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Lo sport non può educarci all'ingiustizia
14 giu 2024
14 giu 2024
Cosa ci dicono le medaglie italiane agli Europei d’atletica.
(articolo)
5 min
(copertina)
IMAGO / Sports Press Photo
(copertina) IMAGO / Sports Press Photo
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Certo deve essere scioccante, per alcuni, guardare la foto del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, canuto e con un un sorriso sempre un po’ ironico, insieme a una ragazza dalla pelle scura e i capelli fucsia, e pensare: questi due sono entrambi italiani. La ragazza è Zaynab Dosso, nata in Costa d’Avorio e arrivata in Italia a nove anni per raggiungere i genitori, ha avuto la cittadinanza nel 2016 ed è arrivata terza nei 100 metri piani, agli ultimi Europei di atletica leggera.

L’Italia ha concluso con 24 medaglie (di cui 11 ori) e le foto degli atleti in pettorina azzurra, tutti giovani e sorridenti, hanno riempito i nostri social per tutto il weekend e oltre. Tutti diversi, questi italiani, alcuni più diversi degli altri oppure, come direbbe un neo-parlamentare europeo, statisticamente non normali. Certo c’è chi non ci avrà fatto nemmeno caso, chi vive già in quell’Italia, ma non è difficile immaginare a quante persone abbiano dato fastidio i successi di questi giorni.

Per quelle persone, appunto, bastano le foto. Io, invece, vorrei rivolgermi a chi di fronte al sorriso di Simonelli, che telefona ai nonni in Swhaili, o a quello che arriva fino alle gengive di un disidratato Yeman Crippa, o di fronte ai capelli di Dosso, appunto, non prova disappunto ma, anzi, ci vede un’altra normalità.

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Sarò breve. Quasi tutti questi atleti con origini non-italiane, hanno in comune una cosa più importante del colore della pelle, più o meno più scuro di quello di Mattarella: hanno un genitore italiano. Simonelli è nato in Tanzania, figlio di un antropologo italiano e una donna tanzanese. Mattia Furlani è figlio di due atleti, il padre italiano faceva salto in alto con il padre di Tamberi, mentre la madre velocista è arrivata in Italia quando aveva 15 anni, con i genitori senegalesi.

Marcell Jacobs, questo lo sanno tutti, ha la madre italiana e padre texano che, parole sue, gli ha dato dei “muscoli pazzeschi”. Yeman Crippa è stato adottato da una coppia di Milano. Nadia Battocletti è figlia di un mezzofondista e maratoneta italiano e di una mezzofondista marocchina. Questo non è un caso, ma è diretta conseguenza della legge del nostro Paese, basata sul principio giuridico dello ius sanguinis, per cui si ottiene la cittadinanza automaticamente solo se almeno uno dei genitori è italiano. Per chi non ha genitori italiani, o anche avi lontani con il nostro passaporto, la questione si complica moltissimo.

Solo Zaynab Dosso e Chituru Ali hanno entrambi i genitori di origini straniere e, infatti, hanno ricevuto la cittadinanza, e hanno potuto rappresentare l’Italia, più tardi. Al momento lo ius soli sportivo in vigore permette a minori stranieri (accompagnati e con almeno dieci anni) di essere tesserati nelle varie federazioni, ma non di essere inseriti nelle selezioni nazionali. Il che significa, comunque, che hanno meno opportunità.

Quanti potenziali atleti hanno mollato prima, scoraggiati? Quanto sono effettivamente rappresentati nelle nostre Nazionali questi italiani-che-non-sono-ancora-italiani? Soprattutto: come fa a starci ancora bene una cosa del genere, del tutto immotivata rispetto alla realtà attuale del nostro Paese?

Malagò, già dopo l’oro di Jacobs agli scorsi Giochi Olimpici, aveva chiesto maggiore rapidità nell’iter burocratico che garantisse la cittadinanza - a chi ne aveva diritto - al compiere dei diciotto anni. Un anno fa è tornato a parlarne in relazione alla crisi demografica italiana: «Abbiamo perso 5 milioni di italiani tra i 18 e i 35 anni che sono formalmente, salvo rare eccezioni, quelli che vanno alle Olimpiadi», chiedendo uno «ius soli sportivo in automatico».

Lo ius soli sportivo può essere una soluzione tampone ma comporta un discorso pericoloso. Perché parlare di diritti con uno scopo competitivo, come mezzi cioè per arrivare a delle medaglie - privilegiando gli sportivi rispetto agli studenti e ai lavoratori (o agli sfaccendati, se è per questo) - rimanda a un tipo di visione del mondo alla Hunger Games, in cui i vincitori di determinate gare possono essere accolti all’interno della nostra comunità nazionale, mentre per gli altri, pazienza - in Hunger Games i partecipanti al gioco venivano chiamati “tributi”, come quelli che si sacrificavano agli dei nell’antichità.

In questo senso, i diritti vengono confusi con delle specie di premi per determinate categorie di persone, o di individui particolarmente eccellenti. Dosso e Ali ce l’hanno fatta, nonostante tutte le restrizioni che si sono trovati davanti, allora meritano la cittadinanza velocemente.

Dietro alle difficoltà ad adottare una norma omeopatica come lo ius soli sportivo, e a quelle ancora più grandi per cambiare le leggi sulla cittadinanza, c’è una crescente ostilità verso gli immigrati e gli stranieri in generale. La retorica per cui “non si possono accogliere tutti”. Allora forse dietro la questione dei diritti c’è quella della gestione delle risorse materiali, economiche e naturali. Misure come quella di privare un bambino di determinati diritti, per quanto disumane, sembrano anche ridicole: come se non ci fossero abbastanza diritti per tutti, come se da un momento all’altro potessimo trovarci a corto di cittadinanze. «Salve posso avere una cittadinanza?». «Mi dispiace, sono finite».

Come se non ci siano abbastanza piste in cui correre, sabbia in cui saltare, martelli da lanciare per tutti. Come se non ci siano posti nelle selezioni nazionali per tutti e che, allora, alcuni vadano esclusi, privilegiando non le misure migliori - i più veloci, i più forti - ma i cognomi italiani, rispetto a quelli dal suono straniero. Oppure, se neanche il cognome va bene, che almeno uno dei due genitori a bordopista abbia le sembianze di quello che si ritiene siano gli uomini e le donne italiane.

In un Paese che sotto molti aspetti cade a pezzi, in cui le risorse e le opportunità sono e saranno sempre di meno, lo sport non può educarci all’ingiustizia. È vero, con lo ius soli sportivo le istituzioni hanno fatto un timido passo avanti per alleviare una situazione altrimenti drammatica per i minori stranieri in Italia. In questo senso, chissà che le medaglie di questi giorni, questi sorrisi nuovi, non possano essere un messaggio di speranza per il futuro. Non solo per gli sportivi, ma per tutti.

La normalità non può diventare la discriminazione, la distribuzione arbitraria di diritti e opportunità. So che sono discorsi che a qualcuno fanno storcere il naso, proprio perché non si sente privilegiato in nessun modo, proprio perché lui per primo deve lottare e faticare per i suoi di diritti e per le sue di risorse. È così per quasi tutti, anzi. A maggior ragione, però, questi sono temi che ci riguardano più da vicino di quanto non pensiamo.

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