Parte di questa intervista è stata trasmessa nella puntata del programma di Sky Sport “L’uomo della domenica” di Giorgio Porrà, dedicata a Genova (disponibile on demand). Quella che segue è la versione integrale.
Polistrumentista, compositore e produttore discografico, Mauro Pagani ha lavorato con tutti i più grandi in Italia, ma soprattutto 14 anni con Fabrizio De Andrè, del quale ha conosciuto anche la viscerale passione genoana. In occasione del derby della Lanterna, si riaccendono vecchie memorie e assonanze. «Fabrizio non andava allo stadio», ha raccontato Pagani, «perché per lui era complicato, poi era pigro. Però l’ho visto molte volte guardare alla televisione le partite del Genoa con la sciarpa e il cappellino. Poi il rosso e il blu erano i suoi colori, quando poteva si vestiva di rosso e di blu, erano la sua bandiera».
Stare tanti anni con De Andrè significa forse capire Genova, culla dei cantautori, forse una delle città più cantate da parole poetiche.
La mia collaborazione con Fabrizio è iniziata per caso perché frequentavamo lo stesso studio di registrazione nei primi anni ’80 a Milano (De André aveva già lasciato Genova, ndr). Lui veniva da una esperienza con i miei ex colleghi della PFM (che Pagani aveva lasciato nel 1977, ndr) con i quali aveva fatto due dischi: loro li avevano riempiti di arrangiamenti con viole, violini, flauti, mandole e io dico sempre, un po’ ridendo e un po’ no, che Fabrizio mi assunse come musicista per tournée perché io suonavo 4 o 5 strumenti e quindi, da bravo genovese, lo facevo risparmiare!
Poi abbiamo cominciato a lavorare insieme, io lavoravo già da anni sulla musica mediterranea e ho cominciato a fargliela sentire, ma solo per una chiacchiera tra colleghi, perché ancora non pensavo che avremmo composto qualcosa insieme e perché pensavo che fosse musica incantabile in italiano. Finché a Fabrizio venne l’idea di fare un disco in genovese.
Inizialmente il disco che doveva essere scritto in grammelot, in una lingua inventata dai marinai che mescolava italiano, spagnolo, portoghese, arabo, in un unico miscuglio, poi Fabrizio mi disse, “ma il genovese è già una lingua, un impasto di altre lingue, con un sacco di parole che provengono da tutto il mondo”, e di colpo il disco ha trovato la sua strada, diventando molto vivo grazie al dialetto.
Nato a Pegli ma da genitori piemontesi, vissuto a lungo in Sardegna, ma genovese per cultura, De Andrè sembra un suddito in ritardo del Regno di Piemonte e Sardegna. Come viveva la sua città?
Però la sua idea era che lui apparteneva a Genova, e anche dal punto di vista calcistico il suo tifo per il Genoa era profondo, con grande trasporto. Il lunedì se il Genoa aveva perso bisognava stargli alla larga, già aveva un carattere non facile, ma se il Genoa aveva perso era anche peggio. In altri anni ci fu una retrocessione credo, quindi era difficile.
Il Genoa di Osvaldo Bagnoli, con Skuhravy e Aguilera, fece imprese importanti in Europa, vincendo per esempio a Liverpool, come la visse Fabrizio?
Aveva passioni che non avresti detto, data la sua figura di cantautore. Per esempio oltre al calcio era appassionato di astrologia. Se qualcuno doveva lavorare con lui, la prima cosa che gli faceva era il quadro astrale e se il quadro astrale non andava bene quella persona non aveva tante possibilità di farcela.
Altro esempio: un disco importante come “Le nuvole” dovevamo registrarlo nell’86, 87, ma lui fece le carte e disse “No, non va bene, dobbiamo registralo nell’88-89.” E così facemmo. Perché gli astri dicevano che avrebbe avuto molta fortuna e in effetti così è stato. Anche perché c’era una grandissima attesa. Credo che sia stato il suo disco più fortunato.
Pare che da giovane scrivesse su dei taccuini nei quali annotava maniacalmente formazioni calcistiche, tabelle salvezza, sogni di mercato, persino i nomi degli squalificati delle squadre che il Genoa si apprestava ad incontrare…
A lui non faceva paura fare i concerti come qualcuno ha scritto, gli piaceva molto in realtà, e ne ha fatti un sacco, come ha cominciato non ha più smesso. Lui era terrorizzato dall’idea di sbagliare. Era una sua piccola nevrosi, difatti non siamo mai riusciti una volta in vita sua a fargli fare una diretta televisiva.
Forse era anche consapevole della sua statura e si sentiva responsabilizzato.
Però poi il risultato era che ci sono dei testi suoi in cui, data quella metrica, dato l’argomento, è difficile pensare che ci potessero stare delle altre parole, perché aveva una grandissima conoscenza della lingua naturalmente, era molto colto, poi aveva anche una straordinaria capacità di sintesi, questa era la sua forza maggiore.
Aveva la capacità di spostare continuamente la macchina da presa, per cui la stessa storia cominciava a raccontarla da un punto di vista inaspettato. Per esempio Don Raffaè, che fin dal titolo era un po’ la storia di Cutolo, lui la racconta tramite la storia del secondino che lo aveva in custodia.
Quindi già parte mettendo l’occhio in un certo modo e ad ogni momento del racconto continua a spostarlo perché era un grande narratore, soprattutto in metrica. Forse in prosa questa sua ossessione per la precisione lo faceva essere un po’ macchinoso, doveva rifinire tutto, spiegare tutto, doveva chiarire tutto con periodi lunghi, mille virgole parentesi tonde, quadre e graffe… però in metro era il più bravo di tutti, non c’è stato mai nessuno bravo come lui. Un altro genovese molto bravo è Fossati, anche lui con le parole è un maestro.
Fossati, che mi risulta di antica fede sampdoriana… Come l’amico fraterno di Fabrizio, ovvero Paolo Villaggio, coautore di celebri canzoni come La guerra di Piero. I due amici-rivali di tifo pensavano cose simili sulla loro comune passione: «Quella per la squadra – diceva Fabrizio – è una fede laica, che nasce da un bisogno infantile»; mentre Paolo Villaggio diceva: «Utilizzo biecamente la Samp, il calcio, per tornare all’infanzia».
Su YouTube c’è la voce di De Andrè che in un concerto a Marassi nel ’91, augura alla Samp di vincere lo Scudetto (che poi effettivamente vinse): uno sfottò in piena regola. Da giovane aveva fatto anche un disco con i New Trolls, che erano quasi tutti doriani, soprattutto Vittorio De Scalzi (che ha anche scritto un inno della Samp), e so che anche lì si beccavano parecchio.
Invece De Andrè aveva rifiutato l’invito a comporre l’inno del Genoa, per eccesso di tifo, come spiegò: «Per fare canzoni bisogna conservare un certo distacco verso quello che si scrive e col Genoa proprio non si può».
Gianni Brera diceva che le due squadre di Genova non avrebbero mai potuto esprimere un football di grande livello per colpa della “macaia”. Puoi descriverla?
Credi che il calcio possa aiutare a ricucire lo spirito di una città spezzata in due dal crollo del Morandi, nonostante la rivalità del derby? Cosa avrebbe detto Fabrizio?
Soprattutto quando ci sono due squadre con una grossa storia, quando ci sono i derby, come l’ultimo che abbiamo perso al 92°, sono stato male una settimana. Sentire poi Icardi dire che segnare all’ultimo minuto è ancora più bello mi ha fatto attorcigliare le budella. Però è così, per cui se si dovesse fare una manifestazione unita con gli interisti la si farebbe, ma ciascuno rimarrà ben fiero della sua bandiera e gli sfottò a Milano non mancano mai.
«L’intelligenza deve essere leggera» ha detto Renzo Piano, un altro grande genovese, che sostiene che l’architettura è forma di bellezza al confine tra arte e scienza. È possibile che anche certe architetture calcistiche dotate di quella leggerezza, facciano bene alla città sfregiata?
Tutto questo è orribile, ma se da un lato mi viene da dire meglio che lo facciano lì dentro che fuori, come molti pensano, dall’altro si potrebbe tentare di vivere questa passione in un modo più leggero e migliore, non in modo così competitivo e razzista. Il problema del razzismo è molto grave, noi ce lo portiamo dietro anche come eredità storica, perché siamo una nazione costruita sulla retorica, eravamo la terra delle mille città, dei mille contadi. E il campanilismo spesso è anche l’anticamera del razzismo.
Devo dire che nella pratica l’integrazione in Italia funziona in tante situazioni, ma poi ci sono dei picchi di stupidità e di pregiudizio. Comunque, la bellezza, anche sportiva, aiuta. La bellezza è acqua benedetta.