Ogni giorno, la Nazionale belga allestisce il suo quartier generale nel più remoto angolo del parcheggio Sanseverino, in centro a Trento. È la Nazionale dell’atleta più atteso della manifestazione, Remco Evenepoel. Prima di ogni sua corsa, mentre fa i rulli per scaldarsi, la tv belga gli piazza davanti due operatori: uno regge una telecamera sempre accesa, un’altra gli fa penzolare a mezzo metro uno di quei microfoni oblunghi e pelosi che sembrano marmotte.
Vedendolo sudare forse un po’ troppo, un meccanico piazza davanti a Remco un terzo ventilatore. Il giovane belga - dal vivo il suo volto sembra davvero fanciullesco - finge di volare via, trasportato da tutta quell’aria che gli viene sparata addosso. Se la ride. Dà un sorso alla borraccia, cambia posizione delle mani sul manubrio, muove la testa a ritmo di musica di tanto in tanto. Il celeste della maglia belga è coperto in parte da un gilet refrigerante. Il ciuffo biondo/arancio ondeggia, mentre lo sguardo è fisso su un punto lontano, oltre il parcheggio.
Non accade fondamentalmente nulla, ma ha uno sguardo magnetico. Gli occhi sono spaventosi. Ganna, Kung e Bissegger sono quasi imbattibili sul percorso a crono di oggi, ma se qualcuno può batterli ha quegli occhi lì. Un minuto prima visualizza le curve del circuito di gara con una faccia da assassino, un minuto dopo il suo volto si apre in un sorriso verso i suoi meccanici. Deve parlare con uno di questi, quello che le tv belga fermano per interviste come fosse una rockstar pure lui. Fa segno al microfono-marmotta di allontanarsi, come a dire scusa, questa cosa non la puoi sentire neanche tu.
Tutto attorno, il silenzio è rotto solo dalla ferrovia e da due muratori che parlottano su un’impalcatura. Remco preme furiosamente il cambio, ultime frullate. Smette di pedalare, stacca e riaggancia il computerino di bordo, scende dalla bici. Con un colpo di trapano, un meccanico stacca il telaio dal rullo, dà il cinque a Remco prima che entri nel camper. Il cannibale sta per andare a mangiare l’asfalto della cronometro, l’evento con più star power di tutti gli Europei a Trento. Che oltre a Remco, però, sono stati anche tanto altro.
Volare veloce
La prima cosa che fa Vittoria Guazzini dopo l’arrivo è togliersi scarpe e calze. Si sdraia pancia in su mentre boccheggia affannosamente. Un tecnico della nazionale le mette un asciugamano sotto la testa mentre Marie Le Net le batte il pugno. Mancano tante atlete al traguardo del primo evento del giorno, la cronometro donne U23, ma finora il suo è il miglior tempo. Mancano l’altra italiana, Elena Pirrone, e la favorita Hannah Ludwig. Quando arriva, la tedesca si siede sul muretto del canale che attraversa Le Albere. Lo si costeggia sul rettilineo finale e giornalisti e fotografi devono stare attenti a non volarci dentro.
«Qualcuno ha parcheggiato dentro al canale, una volta» dice un cronista locale trattenendo a stento le risate. L’arrivo di Maria-Ecaterina Stancu non è accolto da nessuno: dopo essersi fermata a rifiatare qualche secondo, la ciclista rumena - la divisa ciclistica della Romania è perfetta - se ne va piano piano da sola. Torna verso il MuSe, le cui porte aperte lasciano spazio a un tappeto rosso che porta fino ai pullman delle squadre. È stata allestita, al piano zero, una mostra con alcuni ritratti di ciclisti. Alzando lo sguardo e cercando di non badare all’andirivieni di ciclisti, si intravedono statue di cera di uomini paleolitici. Il primo piano del Museo delle Scienze di Trento, mi pare di aver capito, è dedicato alla preistoria alpina.
Nessuna riesce a battere il tempo di Guazzini. Si commuove non appena arriva la certezza del titolo europeo, ma ai giornalisti risponde in modo molto composto. È del dicembre 2000, ma sembra nata per rispondere alle domande: «Non ho mai detto che le crono sono belle. Bisogna volersi un po’ male per arrivare al traguardo così stanche». Olimpionica a Tokyo nell’inseguimento a squadre, Guazzini una giovane regina dei watt. Vince ori europei su pista da quando aveva sedici anni, ma «tanti aspetti professionali posso ancora migliorarli. Per ora però va bene un po’ di spensieratezza: ci sarà tempo per limare su qualunque cosa».
Forse è per questo che non è attirata dal record dell’ora. «È dell’altra Vittoria, quindi in Italia» e le va bene così. Vittoria Bussi, che nel settembre 2018 è stata la prima donna a superare i 48 km nel record dell’ora, ha invece dovuto limare ogni dettaglio per poter battere il precedente primato mondiale. Nell’ultimo numero di Rouleur Italia, riguardo le prove contro il tempo Bussi scrive che «ogni cosa può essere tradotta in dati e coefficienti». Quello che passa nella menti di atlete a livello così alto, che per un certo lasso di tempo devono spingere più forte possibile sui pedali e possono contare solo su se stesse, è un mistero. «L’unica cosa che ti salva - continua Bussi - è non pensare a quello che stai facendo, alla pedalata e a tutto il resto. Devi costruire l’equilibrio dentro di te, accettando il disequilibrio. Se invece ti concentri sullo sforzo, è finita».
Parlando di velocità e dettagli in una cronometro, impressiona la risposta data da Stefan Kung a Ciro Scognamiglio, l’Adrian Wojnarowski del ciclismo ma con camicie più belle. Il cronoman svizzero ha appena vinto la prova per uomini elite e forse per la prima volta in carriera è riuscito a mettersi dietro tutti i più forti della specialità. È molto considerato dai colleghi, Kung, ma per qualche motivo la consacrazione non era mai arrivata. Scognamiglio gli chiede di quando, alla quinta tappa dell’ultimo Tour de France, era sull’hot seat del miglior tempo provvisorio, è arrivato Pogacar e l’ha stracciato: «La preparazione per una crono è lunghissima. I trenta minuti di sforzo richiedono mesi di ottimizzazione e cura di dettaglio e ricerca. Quella al Tour fu la mia miglior crono di sempre, avevo battuto tutti quelli che avevo sulla lista: Roglic, van Aert… poi arriva Tadej e mi batte di venti secondi. Ho fatto tutto quello che potevo, tutto perfetto. Non potevo fare di più eppure non è bastato. È stato frustrante. Mi sembrava di volare, ma qualcuno ha volato più veloce».
Senilità
Essendo arrivati in Trentino più di mille atleti da 39 nazioni, non è difficile incontrarne per strada. Un’atleta russa avvolta in una felpa bianca o Elia Viviani a spasso coi genitori passano inosservati. Gilberto Simoni non ha accredito né niente, è oltre le transenne come uno spettatore qualunque. Omar El Gouzi, invece, è qui perché corrono tanti suoi amici. È appena passato professionista con la Bardiani, ma cadendo dalla Forcola di Livigno si è distrutto. Ha un asciuttissimo fisico da scalatore, evidente nonostante un tutore sul torace che lo fa sembrare Superman. Una delle scene più strane, invece, mi è capitata sotto gli occhi la mattina della prova junior maschile. Un atleta lettone non meglio identificabile è steso su qualche lastra riflettente la luce del sole, a torso nudo. Il meccanico sta svuotando il furgone con adesivi amaranto, le montagne trentine e i fili del treno fanno da sfondo.
Il circuito su cui si svolgono questi europei non è lungo, solo 13.2 chilometri, ma molto tortuoso e veloce. Ogni giro equivale a circa 250 metri di dislivello positivo, quasi tutti guadagnati nell’ascesa verso Povo. Questa frazione ospita il cosiddetto polo collina dell’università di Trento, che abbassa decisamente l’età media delle persone in giro. Il signor Merz, per esempio, sta seduto su un muretto di mattoni a secco quando la strada curva verso sinistra e la salita inizia a diventare cattiva. Stando un paio di metri sopra l’asfalto, si leggono bene le scritte giganti per Marta (Cavalli o Lach?) e Cecilie (non c’è nessuna Cecilie in gara, nemmeno tra le U23 e le elite: curioso).
Al primo passaggio delle donne junior, accade qualcosa che si riproporrà in ogni singola corsa in linea successiva: già al primo passaggio sulla salita, qualche atleta non tiene il ritmo del gruppo e si stacca. «Sotto! Recupera che dopo è tardi!» incita il signor Merz, che si è tolto i sandali e si sta godendo il weekend di gare vicino casa. Un suo amico sul marciapiede lo afferra per la caviglia e fa per tirarlo giù, poi si mettono a chiacchierare di cura dell’orto, vitalità («è un ciclo un po’ per tutti») e ciclismo.
Il rettilineo subito dopo questo curva è il punto più duro della salita. A occhio sono trecento metri all’8%. Siccome è il punto del circuito in cui i corridori vanno meno veloci, rimangono nello spazio visivo dello spettatore per più tempo. Chi non vuole vedere un plotone sfrecciare via e si fa coinvolgere dalle facce sofferenti degli atleti nel pieno dello sforzo, è qui che deve venire. Inoltratasi la corsa, la macchina più brutta - quella con sopra il cartello “fine gara ciclistica” - deve recuperare posizioni. Quando sorpassa un corridore, la sua corsa è finita. Un portoghese è nell’ultimo gruppetto da un paio di giri e non ce la fa proprio più: accosta, rifiata, si guarda indietro, lascia passare il fine corsa. La sua sofferenza è finita.
Quando una ragazza ceca butta la borraccia per prenderne una nuova dal suo massaggiatore, una donna con un foulard legato attorno al collo scatta per raccoglierla. La signora, Daniela, è venuta col marito dalla provincia di Pordenone per gli Europei. È qui in camper da mercoledì e starà fino a domenica. Hanno parcheggiato tra un albero e la vigna, in pole position.
Daniela mi mostra, tra le altre cose, la lista di atleti che il marito ha scritto a mano per ricordarsi nome e numero. Ha segnato tutti i nomi dei favoriti, da Pogacar a Evenepoel passando per Mohoric e Almeida, tutti quelli degli italiani (dal #30 di Bagioli al #37 di Ulissi) e Imanol Erviti. Trentasette anni, tre sole vittorie da professionista. Questa apparizione random di Erviti mi ha ricordato un’altra cosa random: con Alejandro Valverde, forma la coppia con più giorni di gara assieme ancora in attività. 605 mattine che questi due si sono svegliati e hanno approcciato una gara di biciclette da compagni di squadra.
Questo signore qui, invece, dice che il cappellino della Lampre lo tira fuori solo per le occasioni più importanti.
È il momento di andare all’arrivo. Incrocio tre persone nel tragitto. Il primo è uno studioso, uno storico, che ha passato la giornata in biblioteca a fare ricerche sull’agricoltura nelle valli trentine tra Quattro e Cinquecento. «Ma ho fatto i calcoli e ogni venti minuti circa chiudo i libri e mi affaccio alla finestra per vedere la gara». Il secondo è Anton Vos, fratello di Marianne. È un fotografo con cui avevo scambiato due chiacchiere al Giro Donne. Sta lavorando molto, dice, e questa cosa che in Italia non si mangia puntuali alle 18:00 lo infastidisce. Presso la curva, a 700 metri dall’arrivo, in cui vengono deviate le ammiraglie, la terza persona: un attempato signore con la maglia Never underestimate an old man with a bike. Perfetto.
Un po’ grezza
Passeggiando per il centro di Trento, si notano bandierine blu della UEC appese tra i palazzi. I camerieri nei bar hanno il grembiule firmato Europei di ciclismo. I gestori dei locali sono contenti perché in città è arrivata tantissima gente, ma uno di questi è un po’ preoccupato: «Non è che quando passano in gruppo lo spostamento d’aria mi fa volare via cartelli e menù, vero?».
In centro a Trento il pavé è una difficoltà in più. Il giro finale è lo stesso in ogni gara: curva secca verso destra in via Belenzani per arrivare in piazza Duomo. Qualunque tipo di edificio si affaccia su via Belenzani, da uno dei primi esempi di architettura rinascimentale trentina, Palazzo Geremia, a una casa-torre detta anticamente del Marcolino. Il pavé ha spaventato Silvia Zanardi, che il giorno prima ha regolato Evita Muzic e Kata Blanca Vas allo sprint per vincere l’oro nella prova U23: lo definisce «abbastanza» pericoloso. Dall’ultima curva, chi esce più indietro della seconda posizione è spacciata.
Oltre a questa, finale e scenografica perché ci si lascia alle spalle la facciata in marmo rosso della Valsugana della chiesa di San Francesco Saverio, la curva più bella del tracciato è alla fine del pavé, quando via Bernardo Clesio porta i ciclisti fuori dal centro città. Stando all’interno, si vedono i ciclisti toccare appena i freni e piegarsi verso destra, nel tentativo di perdere meno velocità possibile. Riescono a stare a venti centimetri dalla ruota chi li precede anche in precario equilibrio. Nello stesso colpo d’occhio, sullo sfondo, il castello del Buonconsiglio, uno dei complessi fortificati più imponenti sulle Alpi. Se fosse un ciclista, il castello del Buonconsiglio sarebbe Reto Hollenstein: dimostra meno anni di quelli che ha realmente ed è davvero enorme.
C’è grande attesa, nella gara degli U23, per Juan Ayuso. È la prossima grande cosa del ciclismo spagnolo e quest’anno, tra aprile e giugno, ha dominato in Italia: dopo aver vinto Trofeo Piva e Giro del Belvedere, ha vinto tre tappe generale al Giro d’Italia U23. La UAE Emirates lo mette sotto contratto fino al 2025 e gli fa correre qualche corsa di un giorno in cui va benissimo. Al Giro dell’Appennino, per esempio, arriva nella top-20, poco distante da un Davide Rebellin che ha quasi il triplo dei suoi anni.
Poi Ayuso torna tra i ragazzini al Tour de l’Avenir, ed è costretto a ritirarsi per una brutta caduta durante la quarta tappa. Qui in Trentino sembra voler fare sul serio: fin dal primo giro ha messo la squadra davanti a tirare e quando si decide la corsa ha la gamba per stare davanti. In volata viene battuto solo da Thibau Nys, figlio di Sven, e Filippo Baroncini, che era sicuro di vincere perché «pensavo di essere il più forte in volata».
Ayuso è molto più rilassato rispetto al Giro U23. Quando arriva in mixed zone, chiede ai giornalisti una bottiglia d’acqua. Gli propongo la mia borraccia, ride e mi fa capire che no, se non è qualcosa di sigillato non può accettare. Volevano proprio rendere la corsa «una carrera loca», dice mentre gli passano finalmente qualcosa da bere e una telecamera stringe l’inquadratura sulla sua medaglia di bronzo. Al collo porta una medaglietta d’oro che gli regalò la nonna appena nato, sogna di vincere una grande corsa a tappe e preferisce le salite lunghe e dure, ma «è una cosa buona se vengo considerato il favorito in tutti i tipi di tappa».
L’unica corsa in linea che non termina in uno sprint a ranghi ridotti è la prova elite femminile. Mancano più di cinquanta chilometri, quattro giri sugli otto totali, quando Paladin, Kasper, Biannic e van Dijk si lanciano all’attacco. Quest’ultima, passista olandese vincitrice della prova a cronometro mondiale nel 2013, è l’ultima olandese che ci si immaginava là davanti. E invece fa un ritmo indiavolato. Cedono tutte, Soraya Paladin per ultima. Prima della partenza, sua sorella Asja mi ha raccontato del ritiro alla Transiberica Badlands, quando un colpo di sole l’ha costretta al ritiro. Era così stordita dal caldo che, fermatasi un secondo all’ombra, tremava dal freddo. In due occasioni molto diverse, le sorelle Paladin sono andate vicinissime all’impresa e, sul più bello, qualcosa è andato storto. Eppure ad Asja e Soraya per divertirsi su una bici basta una cosa sola, e il resto è secondario: pedalare.
Ellen Van Dijk non si prende più. Dietro di lei, la volata per il podio è vinta dalla giovane tedesca Liane Lippert, seguita dalla lituana Rasa Leleivyte. Su una prova in linea, potrebbe essere il miglior risultato nella carriera di tutte e tre. Nessuna italiana sul podio, diversi no names per il grande pubblico: risultato? In conferenza stampa per fare domande alle migliori cicliste d’Europa c’è solo una mezza dozzina di giornalisti. Le cose migliori escono proprio dalla bocca di Leleivyte, che sembra ancora scioccata dal risultato ottenuto.
«È un miracolo per la Lituania» ammette Rasa, che corre da anni in una squadra in provincia di Prato. Riuscita a rientrare, in qualche modo non ha più perso contatto e ha pensato che beh «se non me la gioco oggi, non mi capita più». Elencando le attività che fa col figlio, si definisce «un po’ grezza. Ci piace andare a pescare e camminare nel bosco, raccogliere i funghi». Quando dice che ha dovuto smettere, diversi anni fa, per la maternità, le altre due la guardano con un misto di incredulità e ammirazione.
Il morso del Cobra
Thibaut Pinot ha il cuore leggero prima della partenza. Sta sgranocchiando le ultime cose, nulla di particolarmente professionale: da quelle bustine di cartone tipiche di qualunque panetteria italiana sembra fuoriuscire un pezzo di focaccia. Si aggira placido nei pressi del pullman della sua nazionale e, quando tutti i suoi compagni di squadra lasciano il quartier generale francese per dirigersi verso la partenza, lui si prende qualche altro secondo. Sale sulla bici tenendo stretto un pasticcino nella mano sinistra, con la bocca piena saluta il massaggiatore. Non vince una corsa da quella volta sul Tourmalet e non è certo arrivato a Trento con speranze di medaglia, ma dopo problemi fisici e dubbi sul suo futuro da ciclista professionista, perlomeno si sta divertendo.
Quella degli uomini elite è la gara con più partecipanti, quindi si vede di tutto. Un’ammiraglia per i due ciclisti monegaschi, il ragazzo azero che fa i rulli reggendosi alla macchina, la spaziale bici Merida di Mohoric con gli adesivi di campione nazionale sloveno. Buona parte della delegazione islandese si è radunata e si muove in gruppo per supportare Ingvar Ómarsson e Hafsteinn Ægir Geirsson con tanto di bandierine.
Foto di rito, prima della partenza, per la nazionale albanese. Uno solo dei quattro corridori al via è professionista in tutto e per tutto: Ylber Sefa, il primo da destra.
Che non sia la giornata di Peter Sagan lo si capisce abbastanza presto. Sono passati sì e no cinquanta chilometri di corsa quando il tre volte campione del mondo perde le ruote del gruppo principale, non appena si imbocca la strada del Bondone. Lo ritrovo molto tempo dopo nel camper, seduto e non curante della corsa. Il camper di Sagan (lo userà solo Peter Sagan? Al fratello Juraj è permesso entrarci?) è griffato dal suo logo e dal suo nome ripetuti un migliaio di volte. Vicino alle specchietto retrovisore, una delle frasi più celebri di Sagan: «Ridono di me perché sono diverso, io rido di loro perché sono tutti uguali».
Diverse persone si sono radunate attorno al camper di Sagan per seguire il finale della corsa: da una parete fuoriesce una tv gigante. Il gruppo si screma sempre di più, finché rimangono solo Evenepoel e Colbrelli. «Ho fatto sette minuti full gas nella speranza di staccarlo. L’ultimo giro è stato davvero on the limit» dirà Remco in seguito. Colbrelli gli si francobolla a ruota. Lo sorpassa all’ingresso dell’ultima curva e allo sprint Evenepoel non ha mezza chance. Remco sapeva che non poteva permettersi di portare con sé un solo corridore, Colbrelli, ma non è riuscito a evitarlo. Per questo all’arrivo ha (e qui si vede tutta la naturale e comprensibile frustrazione di un ventunenne) mandato a quel paese Colbrelli.
Già in conferenza stampa è tutta un’altra persona. Non fuma di rabbia né se la prende con se stesso. La prima cosa che dice («innanzitutto voglio dire congrats a Sonny») rivela che forse si è pentito, di avergli fatto il gesto dell’ombrello dieci minuti prima. Scherzando, spera che Colbrelli non sia competitivo anche al Mondiale, più che per un fatto tecnico perché sennò «in gruppo ci sarà pochissima alternanza di maglie», essendo Sonny sia campione italiano che europeo che potenzialmente mondiale.
È un Remco nuovo, con più fiducia in se stesso. «Quei problemi non mi appartengono più» confessa quando gli chiedono dei miglioramenti nel guidare la bici, nel rimanere coi migliori in discesa. Poco dopo a Colbrelli viene chiesto se si sente il ciclista più forte del mondo. Rimane spiazzato, come se tutto attorno a lui stesse succedendo troppo velocemente. I migliori risultati in carriera (classifica a punti del Delfinato, campionato italiano, tappa e generale al Benelux Tour, secondo Memorial Pantani), effettivamente, Colbrelli li ha ottenuti al trentunesimo anno d’età.
«Devo stare coi piedi per terra» minimizza il valsabbino, ma è uno dei più temuti al Mondiale belga, tra pochi giorni (il 26 settembre). Si sentiva uno dei favoriti per l’Europeo e vincere da favoriti è sempre più difficile. Ci saranno Van Aert e Van der Poel, ma un Cobra così forse lo è davvero, il ciclista più forte del mondo.