva non sarebbe mentalmente disposto a un sacrificio tattico che nel migliore dei casi gli toglierebbe molti palloni e nel peggiore lo costringerebbe a difendere fino alla bandierina del calcio d'angolo. O che Felipe Anderson venga respinto da un sistema che (pur con alcuni aggiustamenti di cui Mazzarri si è dimostrato capace, tipo il modulo asimettrico dell'Inter, che in alcuni momenti difendeva con il 4-4-2, con un esterno che ripiegava sulla linea di difesa e l'altro che restava più alto) qualche compito difensivo glielo chiederebbe, così come maggiore attenzione per non perdere palla e più rapidità di quella che ha adesso nel gestire le scelte offensive. Oppure che un centrocampo Lulic-Biglia-Parolo si rivelasse troppo “leggero” per recuperare palla e che la squadra si ritrovi a difendere costantemente nella propria area di rigore...

Tutto sommato Mazzarri alla Lazio potrebbe rivelarsi la soluzione ideale, una delle migliori a disposizioni di Lotito quanto meno. Non farebbe tornare i tifosi allo stadio dall'oggi al domani, ma con calma potrebbe costruire una squadra che li renda di nuovo orgogliosi. In conferenza stampa però dovrebbe andarci qualcun altro, magari Biglia, o Parolo, l'ipotesi di un doppio intervento Mazzarri-Lotito nella stessa puntata della Domenica Sportiva post-derby rischierebbe di portare il livello di scontro in città più in basso di quanto non sia mai stato.

Conte alla Roma

di Emiliano Battazzi (@e_batta)

Dopo le parole di Burdisso (gli allenamenti come un favore), quelle di Capello (Roma piovra ammaliatrice) e persino Astori (tutte le negatività entrano nello spogliatoio), a conferma di cose del tutto evidenti a gran parte d’Italia tranne che a Roma, è chiaro che alla guida della squadra giallorossa servirebbe un allenatore in grado di gestire sia il temibile “ambiente” che di dominare Trigoria, anche e soprattutto sul campo senza però essere accondiscendente. In Italia c’è probabilmente solo una persona in grado di combinare entrambe queste abilita: Antonio Conte.

Il suo arrivo a Roma determinerebbe uno shock culturale simile a quello prodotto da Ignazio Marino sindaco: un uomo completamente estraneo alle dinamiche peculiari della città (per Vucinic forse addirittura incompatibile), con una volontà di rompere con il passato e normalizzare l’ambiente. Rispetto all’ex sindaco, però, Conte sembra nato per fare il suo lavoro di allenatore: la vera difficoltà sarebbe far digerire ai tifosi una bandiera della Juventus, che in passato, da avversario, ha ovviamente avuto parole poco positive per la Roma. In città è già iniziato il dibattito sull’accettabilità di Conte (che è malvisto anche per il suo coinvolgimento nel processo sul calcioscommesse) e per dibattito intendo che un arrivo dell’attuale commissario tecnico della Nazionale spingerebbe molti tifosi a non vedere neppure più le partite dei giallorossi (il mio WhatsApp è già pieno di messaggi di questo tipo, non scherzo).

Eppure è proprio quello di cui ha bisogno la Roma: un allenatore totalmente controculturale, assorbito da una mentalità vincente quasi paranoica. Conte conosce il campionato italiano come pochi, non è un salto nel vuoto come fu Luis Enrique. Le sue conferenze stampa a Trigoria potrebbero raggiungere delle vette inarrivabili, con sottolineature sull’inutilità di festeggiare la vittoria di un derby o richiami al suo trionfale palmarès rispetto a quello della squadra. La Roma e i suoi giocatori hanno bisogno di tornare a credere nel lavoro sul campo, tipo Buffon dopo il primo scudetto con Conte.

Nella Juventus l’allenatore leccese passò dal 4-2-4 al 3-5-2, usando anche il 4-3-3. Nella Nazionale ha intrapreso il percorso opposto, partendo dalla base del 3-5-2 per arrivare alla difesa a 4. La rosa della Roma non sembra adatta al calcio di Conte, fatto di movimenti ben definiti e organizzati, provati in modo estenuante in allenamento. Eppure potrebbe trovare degli equilibri nuovi e vincenti: nel 3-5-2 ad esempio, De Rossi diventerebbe il difensore centrale più arretrato, dove avrebbe la stessa (se non maggiore) importanza di Bonucci nella Juve per l’inizio azione: fondamentale nel rombo basso di costruzione, che per Conte serve a orientare il posizionamento della squadra e a invogliare gli avversari a uscire dalle posizioni.

Ai lati di De Rossi ci sarebbero Manolas a destra e Castán a sinistra (ammesso che ritorni al 100%): le loro doti di marcatura e anticipo sono perfette per una difesa a tre. Sulle fasce, nonostante nella Nazionale giochi da mezzala, Florenzi sembra particolarmente adatto a coprire tutta la corsia destra, risolvendo così l’enigma sul suo ruolo, unificandone tre (terzino-centrocampista-ala). Anche se gli esterni nel 3-5-2 di Conte hanno l’obiettivo (in fase di possesso) soprattutto di allargare la difesa avversaria, Lichtsteiner era spesso deputato agli inserimenti profondi anche in area di rigore: un compito che Florenzi sa svolgere benissimo. Sull’altra fascia Digne potrebbe essere il terzino equilibratore: anche se è meno abile in fase propositiva ha comunque le capacità fisiche per coprire tutta la fascia.

A centrocampo, invece, la quadratura del cerchio sarebbe molto più difficile. L’abbassamento di Pjanic a regista è molto complicato: il bosniaco dovrebbe giocare da interno di centrocampo, con Keita centrale e Nainggolan interno sinistro. L’ideale per Conte (come per qualunque altro allenatore al mondo) sarebbe avere a disposizione Strootman: i due interni devono essere molto dinamici per attaccare spesso la profondità e Pjanic costringerebbe il gioco a un rallentamento in più sulla trequarti. Magari il bosniaco riuscirebbe a trovare maggiore continuità e a diventare una sorta di fantasista occulto, facendosi trovare spesso tra le linee come faceva Pogba nella Juventus. Nainggolan è il giocatore perfetto per Conte: non ha la qualità di Vidal, ma per grinta, aggressività e dinamismo ci siamo quasi.

In attacco i due titolari sarebbero Dzeko e Salah: nella Juve di Conte si arrivava alle punte con verticalizzazioni successive al possesso basso. Una delle punte si dovrebbe quindi abbassare a ricevere il passaggio e poi combinare nello stretto con l’altra: movimenti che entrambi sanno ben svolgere. Inoltre la vicinanza tra i due potrebbe aiutare anche Dzeko a entrare meglio nei meccanismi della squadra, senza sentirsi isolato. Salah è molto veloce, ma gli manca l’intelligenza tattica di Tévez per giocare tra le linee: la coppia con Dzeko somiglierebbe molto a quella della Nazionale (Pellè-Eder).

I problemi per Conte non mancherebbero: per recuperare palla in zona alta bisogna essere sempre molto ordinati, mentre la Roma normalmente tende al caos anche posizionale. In più la transizione difensiva aggressiva richiesta dal CT azzurro non sembra agevolmente percorribile dalla Roma. Ma almeno la squadra sarebbe molto meno esposta in fase difensiva, con i tre difensori a negare la profondità.

Conte alla Roma significherebbe in fondo provare un cambio di mentalità per tutti: cominciare a immaginarsi come una parte del problema, perché non può essere sempre colpa dei giocatori, degli allenatori e degli arbitri, e che la soluzione possa non piacerci proprio per questo. Anche se i tifosi non sembrano ancora preparati, Conte ha già la malizia giusta per allenare una squadra a cui mancano esattamente le sue qualità: mentalità vincente, carattere da vendere e maniacalità sul campo.

Lippi alla Lazio

di Emiliano Battazzi

Negli ultimi 20 anni Marcello Lippi ha allenato solo tre squadre di club: la Juventus, con due cicli vincenti; l’Inter, con risultati disastrosi ed esonero dopo poco più di un anno; il Guangzhou Evergrande, con cui ha vinto tutto (3 campionati cinesi, una coppa nazionale e la Champions League asiatica). Nel frattempo, due cicli con la Nazionale italiana che hanno portato il quarto titolo mondiale degli azzurri e una disastrosa eliminazione nella prima fase di Sudafrica 2010.

In sintesi, significa che anche Marcello Lippi, come tutti gli allenatori e a differenza del Papa, è fallibile, e soprattutto sembra sbagliare quando il gruppo di giocatori non è ben assortito, perché mancano leader o ci sono giocatori “ribelli”, tipo Baggio (ma non solo) all’Inter. Inoltre, significa che allenare la Lazio per Lippi sarebbe una sorta di secondo “Erasmus”: tornare cioè a una squadra che non ha ambizioni esplicite di vittoria, solo per ottenere un buon posizionamento e mostrare un buon gioco. Fondamentalmente è ciò che fece il bel Napoli del “giovane” Lippi nella stagione 1993-94: e per l’appunto sono passati 21 anni e all’epoca lo chiamavano il Paul Newman del calcio italiano. Insomma, era un altro mondo.

«Come se la vittoria dovesse arrivare per grazia ricevuta…».

Il mondo che troverebbe alla Lazio è quasi impossibile da inquadrare: una squadra partita con ambizioni forse troppo alte e con una rosa inadatta alle tre competizioni, si ritrova adesso con risultati negativi, morale sotto i tacchi, ambiente incattivito e giocatori poco reattivi. Lippi porterebbe in primo luogo “ordine e disciplina” nello spogliatoio: mai più esternazioni stile Candreva, Morrison subito rimandato in Inghilterra, niente più incertezze sulla fascia da capitano. Quella di Lippi è una figura talmente grande che oscurerebbe anche il DS Igli Tare: non solo un allenatore, ma anche un grande comunicatore (e la Lazio sembra averne disperatamente bisogno), una personalità rispettata da tutti nel mondo del calcio e un allenatore che vuole rinforzi. Tutti quelli che avrebbe voluto anche Pioli, probabilmente: ma anche in questo sta la bravura e il carattere di un allenatore, nell’ottenere dai presidenti ciò che vuole.

Lippi è un pragmatico tattico, un sarto che sa cucire qualunque tipo di abito intorno alla squadra: dal 4-4-2 del Mondiale 2006 al 4-3-3 spurio del 2010, per la Nazionale, nel Guangzhou, invece, passava spesso dal 4-3-3 al 3-4-1-2. Questa Lazio però ha bisogno di maggiori certezze e più semplicità: adesso cambia modulo in continuazione, con giocatori dai ruoli incerti tipo Milinkovic-Savic. Lippi probabilmente si lancerebbe su un 4-4-2 standard, che diventerebbe un 4-3-3 solo in fase offensiva, per coprire meglio le fasce. In questo nuovo sistema Felipe Anderson giocherebbe molto più vicino alla porta, quasi da seconda punta, sfruttando gli spazi aperti dalla punta centrale forte fisicamente, magari Matri. Candreva avrebbe ancora il ruolo di ala destra, ma con più compiti difensivi da rispettare: un vero esterno di centrocampo, anche per limitarne gli eccessi dispotici ed egocentrici.

A centrocampo Biglia sarebbe il leader indiscusso del reparto, con Parolo vicino a garantire dinamismo e Lulic da tornante di fascia sinistra: in attesa del ritorno del bosniaco infortunato potrebbe essere avanzato il terzino di spinta Braafheid, con Radu alle sue spalle.

In difesa si aprirebbe la vera questione della Lazio, piena di centrali poco dinamici, bravi in marcatura, ma incapaci di coprire la profondità. La rosa sembra quasi fatta per giocare una difesa a tre, che però Pioli ha usato pochissimo: Lippi ci farebbe sicuramente un pensiero (con Mauricio-Gentiletti-Radu a 3 si difende meglio che in due), ma nel piano del 4-4-2 l’unico centrale sicuro del posto da titolare sarebbe Gentiletti, vero leader difensivo. L’altro centrale sarebbe difficile da trovare e non si può escludere l’utilizzo di un giovane della Primavera: è esattamente ciò che fece Lippi al Napoli, quando decise di schierare titolare il giovane Cannavaro perché poco soddisfatto della linea difensiva. Sulla destra il titolare indiscusso rimarrebbe Basta, mentre in porta toccherebbe ancora a Marchetti.

La nuova Lazio di Lippi sarebbe di sicuro molto più compatta, con linee strette e vicine, magari meno spettacolare e senza le combinazioni veloci delle catene di fascia di Pioli. Di sicuro avrebbe più carattere, quello del suo allenatore, e non è poco per una squadra che sembra smarrita, senza alcuna capacità di reagire.

Lippi alla Lazio non incontrerebbe ostacoli da parte dei tifosi, perché sarebbe un evidente passo in avanti nel presunto progetto di Lotito: anzi sarebbe proprio la mossa che molti aspettano da tempo, un segnale sul futuro di una squadra che sembra non decollare mai, portando una mentalità vincente e una tranquillità che a Formello ormai mancano da troppo tempo.

Di Francesco alla Roma

di Dario Saltari (@dsaltari)

Uno dei figli prediletti dello zemanismo che arriva a Roma da salvatore della patria potrebbe essere una storia da raccontare ai figli. Se sia da raccontare come una fiaba o come un racconto dell’orrore, però, non ci è ancora dato saperlo: d’altra parte i fratelli Grimm ci insegnano che il confine tra le due cose è fin troppo labile, figuriamoci se i protagonisti si addentrano nel locus ameno di Trigoria.

Di Francesco arriverebbe con il favore degli sponsor, soprattutto dopo l’accordo firmato a novembre con la Nike, ma, a parte questo, il suo lavoro godrebbe di pochi altri alleati all’interno di Trigoria. Il tecnico abruzzese ci ha abituato finora a squadre estremamente dinamiche, fisicamente intense e precise nei movimenti senza palla, cioè esattamente tre dei più importanti punti deboli della Roma odierna. Secondo i dati ufficiali della Lega, attualmente il Sassuolo corre in media oltre sette chilometri in più a partita rispetto alla Roma (che, in questo dato, è penultima, davanti al solo Carpi). Ci sarebbe quindi da fare un lavoro molto grosso sull’intensità fisica, un lavoro nient’affatto semplice se è vero, come dice Burdisso, che a Roma i giocatori quando si allenano sembra che facciano un favore a qualcuno.

Eusebio Turbodiesel.

Sarebbe anche un problema tattico, questo. Le affinità tra Garcia e Di Francesco, infatti, finiscono al modulo di base utilizzato, il 4-3-3. In attacco, per esempio, Di Francesco ha dimostrato di preferire giocatori associativi ed estremamente mobili senza il pallone (Defrel, Zaza, Sansone, Floro Flores, persino lo stesso Floccari), giocatori che farebbe molta fatica a trovare nella Roma. Si salverebbero Florenzi, Iago e forse Dzeko, ma già la convivenza di Salah e Gervinho, con il loro splendido isolazionismo, diventerebbe molto problematica.

Nel Sassuolo di Di Francesco c’è solo un attaccante nel tridente che viene dentro al campo a chiedere la palla tra i piedi (di solito Berardi, che ha quel movimento nel DNA), mentre gli altri due attaccano la profondità alle sue spalle. I tre attaccanti giocano sempre molto vicini tra loro per attaccare le difese avversarie con scambi veloci e uno-due e l’ampiezza viene garantita da terzini e mezzali. In questo senso bisognerebbe anche vedere quanto le mezzali della Roma sarebbero capaci di interpretare questi movimenti. Forse l’arrivo di Di Francesco accelererebbe la cessione di un accentratore di gioco come Pjanic, ma anche lo stesso Nainggolan non fa della puntualità nei movimenti senza palla il suo punto forte. A prevalere sarebbero mezzali più abili a verticalizzare verso la porta come Strootman e Vainqueur.

A proposito di verticalizzazioni, al centro della difesa Di Francesco si vedrebbe privato di un uomo in grado di tagliare con i passaggi le linee avversarie, un gioco che nel Sassuolo fa soprattutto Paolo Cannavaro. In assenza di mercato, una soluzione temporanea, e non certo priva di limiti, potrebbe essere quella di invertire Manolas e Rüdiger, dato che il tedesco, al contrario del greco, ha un destro a volte ruvido, ma non sempre banale.

Nonostante tutte queste criticità, però, la rosa potrebbe trovarsi a suo agio con un gioco estremamente diretto e verticale come quello di Di Francesco, dato che il punto di rottura della gestione Garcia è stato proprio il passaggio da un gioco di transizione a uno posizionale. Quella trasformazione fu dovuta principalmente al cambiamento di approccio da parte delle avversarie della Roma, che iniziarono a compattarsi nella propria metà campo lasciando l’iniziativa all’avversario.

Anche l’eventuale lavoro di Di Francesco verrebbe valutato su questo punto, dato che il Sassuolo, al contrario della Roma, può permettersi quasi sempre il lusso di affrontare squadre che se la giocano alla pari. In questo senso le statistiche del Sassuolo non sembrano essere molto confortanti. La squadra di Di Francesco non brilla per creatività offensiva: attualmente è terzultima per occasioni da gol create (meglio solo di Verona e Bologna) e penultima per tiri effettuati da dentro l’area di rigore (meglio del solo Bologna). Nei due anni di gestione precedenti il Sassuolo non è mai arrivato al di sopra del 14.esimo posto in queste due statistiche.

Si sente spesso dire che Di Francesco sia cresciuto molto durante la sua esperienza in Serie A. Ma trasferirsi dal Sassuolo alla Roma, che ha un rapporto a dir poco controverso con i suoi ex giocatori, equivale a cambiare campionato sotto tutti i punti vista. Se non vuole fare la fine di Hänsel e Gretel, abbandonati durante una carestia dalla loro stessa famiglia, dovrà dimostrare di saper imparare ancora molto. Nel bosco di Trigoria di streghe ce ne sono davvero tante.

Simeone alla Lazio

di Dario Saltari

Ho l’impressione che Diego Simeone possa essere di gran lunga la cosa migliore che possa capitare alla Lazio in questo momento della sua storia. Ok, è un’eventualità remota come la sagoma di un’isola vista dalla terraferma in un giorno di foschia (inserite qui le questioni dell’ingaggio e del differenziale di appeal tra l’Atlético e la Lazio in questo momento), ma questo comunque non ci impedisce di vederla. E non lo dico per nostalgia.

Simeone non è solo un ex che è diventato un allenatore di fama internazionale, quella nel calcio è una situazione che rasenta quasi la normalità. È soprattutto il come lo ha fatto che in questo discorso fa la differenza. Riassumendo all’essenza: ha preso l’Atlético Madrid e l’ha reso una squadra di caratura mondiale attraverso la consapevolezza di non essere il Real o il Barça, ovvero attraverso la consapevolezza dei propri limiti (tanto che le difficoltà quest’anno sono venute dall’abbondanza in rosa, più che il contrario).

Ora, dovete sapere (se non lo sapete già) che la consapevolezza dei propri limiti a Roma è un bene raro quanto gli autobus notturni a Torre Angela il primo dell’anno. La Roma scrive “Siamo la Roma” negli spogliatoi per ricordare ai giocatori una gloria che non è mai esistita, mentre sull’autobus ufficiale della Lazio a caratteri cubitali si legge “La prima squadra della Capitale”, come se l’anno di fondazione costituisse di per sé un merito sportivo.

Portare la consapevolezza dei propri limiti a Roma significa portare l’acqua nel deserto, portarla alla Lazio significa capire finalmente di non poter competere per i primi posti con gli stessi mezzi con cui lo fanno la Juventus, il Napoli e, ovviamente, la Roma. La Lazio con ogni probabilità non avrà la forza economica nel prossimo futuro di potersi costruire una rosa tecnicamente all’altezza di queste squadre. Con Simeone le armi principali diventerebbero quindi la compattezza, l’intensità e la cattiveria.

Tatticamente il "Cholo" troverebbe una squadra abbastanza pronta per i suoi gusti. Certo, in difesa mancherebbe un centrale di livello da affiancare a de Vrij e un terzino destro forte fisicamente, ma per il resto la squadra sarebbe praticamente fatta. La linea di centrocampo sarebbe solida e capace negli inserimenti, con Parolo e Lulic finalmente a proprio agio sugli esterni ad affiancare Biglia e Milinkovic. Davanti ho pochi dubbi che la scelta per la prima punta ricadrebbe su Djordjevic, che verrebbe affiancato da uno tra Candreva e Keita. Proprio lo spagnolo con Simeone diverrebbe quel giocatore esplosivo che a Formello tutti si aspettano. Difficile, invece, trovare una collocazione a Felipe Anderson, che con i suoi orpelli solitari distruggerebbe la compattezza delle linee biancocelesti. Forse il brasiliano diverrebbe la vittima eccellente di cui la rivoluzione cholista ha tecnicamente e metaforicamente bisogno.

Al di là degli uomini, la virata dalla Lazio di Pioli sarebbe decisamente radicale. Non più recupero alto del pallone, fuorigioco e verticalizzazioni improvvise, ma soprattutto compattezza centrale, baricentro basso, trappola del fallo laterale e gioco in transizione veloce.

Se riuscisse, il successo dell’esperimento Simeone deborderebbe anche al di fuori del campo da calcio. La Lazio ritroverebbe un’unità d’intenti tra pubblico e squadra, l’Olimpico tornerebbe a riempirsi e affrontare i biancocelesti in casa diventerebbe impossibile per chiunque. Per i romanisti i derby diventerebbero psicologicamente un incubo: i sogni di gloria dell’ambiente giallorosso verrebbero inchiodati alla loro illusorietà dal pragmatismo cholista e i laziali non si vanterebbero più di essere nati prima, ma di essere cresciuti meglio, nonostante tutto.

Ancelotti alla Roma

di Daniele V. Morrone (@DanVMor)

Qualche ora fa Ancelotti ha dichiarato di essere interessato a tornare in Premier League (magari al Manchester United). Queste dichiarazioni, insieme alle voci che lo vogliono come successore di Guardiola al Bayern, rendono l’opzione Ancelotti per la Roma veramente complicata. Specialmente a stagione iniziata. Conoscendo però l’affetto che lega Ancelotti alla Roma e a Roma e prendendo spunto dalle sue stesse parole («Se mi piacerebbe allenare la Roma? Sì, moltissimo, è una squadra che amo in una città che amo») nulla ci vieta di pensare cosa possa fare Ancelotti una volta deciso di provare a riportare lo scudetto a Roma invece che la Champions a Manchester.

Per prima cosa Ancelotti dovrà provare a cambiare la testa dei giocatori. Roma non è né un contesto vincente né un ambiente che aiuta lo sviluppo di un progetto. Per Ancelotti è vitale che intorno alla squadra ci sia il giusto clima («I club e i giocatori importanti hanno successo quando c’è l’ambiente giusto»): questo a Roma non ci sarà di certo e lui non potrà fare nulla per modificare le cose nel breve periodo (e forse neanche nel lungo, perché non so quanto sia umano poter rigirare il contesto di una città come Roma).

Sulla testa dei giocatori però si può lavorare e come esempio si può portare quanto fatto a Parigi, che con le dovute differenze era un ambiente “difficile” (cioè perdente) come quello romano: «A Parigi ho faticato parecchio all'inizio, perché i giocatori non erano abituati ad avere una mentalità vincente.». Per risolvere il problema della mentalità Ancelotti ritiene che il modo migliore sia avere in squadra giocatori che già vengono dalle giuste esperienze. La mentalità vincente rende un giocatore professionale in ogni situazione, aiutando così il lavoro dell’allenatore: «È stato importante in questo senso avere Ibrahimovic con me (a Parigi). Zlatan è il miglior giocatore in termini di professionalità. Era un modello per gli altri, perché in allenamento era sempre concentrato.»

Zlatan a Roma quindi? Innanzitutto Ancelotti dovrebbe trovare all’interno del gruppo attuale i giocatori che possano fare da esempio. Purtroppo esiste al momento un solo giocatore in rosa con un grande passato e mentalità vincente, ovvero Keita (con un grande passato ci sarebbero Maicon e Cole, ma sulla sua mentalità vincente e sulla professionalità ci sono dei dubbi). Al momento di costruire la sua Roma quindi sono sicuro che Keita, nonostante l’età, sarebbe al centro del progetto.

Carlo Ancelotti in giallorosso.

Ho dato tanto spazio all’aspetto mentale perché è lì che Ancelotti concentrerebbe tutti i suoi sforzi iniziali, partendo sicuramente con solo qualche piccolo accorgimento tattico sulla squadra in campo, per mettere a posto le lacune di Garcia in questo senso (come spiegare che se si gioca con la difesa alta bisogna anche fare un pressing organizzato). Difficile dire come deciderebbe di sviluppare poi il gioco della squadra, perché Ancelotti ha chiaramente l’idea che il lavoro dell’allenatore nel mettere in campo la squadra sia totalmente subordinato al materiale umano a disposizione. Le caratteristiche dei giocatori creano lo stile di gioco e non il contrario.

La Roma però ha una rosa dalle caratteristiche eterogenee che potrebbero portare Ancelotti a giocarsela in modi differenti. Partendo dal presupposto che Keita sarà al centro del progetto, e avendo Ancelotti l’autorità di mettere in panchina anche “vacche sacre” della formazione attuale, voglio immaginare una Roma che ricerca il possesso, perché è la strategia consona al gioco del maliano.

E allora possiamo verosimilmente pensare all’accantonamento di giocatori poco adatti a tale strategia come Gervinho e Nainggolan, in favore di giocatori più associativi come Iago Falque e Vainqueur. Con una difesa dove c’è poco materiale per poter lavorare oltre a quella attuale, un centrocampo a tre con proprio Vainqueur e Pjanic potrebbe essere perfetto per sfruttare al meglio le caratteristiche del Keita capitano nel breve periodo, mettendogli accanto giocatori che parlano la stessa lingua calcistica.

Ma non è detto che non decida anche di sperimentare, tentando di dare una spinta più offensiva, provando magari nel medio periodo ad arretrare Iago Falque tra le mezzali come fece con Di María e Isco a Madrid. Spostando magari a quel punto Florenzi nel tridente con gli intoccabili Dzeko e Salah. Questo naturalmente con il tempo. Roma non è stata costruita in un giorno e costruire una Roma vincente non è cosa meno impegnativa. Se c’è però qualcuno che potrebbe farlo è certamente Ancelotti.

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