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Tommaso Giagni
Oltre i sogni
04 lug 2018
04 lug 2018
L'impensabile carriera da calciatore di Fabio Grosso, che divenne un eroe del Mondiale del 2006 quasi per caso, e la sua ascesa da promettente allenatore.
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Tommaso Giagni
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26 giugno 2006. Huang Jianxiang è un telecronista della CCTV cinese e sta raccontando Italia-Australia, ottavi di finale della Coppa del Mondo. La gara sembra avviata ai supplementari, quando Fabio Grosso guadagna un calcio di rigore. Huang inizia a gridare: «Grosso ce l'ha fatta! Il ritorno del grande italiano! Il successore della grande tradizione italiana! Non è la battaglia di un solo uomo. Facchetti, Cabrini, Maldini, le loro anime si sono infuse dentro di lui in questo momento!».

 

In seguito all'episodio, l'emittente TV rimprovera Huang e lo punisce, per il mancato equilibrio e l'offesa indiretta agli australiani. Lui si ritrova all'angolo e dopo i Mondiali finirà per lasciare il lavoro. Pubblicherà anche un libro, dal titolo:

.

 

Fabio Grosso non era Facchetti, né Cabrini, né Maldini. A 21 anni, in prestito al Teramo, non giocava mai perché veniva considerato scarso per la categoria (C2) dall'allenatore, Roberto Pruzzo. Sembrava destinato a un calcio minore. «

bambino fantasticavo qualche partita in A. Sono andato oltre i sogni».

 

La sua storia è quella di un gregario che si prende la scena. Un rincalzo su cui nessuno avrebbe scommesso. Grosso però non la chiama

, è una parola che

. Il suo approccio è positivo, sempre: anche nel periodo in cui la Juve lo mette da parte e lui sta praticamente lasciando il calcio giocato, anche allora, Fabio Grosso

che quello che gli manca in carriera è «quello che verrà».

 

Ha vinto molto, moltissimo. Eppure non è riuscito a disegnarsi addosso la figura del vincente. Ed è per questo, probabilmente, che è piacevole immedesimarsi in Fabio Grosso. Un terrestre capitato sullo stesso campo degli alieni del calcio. Un ragazzo troppo alto (190 cm) sulla fascia, per non portarsi dietro la goffezza nella corsa. Troppo magro per non sembrare l'adolescente cresciuto all'improvviso, ospite di un corpo nuovo.

 





 

Il suocero, Giorgio Repetto, ha fatto il calciatore negli anni Settanta e Ottanta (Sampdoria e Pescara soprattutto) e poi il dirigente. Nel settembre 1977 è stato lui a segnare il primo gol in Serie A della storia del Pescara. Poche settimane dopo, il 28 novembre, sarebbe nato Fabio Grosso.

 

Nasce a Roma,

desiderio della madre romana, ma la sua terra è l'Abruzzo dov'è cresciuto. Il padre viene da qui, e lui ha iniziato a giocare alla Renato Curi di Pescara e al Chieti. Anche il padre giocava, da ragazzo. La squadra era quella di un paesino dell'Alto Vastese, San Giovanni Lipioni, che oggi

Fabio Grosso come prodotto locale, perché trascorreva «le vacanze qui in paese».

 

Alla Renato Curi lo tira su Cetteo Di Mascio, che lui continuerà a chiamare

. Uno che ha scoperto e cresciuto anche Massimo Oddo e Marco Verratti. Il soprannome che Di Mascio ha dato a Grosso, per come sa combinare la tecnica e il cervello,

“la Centralina”. Insieme vinceranno un campionato Eccellenza, che per Grosso

 «lo stesso sapore» dei campionati vinti in Serie A e in Ligue 1.

 

A 23 anni Fabio Grosso fa il trequartista, ha la maglia numero 10 e gioca in serie C2. Fino a due anni prima era nei Dilettanti. Il calcio

un hobby: parallelamente si è iscritto all'università, Scienze Politiche, e ha dato un paio di esami. Le sue prestazioni e i suoi gol (

) permettono al Chieti di raggiungere la C1 e a lui di essere notato dal Perugia di Gaucci. Il DS Salvatori

all'Ascoli, dopo averlo visto in un Castel San Pietro-Chieti.

 

Così, di colpo, per Grosso arriva la Serie A. E con un'intuizione di Serse Cosmi (

del suo vice, Palazzi), si abbassa a fare il terzino. Il tutto in uno stadio intitolato a Renato Curi, lo stesso che dava il nome alla squadra abruzzese in cui aveva cominciato.

 


2001/02, a Firenze con il Perugia, festeggia il suo primo gol in Serie A (Foto Firo Foto / Stringer).


 

Arriva in Umbria, a

, da scommessa che costa poco fare. Per molti non è all'altezza del ruolo, “dopo le imprese di Mirko Pieri (ora all'Udinese)” come

la Gazzetta dello Sport. In squadra ci sono Zé Maria, Dellas, Vryzas e Bazzani. E poi Sean Sogliano e Fabio Gatti, che Grosso ritroverà come dirigenti a Bari, sedici anni dopo.

 

Gli bastano pochi mesi per diventare il titolare della squadra. Pochi mesi per ambientarsi nel calcio che diventerà il suo, e che prima era una fantasia. Perugia è una rampa di lancio, un'opportunità grandiosa, che lo trasforma in un giocatore affidabile e consapevole. La sua ultima gara con i "Grifoni" finisce per un'espulsione: è il primo di una serie di epiloghi che guastano i suoi addii. Quel giorno Grosso

: poco prima aveva comunicato alla società di voler andar via, fare un altro salto.

 

Ha 26 anni e due stagioni e mezza di A sulle spalle, quando il DS Foschi lo acquista per il Palermo, nel gennaio 2004,

al tentativo dell'Inter di inserirsi. «Ho sempre scelto chi puntava su di me», 

Grosso a fine carriera.

 

I rosanero segnano la svolta della sua vita. Perché cresce enormemente, in altre due stagioni e mezza, in un contesto che vede la squadra passare dalla Serie B al quinto posto in A. In quella rosa, in quegli anni, ci sono altri futuri campioni del mondo: Toni, Barzagli, Zaccardo, Barone. E poi giocatori di talento come Corini, Brienza, Di Michele e Zauli.

 

Quando inizia l'avventura dei Mondiali in Germania, Fabio Grosso ha 28 anni e una carriera in provincia. In quel gruppo dai nomi altisonanti, lui è quasi una mascotte.

 

Prima dei Mondiali 2006, in azzurro aveva raccolto 17 presenze. Non aveva giocato neanche un minuto nelle nazionali giovanili. Aveva esordito nel 2003, ma solo dalla primavera 2005 era entrato in pianta stabile. Il giorno del debutto dell'Italia, contro il Ghana, Fabio è in campo, il padre siede in tribuna e piange, e la madre a casa in Abruzzo dice una preghiera,

.

 





 

«Sono emozioni che posso raccontare, le ho raccontate e le racconterò. Ma non si riescono mai a capire. Raccontarle non renderebbe mai quello che in realtà è stato», 

Grosso.

 

Ottavi di Finale, “Fritz Walter Stadion” di Kaiserslautern. Italia e Australia sono bloccate sullo 0-0 e mancano venti secondi alla fine, quando Grosso riceve palla. Andare oltre i tempi regolamentari è un rischio, anche perché l'Italia è in dieci, ma ormai pare inevitabile.

 

Dalla fascia Grosso punta l'uomo, subisce un primo fallo ma resiste

vede la porta. Supera il marcatore, entra in area. Un secondo fallo: rigore. Lui si raccoglie contro il terreno di gioco, batte i pugni sull'erba. Il rigore è dubbio e contestato: «È stata l'azione della vita, non me la potete sporcare», dirà Grosso qualche giorno dopo. Comunque il rigore viene assegnato, ed è gol. L'arbitro non fa nemmeno ricominciare: l'Italia è ai quarti. Quell'estate in Australia fanno un

sull'uomo più odiato del Paese: Grosso si colloca al quinto posto, davanti a Osama Bin Laden.

 

«Non ero arrivato a sognare una partita così importante nella mia carriera», 

anni dopo.

 

Di nuovo, gli ultimi istanti di una gara paralizzata, senza reti. Stavolta il pallone pesa di più, perché è la semifinale e perché l'avversario è la Germania padrona di casa. Dopo un calcio d'angolo, Pirlo serve Grosso: è da solo, in area, ma anche molto decentrato. Tira di prima, sul secondo palo. «

cercato di trovare un angolino, senza guardare la porta, immaginandola». La immagina bene: 1-0.

 

Probabilmente la sua corsa cieca, infantile, mentre fa no col dito e scuote la testa («

potevo credere che quella cosa fosse capitata a me»), è l'equivalente dell'esultanza di Tardelli nel 1982. L'immagine che rimarrà con più intensità nell'immaginario, da quel Mondiale, al netto della testata di Zidane. Arriva poi il raddoppio azzurro, e i tre fischi che mandano l'Italia in finale.

 

L'Olympiastadion di Berlino è esausto, eppure la tensione continua a prendersi la serata, a strappi, dopo 120 minuti, due gol e un'espulsione come quella rifilata a Zidane. I Mondiali 2006 arrivano fino in fondo, oltre i tempi regolamentari della finale, oltre i supplementari. È il 9 luglio 2006.

 

I primi quattro italiani segnano tutti, per la Francia tre gol e l'errore di Trézéguet. Il quinto a dover battere è Fabio Grosso, l'ha deciso Lippi a fine partita, e lui

 «se veramente fosse sicuro». Non batte un rigore da

: l'ultima volta era stata in serie C2. Non guarda la porta. Tira forte. Palla da una parte, Barthez dall'altra. L'Italia è campione del mondo.

 


2008/09, a Lione con Karim Benzema (foto di Philippe Merle / Stringer).


 

«Non bisogna contenere le ambizioni», 

Grosso all'arrivo in nerazzurro, pochi giorni dopo, ancora stravolto dalle emozioni. Si è rasato i capelli a zero, per una scommessa legata ai Mondiali, e simbolicamente sta iniziando una nuova fase. Ha provato a rilassarsi, in vacanza, ma

che accendeva la TV si ritrovava davanti quel rigore.

 

L'Inter è il suo ritorno sulla Terra. Vince uno Scudetto, viene impiegato abbastanza, ma il posto non è al sicuro con la concorrenza di Maxwell e lui non conferma le promesse degli ultimi mesi. D'altronde, come

: «Se avessi sempre giocato così, a casa avrei sette o otto Palloni d'Oro...». Se ne va dopo una sola stagione: non si era mai fermato così poco in un club.

 

Il Lione deve sostituire Abidal e la conoscenza della lingua francese

una skill importante dall'allenatore Perrin. Così Fabio Grosso ritrova la Francia lungo il suo percorso. E saranno due stagioni felici, con una sola ombra: gli attacchi dell'allenatore dello Strasburgo, Jean-Marc Furlan,

lo chiama “italiano di merda”, dopo aver perso per un suo gol, e dichiara ai giornalisti: «Non si può dire che abbia rinnegato la sua razza».

 

Il Lione viene da una striscia ininterrotta di successi nazionali, in squadra ci sono Juninho e i ventenni Ben Arfa («Il più forte che abbia mai visto in carriera», 

Grosso) e Benzema. Lui si ambienta in fretta, i compagni scherzano

sbaglia un rigore in allenamento: «Visto? Mica hai Barthez, di fronte».

 

Grosso riceverà fiducia, giocando sempre, sia in campionato sia in Champions. E vincerà, ancora: Ligue 1 (settimo titolo consecutivo del club), Supercoppa e Coppa di Francia.

 


2009/10, Fiorentina-Juventus, dopo il gol decisivo (foto di Gabriele Maltinti / Getty Images).


 

Alla Juve arriva l'ultimo giorno del mercato estivo 2009. E gli viene data la maglia numero 6, quella di Scirea.

 

Affronta piuttosto bene, sul piano individuale, una stagione deludente e burrascosa. È dopo, paradossalmente, che arrivano difficoltà e attriti: nelle due stagioni che seguono, le sue ultime da calciatore, Grosso viene messo fuori rosa e richiamato, a singhiozzo, in caso di infortuni dei compagni. Il giorno della festa per lo Scudetto del 2012, è

della rosa a non partecipare alla premiazione.

 

La società ha deciso di venderlo, ma lui si impunta,

decidere il proprio destino: «Uno, prima di essere un calciatore, è una persona. Con dei diritti». Grosso rimane ai margini, finisce per ritirarsi. Un altro epilogo un po' triste.

 

Tanto l'estate 2006 segna forse l'apice della sua vita (in due mesi, i Mondiali e la nascita del primo figlio), quanto la seconda parte del 2010 segna il tramonto da calciatore. Nonostante la buona stagione con la Juventus, Grosso non rientra nei convocati per il Mondiale in Sudafrica. Escluso dall'edizione successiva a quella che ne aveva fatto un antieroe nazionale. Tagliato fuori dalla lista preliminare, dove pure era stato inserito.

 

L'allenatore è lo stesso, Marcello Lippi, che gli aveva dato più fiducia di quanto sembrasse normale dargli. Una specie di tradimento del mentore. «Non è una cosa che mi piace raccontare. Non ho condiviso la scelta, ma l'ho accettata», 

Grosso.

 

Esce dalla nazionale, un po' malamente, e non ci rientra più. L'ennesimo epilogo più amaro di quanto sarebbe stato giusto, dopo 50 presenze in azzurro.

 


Dicembre 2017, allenatore del Bari (foto di Giuseppe Bellini / Stringer).


 

Alcune carriere, nel calcio e fuori, possono restare chiuse in un solo gesto. La vita professionale di una persona, costretta in un momento. La vita e basta di una persona, sintetizzata da un frammento di quella vita. La canzone dell'estate, la conclusione di un affare leggendario, la manciata di giorni che dura un Mondiale di calcio.

 

Fabio Grosso

rivisto spesso le immagini tv del suo Mondiale in Germania. «Non serve. È come se le avessi dentro gli occhi». E

di non sentirsi schiavo di quell'esperienza: «Come sempre, dopo una cosa bella o brutta, sono ripartito».

 

«Per compensare le soddisfazioni che questo sport mi ha dato», 

nel 2010, cioè il suo

, «ci vorrebbero trenta o quarant'anni di delusioni continue. E forse non basterebbero».

 

A quarant'anni, oggi, Fabio Grosso è un giovane tecnico che sembra destinato a una solida carriera.

il suo maestro, Di Mascio: «Diventerà un grande allenatore».

 

Ha iniziato nel 2013 con i giovani della Primavera della Juventus, vincendo un Viareggio e perdendo in finale un Campionato e una Coppa Italia di categoria. Nell'estate 2017, la chiamata del Bari l'ha portato tra gli adulti e nel professionismo, e l'eliminazione ai playoff col Cittadella non cancella una buona stagione.

 

Per un'inversione beffarda, il calciatore che ha vinto tanto ora è un allenatore che sfiora soltanto l'obiettivo. E il calciatore che è arrivato tardi nel grande calcio, ora è un allenatore precoce. Proprio la sua storia dimostra che c'è il tempo per recuperare, e che lui ne ha le capacità.

 

Così deve aver valutato l'Hellas Verona, che l'ha scelto per la sua panchina. Grosso ha accettato la proposta. Lavorerà con Tony D'Amico, nuovo DS del club, che era suo compagno quando Fabio Grosso era il fantasista del Chieti.

 

 

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