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Calcio Redazione 29 giugno 2021 10'

Dagli oriundi a Moise Kean

Un estratto da “Azzurri – Storie della nazionale e identità italiana”, edito da UTET.

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Pubblichiamo un estratto dal libro “Azzurri – Storie della nazionale e identità italiana” di Paolo Colombo e Gioachino Lanotte edito UTET. 

 

Poi, è arrivato il nuovo millennio. E, per quanto gli storici di professione sappiano benissimo che di fatto simili spartiacque temporali rispondono a mere convenzioni e in sé e per sé lasciano perlopiù il tempo che trovano, non ci si può nascondere dietro un dito. L’Italia sta cambiando: volente o nolente. Gli italiani stanno cambiando: volenti o nolenti. E il football, ancora una volta (come può stupirci, arrivati a questo punto?), è specchio preciso di queste trasformazioni. 

 

Così, il calcio italiano – e con lui la nazionale – cambia: in parte quasi di necessità, automaticamente, in conseguenza del mutato ambiente in cui è immerso, in parte perché si sforza (con i più diversi obiettivi) di cambiare. Un episodio risulta sfacciatamente emblematico. 

 

È il 23 marzo 2019. L’Italia gioca contro la Finlandia un match valido per la qualificazione agli europei 2020. Al centro dell’attacco è schierato titolare un giovane di belle speranze. Ha debuttato in maglia azzurra solo quattro mesi prima, il 20 novembre 2018, in un’amichevole vinta 1-0 contro gli Stati Uniti. Quando è nato, a Vercelli il 28 febbraio 2000, i genitori lo hanno battezzato Moise: nome impegnativo, di chi è destinato ad aprir la strada per le proprie genti, nome che si rivelerà appropriato. 

 

La strada per Moise, in quel match, si rivela però sorprendentemente in salita. Nonostante la palese superiorità tecnica rispetto ai finlandesi, gli azzurri trovano difficoltà: lo 0-0 non si schioda e corriamo pure qualche grosso rischio in difesa. Ma al settantaquattresimo Ciro Immobile taglia la difesa con un filtrante secco verso l’area, Moise si muove bene e non ci pensa due volte: fa secco Lukáš Hrádecký, il portiere dei finnici. 1-0. Poi raddoppierà Fabio Quagliarella e ci porteremo a casa gli importanti tre punti. 

 

Moise ha diciannove anni e ventitré giorni e, primo nato nel 2000 a vestire la maglia azzurra, diventa così il secondo più giovane marcatore nella storia della nazionale dopo Bruno Nicolè (promessa – purtroppo solo in parte mantenuta – degli anni cinquanta-sessanta, che andò a segno non ancora diciannovenne e rimane a tutt’oggi il più giovane pure ad aver portato la fascia di capitano: lo troviamo fugacemente immortalato nel 1959 nel finale della canzone Che centrattacco!!! del Quartetto Cetra). 

 

È il primo segno dell’avvento della Generazione Z: “quelli che il calcio” lo hanno vissuto e lo vivono in maniera diversa da chi li ha preceduti, attraverso Fantacalcio e PlayStation, globalizzati da martellanti informazioni sui campionati di tutto il mondo, sovrastimolati da ore e ore di immagini, video e post, pronti per il VAR e via via dimentichi dell’“arbitro cornuto”.

 

Insomma, i giovani. Forse nuovi «barbari», pronti a demolire vestigia di civiltà costruite in secoli di paziente impegno, forse gli unici in grado di giocare il «game» del futuro. Futuro che, ci piaccia o no (la modernità non è reversibile), sarà appunto il loro campo di gioco.

 

Lo ha capito benissimo, a quanto pare, il CT Roberto Mancini, che ha inaugurato una linea verde nelle convocazioni in nazionale con tale evidenza da indurre la Federazione ad avvallare un’operazione di marketing chiaramente voluta dallo sponsor, ma capace di costituire anche una simbolica sottolineatura ricca di connotati storici. Il 12 ottobre 2019, infatti, si è giocata e vinta contro la Grecia una partita delle eliminatorie europee nella quale però gli azzurri non erano tali: Bonucci e compagni vestivano un’anomala maglia verde (messa sul mercato con il marchio “Rinascimento”) che avrebbe voluto evocare, oltre a modelli estetici di smaccato Made in Italy, la rinascita del nostro calcio dopo la misera esclusione dal mondiale 2018. Anche in questo caso, c’è un precedente: nel 1954 l’Italia sconfisse per 2-0 l’Argentina a Roma e, per dovere di ospitalità, lasciò l’uniforme biancoazzurra agli avversari indossando una maglia verde, che sarebbe poi restata a lungo dotazione delle nostre formazioni giovanili, ai cui componenti sarebbe stato emblematicamente concesso l’azzurro solo nella nazionale maggiore, a piena maturità raggiunta. 

 

Eccolo, dunque, il verde come evocazione della gioventù. Ma, si potrebbe giustamente obiettare, il ricambio generazionale nello sport è cosa del tutto naturale, fisiologica. E con ciò riprendiamo il filo dal quale eravamo partiti: quale particolare valore simbolico avrà mai il gol segnato dal diciannovenne Moise contro la Finlandia? 

 

Il fatto è che Moise di cognome fa Kean, ha pelle scura e (nel giorno in cui segna alla Finlandia) treccine rasta. I suoi genitori vengono dalla Costa d’Avorio, ma lui è nato a Vercelli. Ingenuo nascondersi dietro a un dito, dicevamo: qualcosa sta cambiando. Gli stranieri residenti in Italia, secondo i dati del 1º gennaio 2019, sono 5 255 503 e rappresentano l’8,7 per cento della popolazione. Superfluo inseguire dati aggiornati, che peraltro cambiano in continuazione e sono in costante crescita, il che vale anche per i flussi migratori più o meno censibili in atto. Ed è forse scontato, ma obbligatorio, ricordare che il fenomeno non è solo italiano, ma pressoché globale. 

 

Come cambia allora il senso di appartenenza italiano restituito (e alimentato) dal calcio e dalla nazionale, in questa situazione? Lasciamo da parte l’ormai incontrollato afflusso di giocatori stranieri che – a partire dalla famigerata sentenza Bosman del 1995 – ha trasformato completamente la percezione dell’“italianità” delle squadre di club. Restiamo alla nazionale: quel che non può non accadere è che la squadra azzurra sta cambiando, come gli italiani stessi, i propri connotati. Ma non dobbiamo credere di trovarci davanti a un fenomeno del tutto nuovo, privo di radici nel passato. Alle spalle, come sempre, c’è una lunga storia. Una lunga storia che non manca di lasciare un segno nella costruzione del nostro senso di appartenenza nazionale. Essere italiani ed essere stranieri: questo è il punto. Dove sta la linea di discrimine? Dove il confine? E se quel confine c’è (o lo si può anche solo definire), sarà fisso o flottante? Si potrebbe ragionevolmente pensare, infatti, che la maglia azzurra escluda gli stranieri. Ovvio, ma anche un po’ troppo semplice. Sorge molto presto, la questione degli “oriundi”: 

 

oriundo agg. e s. m. (f. -a) [dal lat. oriundus, der. di oriri «nascere»]. – Originario di un determinato luogo, detto in genere di chi, nato e residente in una città o nazione (di cui ha anche acquistato la cittadinanza), discende da genitori o antenati là trasferitisi dal paese d’origine. In partic., come s.m., e per lo più con uso assol., atleta, spec. giocatore di calcio, di nazionalità straniera, ma di origine italiana, assimilato nella normativa sportiva ai cittadini italiani e perciò ammesso a far parte della squadra nazionale azzurra.

 

 A monte della questione c’è, naturalmente, l’antichissima e quasi sempre dolorosa pratica dell’emigrazione, che per gli italiani assume dimensioni enormi, più che per altri popoli. Per quanto qui rileva, vale rimarcare che l’emigrazione italiana all’estero, soprattutto verso le Americhe, dura decenni anche e soprattutto dopo l’unificazione, e dunque rappresenta già di per sé una tessera fondamentale nel puzzle della nostra coscienza collettiva in via di formazione. 

 

Di fatto, milioni di italiani finiscono per andare a rifarsi una vita (e dunque a radicare se stessi e la propria famiglia) altrove. E quindi, per quanto concerne quelli che tra loro praticano il football, anche in terra straniera, con risultati sopra la media, si pone il problema di un eventuale impiego in maglia azzurra: problema che sorge fin dai primi anni del movimento calcistico, come si accennava. 

 

Si potrebbe anche sostenere che non sia del tutto un caso, se appena due anni dopo la nascita della squadra nazionale (gennaio 1910) viene adottata la normativa che regolerà fino al 1992 l’acquisizione del diritto di cittadinanza all’ombra del tricolore, e che sostanzialmente introduce, proprio per garantire ai figli dei nostri emigrati il mantenimento del legame con il paese d’origine degli ascendenti, un’eccezione al principio dell’unicità della cittadinanza. Già il codice civile del 1865 aveva riconosciuto come italiani per derivazione paterna i figli di cittadini a prescindere dal luogo di nascita, ma ora si consentiva al figlio di un italiano nato in uno Stato estero del quale avesse acquisito cittadinanza secondo il principio dello ius soli di conservare la cittadinanza italiana di nascita anche se il genitore l’avesse persa durante la sua minore età. In sostanza, si aprivano le porte alla doppia cittadinanza. 

 

E il calcio pratica il terreno degli oriundi con sensibile tempestività, perché l’italoargentino Eugenio Mosso (noto come Mosso III per distinguerlo dai tre fratelli che, come lui, vestono la maglia del Torino), mette in carniere la sua pur unica presenza in nazionale già il 5 aprile 1914, nell’amichevole contro la Svizzera. La prima guerra mondiale imminente non manca poi di lasciare il segno (è il proprio il caso di dirlo!) sugli oriundi, se Giovanni “Johnny” Moscardini, nato nella cittadina scozzese di Falkirk da una famiglia di emigrati italiani, sarà ferito nella battaglia di Caporetto: ma ciò non gli impedirà di giocare poi nella Lucchese e nel Pisa e di accumulare nove presenze in azzurro tra il 1921 e il 1925 con ben sette reti all’attivo. Prima di lui, il 18 gennaio 1920 al velodromo Sempione di Milano contro la Francia (9-4), vestono l’azzurro anche Ermanno Aebi (centrocampista d’attacco dell’Inter e in seguito arbitro di serie A, nato a Milano da padre svizzero e madre italiana) e l’italoargentino Cesare Lovati (centrocampista del Milan, nato a Buenos Aires). 

 

Sono le prove generali per l’esplosione di oriundi degli anni trenta: Monti (unico ad aver disputato due finali di coppa del mondo con maglie diverse, nel 1930 con l’albiceleste argentina e nel 1934 con l’azzurra), Orsi, Guaita, Demaria, Guarisi, Andreolo, Libonatti, Sansone… sono protagonisti primari e minori di una fase tanto epica e folta di trionfi nella Coppa Internazionale e nei mondiali che non necessita qui di altre parole. Vale forse dedicare un cenno al bomber paraguayano del Napoli Attila “Veltro” Sallustro, primo giocatore “partenopeo” in nazionale (che, come abbiamo visto, dopo l’ascesa di Meazza si perse quella fantastica fase di successi, giocando in azzurro solo due volte, nel 1929 e nel 1932), e ancor più a Renato Cesarini, che pochi sanno essere stato un italoargentino e che rimarrà per sempre nella storia del nostro calcio per la mitica “zona” che da lui prende nome.

 

Più importante – ai fini della nostra storia nazionale – è rimarcare come, nelle vittorie calcistiche dell’antinternazionalista Italia di Mussolini – che costringe l’Internazionale di Milano a mutar nome in Ambrosiana – risulti determinante il contributo di tanti atleti nati all’estero e in alcuni casi con sangue straniero nelle vene. 

 

Sarebbe stato Edoardo Agnelli, all’indomani dell’emanazione della Carta di Viareggio dell’estate del 1926 (con la quale, come si è già accennato, si organizzava il calcio italiano secondo una logica a metà tra fascismo e protezionismo che introduceva di fatto il professionismo ma vietando l’impiego di giocatori non italiani), a porre al Duce il problema degli oriundi, nel corso di un colloquio vis à vis. Agnelli, che ha già sguinzagliato osservatori juventini in giro per il Sudamerica, parla di ingiusto accanimento contro chi ha sofferto l’abbandono del suolo natio, di una grande patria oltreoceano che riscatta la nostra diaspora migratoria, di figli dell’Italia da riportare a casa. Mussolini immagina forse un enorme serbatoio di nuovi fascisti da arruolare in camicia nera e poi in grigioverde e acconsente. 

 

E non è un azzardo, pensare che in sottotraccia al tema degli oriundi corra un leitmotiv militare. Ci sono infatti polemiche sull’impiego in maglia azzurra di giocatori, specialmente di quelli che hanno già militato in altre rappresentative nazionali, che tolgono spazio ai talenti nostrani: il CT Vittorio Pozzo, con i suoi soliti toni da ex combattente alpino, sgombra il campo: «Se i figli d’oltremare dell’Italia sono buoni per andare sotto le armi, sono buoni anche per difendere i colori della nazionale». Mossa argomentativa perfetta: almeno finché si resta in tempo di pace e gli oriundi servono per portarsi a casa due Coppe Rimet consecutive. 

 

Ma le cose si complicano dopo il 1940, quando è ormai scoccata l’ora «delle decisioni irrevocabili». Si tratta appunto di decidere, e giocatori famosi come Orsi e Guaita, che ricevono la cartolina assieme a colleghi rimasti meno noti come Alessandro (Alejandro) Scopelli e Andrea (Andrés) Stagnaro, decidono: se la filano (non poco saggiamente) in Francia e tanti saluti alla grande patria italiana. «Il caso provocò uno scandalo nazionale, e le autorità fasciste accusarono i quattro di codardia, furto e contrabbando. Nessuno di loro giocò mai più in una squadra italiana né in nazionale.» 

 

Ovvio che il tema militare perda i suoi toni accesi nel più disteso clima del dopoguerra, quando però cominciano a scottare i contenuti “colonialisti” dello sfruttamento delle ricche potenze “bianche” nei confronti dei vivai calcistici dei paesi più poveri. Molte federazioni, soprattutto sudamericane, fanno resistenza: si arriva, nelle competizioni di maggior visibilità, a lasciare a casa i migliori talenti per non vederseli portare via. Ma tant’è: anche con le polemiche e le tensioni della decolonizzazione alle porte, si fa di necessità virtù. E gli italiani – malgrado un imbarazzante passato di imperialismo africano e un disinvolto rinfoltimento oriundo delle proprie rappresentative calcistiche – sono maestri, in questo. 

 

Non dimentichiamolo mai, però: la questione degli oriundi è sempre un’altra faccia del problema migratorio. E nei primi anni del dopoguerra l’Italia povera e disperata di sempre – che non è scomparsa ma semmai ha visto ingrossare le proprie file per effetto del conflitto – approfitta della caduta delle barriere imposte dal fascismo e torna a fluire verso l’estero alla ricerca di un lavoro e di una vita decente: Francia e Belgio (dove le miniere assorbono manodopera alle più infime condizioni), Sudamerica (Venezuela, Colombia, Brasile…), Canada, Australia.

 

È l’Italia che si avvia faticosamente alla Ricostruzione segnata dalle tragedie. Anche calcisticamente, l’abbiamo detto: occorre iniettare nuove forze nella nazionale dissanguata dal disastro di Superga. E mentre gli italiani migrano altrove a migliaia, si alimenta l’apparentemente paradossale controflusso dei giocatori oriundi. A giustificarlo sarebbero i risultati sconfortanti degli azzurri, miseramente estromessi al primo turno del mondiale 1950. Né la situazione migliora in seguito. Il 17 maggio 1953 l’Italia affronta l’Ungheria a Roma per la Coppa Internazionale: si inaugura il nuovo stadio Olimpico e in tribuna c’è il presidente della repubblica. Un umiliante 0-3 mette sotto gli occhi, non solo di Luigi Einaudi ma di tutti gli italiani, la carenza tecnica del vivaio azzurro, e il commissario tecnico Beretta rassegna le «dimissioni – si direbbe quasi – “nelle mani” proprio del capo dello Stato».

 

Nemmeno due settimane dopo, il 29 maggio, Giulio Andreotti, sottosegretario agli interni nel penultimo governo di un’era De Gasperi ormai al tramonto, dirama alla presidenza del CONI un comunicato, che rimarrà noto come “veto Andreotti”: «[…] d’ora innanzi non siano concessi visti di soggiorno in Italia a stranieri che lo chiedano per svolgere attività di giocatori nelle squadre di campionato. Dal provvedimento sono esclusi i cittadini stranieri che diano prova di essere oriundi». Gli effetti del veto non riescono a farsi sentire nel breve periodo e l’anno dopo, ai mondiali del 1954, sempre in assenza di oriundi, la débâcle si ripete: la Svizzera ci fa fuori al primo turno. Pur tra molte polemiche, si apre allora a figli e nipoti di emigrati; e pare essercene ragione, perché in quel momento ci troviamo a disposizione giocatori straordinari, del livello di Schiaffino, Ghiggia, Montuori. Parrebbe folle non saccheggiare una tale miniera di talenti. E infatti, alla vigilia della partita decisiva con l’Irlanda per la qualificazione al mondiale, “La Stampa” intitola Quattro oriundi nell’attacco italiano: 

 

Per la prima volta una squadra di calciatori italiani si presenta su di un campo straniero con quattro giocatori oriundi: Ghiggia, Schiaffino, Montuori e Da Costa, ed è la prima volta che tanti oriundi vengano schierati in prima linea. 

 

I giornalisti irlandesi ci accusano di specularci, sugli oriundi. I nostri usano toni diversi parlando di «un poker d’assi di oriundi da giocare sul tappeto verde di Belfast». Ma, sul tappeto verde di Belfast, i quattro assi non bastano per accaparrarsi il piatto. Anche se il debuttante italobrasiliano della Roma Dino Da Costa segna, i vigorosi irlandesi vanno a segno due volte e siamo per la prima volta fuori da un mondiale.

 

Tags : moise keannazionaleoriundirazzismo

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