Radka Leitmeritz è una fotografa, è nata a Praga, ha vissuto per quindici anni a Parigi e ora vive a Los Angeles, occupandosi di moda, pubblicità, collaborando con riviste internazionali. È un’artista apprezzata a livello internazionale soprattutto per il lavoro con il fotografo René Hallen: insieme hanno vinto premi, esposto nelle gallerie di tutta Europa, e pubblicato libri. L’immagine sul retro del suo biglietto da visita è la foto di Petra Kvitova, Wimbledon Champion, sdraiata su un fianco su delle gradinate, di spalle, vestita di bianco e ricoperta di terra rossa.
Radka Leitmeritz sta realizzando una piccola rivoluzione per immagini nel modo in cui si racconta il tennis. All’inizio di agosto hanno iniziato a circolare su Instagram suoi ritratti di Elina Svitolina, Julia Görges, Karolina Muchova, per il progetto Court Supremes: una serie di fotografie dedicate al tennis femminile, e all’eleganza e alla tradizione dell’est Europa. Ogni tennista è ritratta in una diversa ambientazione, e accanto alla galleria ogni serie ha le proprie coordinate geografiche. Ci sono anche Angelique Kerber, Maria Sakkari, Marketa Vondrousova, Viktoria Azarenka, e persino la sessantaquattrenne Martina Navratilova.
Leitmeritz ha iniziato a fotografare il tennis nel 2020, prima per Racquet Magazine, e poi in collaborazione con WTA e ATP. Ritrae tenniste e tennisti, e le sue foto sono inconfondibili. Seguendo molto il tennis sui social, ci si ritrova con un feed piuttosto omogeneo: tennisti che giocano, vincono, o vanno in vacanza; trofei sollevati, allenamenti, i profili dei tornei che scandiscono le stagioni. Ci sono anche i contenuti degli sponsor, shooting fotografici per riviste di moda, persino documentari, serie tv e progetti artistici. Ma quando appare una foto di Radka Leitmeritz il flusso si interrompe. Lo stesso sport, gli stessi volti, gli stessi campi: ma il suo sguardo è completamente diverso, come appartenesse a un’altra realtà.
Lo stile è molto riconoscibile nell’atmosfera, la composizione, la luce, i colori: i personaggi sono presenti come nelle opere di Edward Hopper, come nel cinema d’autore. Ma quelli di Radka Leitmeritz non sono personaggi, figure umane di un’opera artistica. Sono tenniste e tennisti. Sono persone, storie; li conosci, sai già che la loro vita ha una dimensione oltre l’ordinario, ma solo in quelle foto ti sembra di vederla davvero per la prima volta.
Da quando ha iniziato la sua collaborazione con il tour, Leitmeritz sta cambiando il modo in cui si rappresenta il tennis, e quello femminile in particolare. Non i soliti istanti di partita, e nemmeno i classici servizi da rivista. Le sue foto, che siano sul campo o sul set, trascendono i canoni tradizionali tanto della bellezza quanto dello sport: la femminilità non è quella costruita dallo sguardo maschile, ma è l’espressione di un corpo femminile in armonia con se stesso; la forza non è una combinazione di muscoli e successo, ma uno spettro e un contrappeso alla solitudine e alla fragilità. Nel tennis questi significati si riconciliano, senza conflitto, perché il tennis è il luogo dove il primo conflitto è quello con se stessi, e nel gioco emerge e si risolve.
In uno sport profondamente legato ai propri miti fondativi, dove la storia è scritta dai tornei più antichi, il progetto Court Supremes sta anche trasformando gli equilibri narrativi. Per la tradizione anglosassone e francese, l’est è sempre stato terra di antagonisti, avversari, nemici, campioni che per quanto abbiano vinto rimangono sempre sfidanti e outsider. Storicamente giudicati a distanza, freddi, chiusi dietro lingue incomprensibili e ridotti ai propri comportamenti più eccentrici, i giocatori dei paesi dell’Europa centrale e orientale tornano ora a essere rappresentati nei luoghi che chiamano casa: campi da tennis ritagliati nel mezzo di paesaggi naturali o incastonati in scorci di città antiche, da Praga a Brno a Atene, circoli centenari, strade, castelli.
Quello che colpisce di più è quanto ci fosse da raccontare, la sterminata ricchezza visiva che è sempre stata parte del tennis, e che sembra iniziare ad apparire soltanto adesso.
Incontro Radka a maggio a Roma, dove sta seguendo gli Internazionali BNL d’Italia.
Stando a una definizione generica, sei una fotografa editoriale. Qual è il tuo background? Come sei arrivata al tennis, e com’è è iniziata la tua partnership con ATP e WTA?
Ho iniziato a seguire tutto il mondo del tennis, e ho pensato che avrei potuto fare qualcosa. Volevo provare a fotografare il tennis, perché non ritrovavo quel senso estetico che conoscevo dal mio background, quindi ho pensato fosse interessante portarlo dentro. Mi sono innamorata del tennis perché pensavo fosse bellissimo, ma poi non l’ho visto rappresentato così da nessuna parte. Sono una fotografa, quindi voglio catturare tutto; il mio lavoro e il mio background, la fotografia di moda, consistono nel far sembrare tutto bello. Avvicinandomi al tennis ho pensato che ci fossero tanti modi di rappresentarlo che non si vedono da nessuna parte.
Così ho iniziato a collaborare con la rivista Racquet, a New York, fotografando un po’ di tennis, e sono andata al mio primo torneo. È stato lì che ho capito che si poteva fare moltissimo, per l’intera cultura, non solo lo sport. Sono entrata in contatto con la WTA, perché conoscevo alcuni giocatrici della Repubblica Ceca, Petra Kvitova e Barbara Strychova, avendole fotografate per riviste di moda; abbiamo lavorato insieme ed è stata la prima volta in cui ho potuto provare a far sembrare il tennis un po’ diverso. Esteticamente ero libera di fare quello che volevo, non era come in un evento sportivo; quindi ho ricreato esattamente la mia visione del tennis, con un misto di gusto classico e retrò, molto editoriale, e come una storia.
Per me le immagini sono più storie che non solo sport. Volevo che le giocatrici fossero belle. E sono venute bellissime. Loro erano contente delle foto, e mi hanno sostenuto con la WTA per avermi a bordo: la WTA si è messa in contatto e abbiamo iniziato la prima collaborazione per Indian Wells dello scorso anno [2020, nda] – quando poi è stato cancellato. Il mio primo Slam è stato l’Australia, prima del covid. Poi tutto è stato cancellato: insomma, mi ero appena avvicinata a quello che volevo fare, e poi tutto si è fermato. Nel frattempo abbiamo fatto dei ritratti dietro le quinte con la WTA; avremmo voluto fare di più, ma non c’erano più tornei. Abbiamo ricominciato a collaborare a marzo 2021, a Miami, e Roma è il secondo torneo che abbiamo fatto insieme.
Karolina Pliskova tra i marmi romani.
È difficile scoprire il tennis da adulti senza che diventi un’ossessione.
Ci sono storie. Ma nessuno racconta davvero in fotografia la storia del tour, quello che accade nei tornei, dietro le quinte, nessuno ritrae davvero i giocatori. Tutti si limitano a fotografare l’azione, come in ogni sport. Queste persone hanno storie, vite, sono in tour per dieci mesi all’anno, e perdono sempre. Sempre. Prova a immaginare: ogni settimana, per tutta la vita, tutte queste persone perdono. Perché solo uno vince, quindi a tutti gli altri tocca perdere, settimana dopo settimana, mese dopo mese, perdere. Penso sia importante, perché non si vede mai. Si vedono solo persone che sollevano trofei, che colpiscono il dritto perfetto. Si conoscono i risultati, ma mancano tantissime altre cose che io vedo lì dentro, e sto cercando di rappresentarle poco a poco.
C’è stato un momento in cui quello che dici si è avvertito in modo molto chiaro dalle tue fotografie, ed è stato quando hai pubblicato i ritratti della Quarantine series per la WTA, #hertrueself, un progetto artistico piuttosto unico per il mondo sportivo nel contesto della pandemia. Hai realizzato dei ritratti delle tenniste mentre erano in isolamento nelle loro camere d’albergo per gli Australian Open 2021, ed è stata una piccola rivoluzione. Intanto non eri fisicamente presente nelle loro stanze, ma davi indicazioni da remoto e le foto sono state scattate con i telefoni delle tenniste; che è una cosa davvero distante dai mega obiettivi delle fotocamere professionali che si vedono a bordo campo. Ma soprattutto l’ambientazione e lo stile erano apertamente in rottura con i codici tradizionali dello sport: niente corpi in movimento in campo, niente pose atletiche da pubblicità. Ci puoi raccontare come hai pensato il progetto #hertrueself? Il risultato è stato come te lo aspettavi?
Quello che fanno è stare seduti nelle camere d’albergo, parlano con la famiglia o con gli amici su FaceTime: devono allenarsi, c’è il torneo, non possono uscire la sera, devono andare a dormire presto, viaggiano con il loro piccolissimo team, sono molto soli. Anche la solitudine è qualcosa di molto presente nelle loro vite. È difficile, richiede comprensione: è molto più presente nel tennis, perché non è uno sport di squadra. È uno sport individuale, è un mondo estremamente piccolo, piccolissime famiglie, piccolissimi gruppi di persone che viaggiano insieme, per anni, tutto il tempo. Spesso si sa, gli allenatori sono i genitori, è una cosa molto intima e ristretta, solitaria, e volevo rappresentare questo.
Avevo fatto qualche ritratto a Sofia Kenin l’anno scorso, dopo che aveva vinto gli Australian Open, quando è stato cancellato Indian Wells. Ho iniziato con Sofia, le sue foto in accappatoio; poi c’è stata anche Bianca [Andreescu, nda] nella vasca da bagno, ma è stato uno shooting più organizzato, mentre le camere d’albergo sono davvero parte del tour.
Così quando non sono potuta partire per l’Australia, perché non si poteva, la quarantena era durissima e la procedura veramente estrema, ho visto che tutti erano nello stesso hotel per due settimane. Una quarantena di due settimane è un tempo lunghissimo. Li guardavo, seguo tante tenniste su Instagram, e le vedevo tutte nelle stesse stanze, con lo stesso aspetto, stesso letto, stessa finestra. Molte erano in quarantena dura, non potevano uscire dalla stanza, non potevano allenarsi, malgrado fossero andate lì per giocare uno Slam. In più ho pensato che la luce che passava da quelle finestre fosse molto bella.
Loro erano sedute da sole nelle loro camere per due settimane: ho chiamato la WTA e ho detto che dovevamo fare qualcosa, ritrarre questo isolamento, e possiamo provare a farlo da remoto. Ho fatto delle ricerche e il miglior modo per farlo era FaceTime, quindi ho proposto la mia idea alle tenniste; loro sono state molto aperte e contente, e ci abbiamo provato. È stato un esperimento, perché nessuna aveva l’attrezzatura, non avevano treppiedi né altri supporti. Considera che alcune di loro erano davvero sole, completamente sole: qualcuna aveva l’allenatore, o il marito o il fidanzato, altre erano del tutto sole, quindi è stato difficile anche tecnicamente.
Un’altra cosa che credo sia importante, in fotografia una cosa che ho capito con la pandemia è che essere presente fisicamente per me non è più così determinante. Dopo aver fatto quei ritratti da remoto mi sono resa conto che anche se fossi stata lì non avrei fatto qualcosa di molto diverso. Ci sono i limiti oggettivi che la camera d’albergo ti pone in termini di angolazioni. Certo, la qualità sarebbe stata migliore, perché stiamo parlando di FaceTime. Ma sui social sarebbe stata comunque la stessa cosa, che sia la pellicola della Leica oppure uno screenshot su FaceTime, finché guardi le immagini sui social non cambia nulla; e nessuno deve stamparle per esporle in una galleria – e anche volendo, perché no? Perché no, va bene che sia FaceTime. La qualità è bassa, ma non è la qualità il punto, non sono ritratti alla Richard Avedon, si tratta del momento, del soggetto, e non cambia nulla che la foto sia fatta con il telefono o con un’altra fotocamera.
Iga Swiatek.
Dicevi che il tennis ha una sua dimensione estetica e una sua bellezza, e il tuo lavoro la restituisce; ma normalmente il giornalismo sportivo ha un suo linguaggio. Wallace scrivendo di tennis ha detto che i codici della guerra sono più sicuri per molti di noi dei codici dell’amore – e si riferiva soprattutto allo sport maschile. Pensi che il tennis, in particolare quello femminile, abbia bisogno di una nuova rappresentazione mediatica?
Per le donne c’è anche altro, perché sono anche belle. Sono davvero belle, tutte nello sport sono belle. Eppure non trovo che abbiano sempre un bell’aspetto quando vengono fotografate in campo. Penso che l’editing normalmente non sia focalizzato su quel tipo di angolatura, si preferiscono altri aspetti. Ma penso che sarebbe fantastico se lo fosse, proprio perché sono belle: io le vedo così, questa è la mia angolatura, quindi lavoro così.
Esiste un problema di (iper)sessualizzazione intorno al tennis femminile?
Puoi fare come ti pare, non deve essere per forza una gonna, deve solo legarsi all’estetica dello sport e ai suoi bisogni – sempre tenendo conto della performance. Ma quello che il tennis ha di unico è che negli altri sport non c’è la manicure, non ti fai i capelli prima della partita, e questa cosa è meravigliosa. Ci sono i parrucchieri ai tornei, ed è fantastico. È semplicemente femminile, e femminile e ipersessualizzato sono due cose diverse, e le persone dovrebbero iniziare a distinguerle.
Mi sembra importante, perché i tennisti, e gli atleti in generale comunicano con i loro corpi, e i significati ci riguardano. Naturalmente hanno le conferenze stampa e social, ma la ragione per cui le persone li seguono è lo sport, il genio fisico. Sempre con le parole di Wallace, la particolare bellezza di uno sport come il tennis è che ci aiuta a riconciliarci con la realtà dell’avere un corpo – forse la bellezza nella fotografia sportiva può aiutare a riconciliarci con il racconto sportivo.
Ricordo il mio primo incontro con il mondo del tennis, il primo torneo in cui ho lavorato, quando mi sono ritrovata a mangiare nella zona giocatori e ho visto le ragazze che si servivano il pranzo: avevano il vassoio pieno di cibo, strapieno, tantissimo cibo, e di ogni tipo, proteine, carboidrati, tutto. Guardandole mi sono resa conto da quanto tempo era che non vedevo delle ragazze mangiare davvero. Per venticinque anni ho lavorato nella moda, dove le persone mangiano carote e foglie di insalata e acqua. È un cliché ma è vero, ci sarà pure chi ha un ottimo metabolismo e chi brucia molto, quindi non dico che sia sempre così per tutti, ma spesso vedi persone affamate. E poi vedi queste ragazze con i piatti strapieni di cibo, e mangiano, perché vanno a allenarsi, quindi mangiano senza pensarci minimamente, e mangiare è bello! È bellissimo, mangiano la pasta, stanno benissimo, e mi hanno conquistata.
Petra Kvitova.
Ricordo una tua storia di Instagram in cui dicevi che Martina Navratilova è sempre stata per te un’icona. Lei, come le Original 9, è una delle figure chiave nella storia dello sport femminile – che però spesso sono sottorappresentate, è difficile conoscerne il nome e il viso. Puoi raccontarci cosa rappresenta lei per te?
Al tempo non si poteva viaggiare, e nel tennis viaggiare è fondamentale. Martina era bravissima, era la migliore al mondo, avrebbe vinto qualsiasi torneo, ma non la lasciavano partire. Fondamentalmente le mancava la libertà di seguire la propria carriera, così emigrò; e ricordo quanto negativamente venne giudicata per questo. Prima era un’eroina, e un attimo dopo una traditrice. Ero una bambina, ma me lo ricordo eccome, mi ricordo quando tornò per la Fed Cup e indossava la maglia degli Stati Uniti. È stato un momento molto drammatico. Al tempo era così, se riuscivi a lasciare il paese non sapevi quando saresti potuto tornare, quindi le decisioni avevano un peso diverso, non come oggi.
Lei è stata la prima atleta donna che ho conosciuto, e ricordo il suo coraggio. Ero una bambina, avrò avuto dieci anni quando Martina è tornata dagli Stati Uniti, ma ricordo che tutti ne parlavano. Era una cosa importante perché lei era anche lesbica, aveva fatto coming out e si era dichiarata omosessuale. Non capivo bene al tempo, ma essendo così famosa e dichiarandosi omosessuale al tempo aveva scatenato un caso; l’impatto su tutto il mondo, sportivo e non, era stato fortissimo.
Se ci pensi, ancora oggi non siamo ancora andati poi molto avanti. Quanti nell’ATP saranno omosessuali oggi e non lo sappiamo, quante ragazze; ma non se ne parla, è ancora quasi un tabù. Tuttora è una questione delicata, estremamente delicata, e Martina ha fatto coming out negli anni 80. Sia nello sport maschile che in quello femminile non si vedono davvero tante persone che riescono a dire apertamente di essere omosessuali. Certo, ci sono delle eccezioni, ci sono Megan Rapinoe e Sue Bird – le ho fotografate per una copertina di ESPN, ed è stata la prima copertina dedicata a una coppia omosessuale nello sport. Ti rendi conto? E siamo nel 2021. È una follia, e ecco, questo è quello che Martina ha fatto per la gente. Eppure non è ancora finita, non è ancora abbastanza, non è ancora una libertà completa, e ci sono ancora molte cose che devono essere fatte.
Hai fatto riferimento al fatto che il tuo ricordo del tennis è di uno sport d’élite, non per tutti, accettato ma non promosso. Pensi che sia possibile mantenere la parte estetica di questa esclusività, superandola sul piano sociale e culturale?
Parliamo della Repubblica Ceca: ha vinto sei volte la Federation Cup (ora Billie Jean King Cup). Ha una lunga tradizione, e una quantità impressionante di tenniste di altissimo livello, con tecnica, stile, potenza, e personalità. Temo che per la barriera linguistica questo sia un fenomeno straordinario che rimane trascurato, messo in ombra. Prima menzionavi le foto di Petra Kvitova e Barbora Strycova, e sono l’esempio perfetto di quello che intendo: tennis e personalità, che rimangono piuttosto misteriose fuori dal campo. Ci sveleresti il legame segreto tra le donne ceche e il tennis?
Credo che la mentalità del popolo ceco sia molto ostinata, testarda, le persone sono molto caparbie. Da bambini conta molto anche la pressione dei genitori, ma non è detto. Barbora, ad esempio, ha sempre voluto giocare, non è stata spinta dai genitori; e anche Petra. Le migliori non sono state davvero costrette a giocare a tennis, non ci sono dietro quei genitori che volevano emulare delle storie di successo, formula Maria Sharapova, o formula sorelle Williams.
Le tenniste più forti semplicemente hanno sempre giocato, sin da bambine, magari perché qualcuno in famiglia era appassionato, o avevano un campo da tennis vicino alla scuola, e quindi giocavano ogni giorno solo perché non avevano molto altro da fare. Sicuramente ci sono tanti campi da tennis da noi. Per il resto non lo so, è così e basta.
Barbora Strykova.
Sarei interessata a uno scambio culturale!
Per la Repubblica Ceca, quando si parla di sport, c’è un discorso che vale in generale per i paesi comunisti. Perché nell’est Europa ci sono così tanti talenti sportivi? Perché lo sport poteva essere il tuo unico biglietto per partire, la tua sola possibilità di uscire dal paese. Andare alle Olimpiadi, partecipare ai tornei, alle competizioni. Per le persone lo sport era la sola opportunità di avere successo in qualcosa di speciale nella propria vita, perché a chiunque altro, che fosse uno scienziato o qualsiasi altra cosa, sarebbe stato comunque vietato partire.
Solo gli sportivi avevano questa possibilità, così quando nasceva un bambino i genitori speravano che potesse diventare un campione, di cosa non importa, calcio, ginnastica, atletica, qualsiasi cosa. Non per i soldi, ma per un futuro diverso, un qualcosa che non fosse dover rimanere tutta la vita nello stesso paese, senza un passaporto. È per questo che le famiglie sono sempre state attente allo sport. Il tennis era una di quelle strade. Con il tennis si facevano anche i soldi, più soldi rispetto alla media degli altri sport, ma questo era un di più.
Il tuo lavoro ha una forte identità estetica, che credo possa essere molto amata e apprezzata in Italia. Il più famoso scrittore di tennis italiano, Gianni Clerici, ha reso famosa l’espressione ‘gesti bianchi’, proprio per definire la natura estetica del tennis, l’eleganza e la bellezza. Come è stato per te lavorare qui?
Affermazioni importanti!
Sinceramente, voglio dire io seguo il tennis in tv, ma non ho mai visto questo torneo rappresentato in modo che gli rendesse giustizia. È davvero bello, il Pietrangeli è praticamente un sogno di tennis. Una cosa fantastica è che non ci sono i normali sedili ma le scalinate, è come un’arena, un campo di battaglia, quindi tutto diventa di più, diventa una battaglia. La terra rossa è più del colore, più del materiale, è parte dell’arena e della lotta; e il tennis è una lotta, soprattutto su terra rossa, quindi per me è l’ambientazione perfetta. Sembra un posto libero, dove arrivi, ti siedi, te ne vai, fai come ti va. Certo, non so com’è in tempi normali, con tutti gli spettatori e gli appassionati, ma lo spazio è incredibile.
In tempi normali è stracolmo, e bisogna lottare per il proprio posto, ma sì, è speciale, e fa innamorare del tennis.
Quanto pensi che durerà la tua partnership con ATP e WTA? Quale vorresti fosse la legacy del tuo lavoro?
Un futuro bellissimo.
Per fotografare devo potermi avvicinare, e la WTA mi aiuta molto nel trovare accesso; ma se sei dei media hai i limiti dei media. Non puoi accedere alle aree riservate, ai players lounge, alla palestra, non puoi entrare in alcuni posti che sono molto importanti, naturalmente non puoi entrare nelle stanze d’albergo, a meno che tu non conosca le persone direttamente; quindi devi in qualche modo costruire una relazione con i giocatori, un po’ alla volta, e riuscire a entrare in confidenza.
Non penso che Annie Leibovitz dal nulla potesse prendere e partire in tour con i Rolling Stones, non l’avrebbero voluta. È questo: essere sul tour bus. Annie Leibovitz in un certo senso è la mia ispirazione: per lei sono stati gli anni 70, il tour con i Rolling Stones, per lei salire sul tour bus era catturare com’è davvero la vita in tour, ma la cosa fondamentale è riuscire a costruire una relazione.
Allora spero che un giorno diventi un libro.