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Alfredo Giacobbe
Essere Enzo Ferrari
14 dic 2023
14 dic 2023
Un ritratto del mitico fondatore della scuderia di Maranello.
(di)
Alfredo Giacobbe
(foto)
Illustrazione di Giulio Castagnaro
(foto) Illustrazione di Giulio Castagnaro
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C’erano notti, fuori Modena, che cadeva tanta di quella neve davanti alle porte da restare bloccati in casa per giorni. Senza la scuola, Enzo rimaneva a letto, a fissare la lastra d’ardesia del cielo attraverso la finestra, al caldo delle coperte. La camera era gelata: i soffitti altissimi, i vetri sottili che vibravano nei telai di legno sotto i colpi del vento, nessun riscaldamento. Erano i primi anni del Novecento. La durezza dei tempi costringeva i bambini a crescere in fretta. Da sotto le coperte, Enzo sognava a occhi aperti la sua vita da adulto. Aveva tre desideri, che nella sua testa metteva in ordine di concretezza: diventare un giornalista e scrivere di sport; tentare la carriera da tenore; e poi un terzo che non riusciva bene a mettere a fuoco. I suoi pensieri erano disturbati dai colpi delle mazzole che arrivavano dal pavimento: da basso, nell’officina di papà Alfredo, si costruivano binari ferroviari. Di quel mestiere nuovo ne sapeva poco. Dei driver, i conducenti di auto da corsa, Enzo aveva letto qualcosa sui fogli di giornale lasciati in giro da suo padre. Erano giovani, indomiti. Portavano le loro auto a correre in posti esotici che non aveva mai sentito nominare. Dove diavolo era questa Indianapolis? ___STEADY_PAYWALL___

Era il 1947 e l’anno dopo Enzo avrebbe compiuto cinquant’anni. L’aspettativa di vita a quei tempi era tale che un uomo a quell’età pensava a godersi la pensione. Enzo la sua vita l’aveva vissuta pienamente. Uno dei suoi tre sogni era riuscito a coronarlo, dei tre quello più azzardato: era diventato un pilota. Ne aveva sfiorato anche un secondo: a sedici anni, la sua cronaca di un Modena-Inter era finita sulla Gazzetta dello Sport. Del cantante d’operetta invece non aveva la stoffa, se n’era reso conto subito. Per anni ha resistito ai colpi che gli ha tirato la vita. Il 1915 gli ha portato via il papà, morto di polmonite. L’anno dopo ha perso il fratello maggiore, partito per la Grande Guerra e tornato in una cassa di legno. Si ritrova solo al mondo, a Torino, lontano da casa in un altro inverno freddissimo. In tasca ha una lettera di raccomandazione dell’ufficiale ai comandi del quale ha svolto il servizio militare, un foglio di carta che non gli è bastato per entrare in FIAT come operaio. È disperato. Per sua fortuna un amico modenese gli trova un impiego nella fabbrica in cui lavora, la Cmn di Torino. All’inizio deve guidare dei camion. La Cmn però ha sogni di gloria, prepara delle auto da competizione e prende Enzo come pilota. Se la cava bene e, anche se la prima vittoria si fa attendere, arriva la chiamata dell’Alfa Romeo. Si va a Milano. Negli anni Venti in Italia non esistono i circuiti. Si corre in strada, per le città o attraverso le campagne. Di giorno e di notte, su piste snodate tra marciapiedi e canali di irrigazione, su sterrati pietrosi e segnati dalle ruote dei carri. Con ai lati le pietre miliari a segnare le distanze, gli alberi da frutto e i pali della luce a costituire pericolosissimi ostacoli; davanti ai fari, la carreggiata attraversata magari da un gregge di pecore. L’unica cura che avevano gli organizzatori delle corse era di allagare i campi, un fuoripista si risolveva con un bagno del pilota, se andava bene. Erano per lo più gare di durata, da cinquecento e passa chilometri, su percorsi lunghissimi, per compiere un giro ci voleva anche mezz’ora. La contesa non era solo contro il tempo, un pilota sfidava soprattutto se stesso. Quanto si poteva resistere prima di cedere alla paura? Alla fatica?Era una sfida tecnologica. Le auto dell’epoca erano mezzi rozzi, con le ruote attaccate al telaio perché non esistevano le sospensioni. Avevano due sedili, uno per il pilota, l’altro per il meccanico. Le rotture erano continue, le uscite di strada frequentissime. Si correva sul bagnato con pneumatici lisci, gli unici che esistevano. La possibilità di essere coinvolti in un incidente mortale era concreta. Una volta un pilota si lamentò con Enzo per aver sprecato dei soldi: andavano in Sicilia per correre la Targa Florio e Enzo aveva comprato i biglietti per il ritorno. Bisognava sempre mettere in conto l’ipotesi di non tornare vivi da una corsa. Quel pilota era Tazio Nuvolari.

Nuvolari, Varzi, Campari: per gli appassionati dell’epoca era come dire oggi: Senna, Prost, Schumacher. Enzo aveva corso contro di loro e in alcune gare li aveva battuti. Nel 1924 qualcosa dentro si spezza. È in viaggio verso Lione, per andare a correre con la sua Alfa il Gran Premio di Francia. Capisce che non se la sente, abbandona i compagni di scuderia e torna indietro. Aveva visto i primi piloti morire in corsa, altri lutti che si aggiungevano ai suoi lutti. Enzo ha l’abitudine di annotare tutto quello che gli succede, lascerà decine di quaderni e di agende riempiti con l’inchiostro viola e la sua scrittura fitta. Non dirà mai di aver avuto paura, un pilota la esclude a priori. Tra le sue note però scriverà: “Ho avuto un grande esaurimento nervoso”. Tra il 1924 e il 1947 nella vita di Enzo succede di tutto. Nel ‘29 fonda la Scuderia Ferrari, che inizialmente è la costola sportiva dell’Alfa Romeo: a Milano gli affidano mezzi e piloti, Enzo è un manager che decide come elaborare le auto e quali corse correre. Nel ‘38 l’Alfa lo assume nei propri quadri dirigenziali, assorbe la Scuderia Ferrari che così cessa di esistere. L’avventura di Enzo come patron di una scuderia di auto da corsa dura solo nove anni. Nel 1939, a causa di un diverbio di poco conto, sarà persino costretto a dimettersi dall’Alfa Romeo. Sei anni dopo, finita la Seconda guerra, chiederà a un dirigente della casa milanese perché non lo riprendessero. L’altro gli dirà: «Ci siamo chiesti: chi di noi deve andar via per farti posto?». Con i soldi della liquidazione Enzo ha comprato dei terreni fuori Modena, nel comune di Maranello. Non sapeva cosa se ne avrebbe fatto, ma venivano via a un buon prezzo. Nel 1940 l’Italia entra di nuovo in guerra. A Maranello Enzo mette in piedi un’officina meccanica, fa affari con i fascisti e con i tedeschi. Del Partito Fascista ha anche la tessera, l’ha dovuta prendere nel ‘35 per ottenere il passaporto e seguire così le sue Alfa che andavano a gareggiare all’estero. Allo stesso tempo, però, Enzo si gira dall’altra parte quando scopre che nella sua officina, di notte, gli operai fabbricano proiettili per i fucili dei partigiani. Per sette anni cammina lungo un filo sottilissimo, basta un niente per cadere giù, per prendersi un proiettile nella schiena, proveniente dall’una o dall’altra parte.

Nel 1947 Enzo ha cinquant’anni ed è un sopravvissuto, è scampato alla morte più volte, in pista e in guerra. Si sente in colpa per essere stato risparmiato, la vergogna per quel destino favorevole la porta negli occhi, la nasconde dietro alle lenti scure, gli immancabili occhiali che non toglie mai. Ha dei risparmi da parte e a Maranello ha l’officina meccanica tenuta in piedi con le commesse di guerra. Nel momento di maggiore sconforto si gioca il tutto per tutto: fonda la Ferrari, costruirà auto da corsa in proprio. Tra le brutture delle due guerre conservava un bel ricordo: il suono che veniva dal motore di un’automobile americana, una Packard in dotazione all’esercito statunitense. Quella che saliva dal cofano era la voce del motore 12 cilindri e Enzo non desiderava altro che ascoltarla di nuovo.Nel 1951 è da poco nata la Formula 1 e quando una Ferrari passa per prima sul traguardo del Gran Premio di Gran Bretagna, mettendosi dietro tutta la squadriglia delle auto Alfa Romeo, Enzo nelle sue note scrive: «Ho ucciso mia madre». È un momento spartiacque nella storia dell’automobilismo mondiale. L’Alfa Romeo, che aveva dominato in quell’epoca mitica, si avvia verso la rinuncia alle proprie velleità sportive. Finisce come sono finiti i Lancia, i Bugatti e i Lamborghini. La Ferrari di Enzo non ne prende solo il testimone, ne rilancia la sfida con ancora più ambizione impegnandosi su tre fronti: a Maranello si preparano le monoposto per la Formula 1; le auto Sport Prototipi che partecipano alla 24 Ore di Le Mans; le Gran Turismo per le corse in salita. L’esistenza stessa della Ferrari è messa costantemente in pericolo dalla natura delle proprie attività. Ogni anno la partecipazione alle corse richiede un investimento di capitali maggiore. La vendita delle berlinette ai clienti privati diventa il principale, se non unico, mezzo di sostentamento dell’attività sportiva. Oggi il paradigma sembra invertito: il core business di Ferrari sono le auto stradali, le monoposto di Formula 1 un efficace strumento di marketing.Le “barchette” con il cavallino rampante sul muso diventano l’oggetto del desiderio della gente che conta nel mondo. Le Ferrari sono auto costosissime e interamente personalizzate sui desideri dell’acquirente. Fatte a mano nella fabbrica-atelier di Maranello, dalle cuciture dei sedili fino all’ultimo dei bulloni. Enzo è un anti-eroe che si sottrae alla curiosità della gente, di fatto non esce più da Modena, dove ha la sua casa, e da Maranello, dove lavora anche la domenica. Tutto ciò contribuisce ad accrescerne il mito: siccome Enzo non si muove, sono gli altri che devono andare da lui. Nella campagna modenese giungono famiglie reali, attori di Hollywood, tutto il jet-set internazionale accorre a Maranello per piazzare un ordinativo, e avere per sé un pezzo del mito. Sono “i favolosi anni Sessanta” e Enzo diventa “Mr. Ferrari”, idolatrato dagli americani inevitabilmente attratti dalla sua parabola di self-made man. Gli occhiali scuri diventano un marchio, racchiudono tutto il suo mistero. È tremendamente cinico, irascibile e mutevole di umore, un testardo monarca assoluto. I suoi detrattori lo odiano apertamente. Persino chi lo ha conosciuto e gli ha voluto bene non ha avuto parole tenere. «Era un uomo difficile, spesso gli piaceva farlo credere, voleva su di sé tutte le attenzioni», ha detto Luca Cordero di Montezemolo, responsabile della squadra corse Ferrari dal 1973 al 1977. Per Gigi Villoresi, pilota Ferrari, era incapace di gratitudine. Fiamma Breschi, la compagna di Luigi Musso, morto guidando per “la Rossa”, ha detto: «È un mostro. Ne nasce uno ogni mille generazioni, è troppo al di sopra di tutto, come si fa a non invidiarlo?». Amici e avversari, tutti, alla fine convengono alla stessa versione: nella sua posizione, Enzo non avrebbe potuto comportarsi diversamente. In molti erano spiazzati dalla sua volubilità. Enzo era come acqua che si adattava alla forma: a seconda dell’interlocutore, cambiava di volta in volta. Conosceva le persone, gli bastava uno sguardo: era il suo vero punto di forza.L’avventura nelle corse non è stata tutta rose e fiori. Gli incidenti e le morti hanno continuato a infestare le sue notti. Nel 1957, durante l’ultima Mille Miglia della storia, la Ferrari di De Portago esce dalla carreggiata all’altezza di Guidizzolo, insieme al pilota e al co-pilota muoiono nove spettatori, cinque erano bambini. Nel 1961 von Trips perde il controllo della sua Rossa alla parabolica di Monza, muoiono il pilota e tredici spettatori. Nel 1967 il rogo nel quale perde la vita Bandini sconvolge i telespettatori, è solo da poco che i Gran Premi di Formula 1 ricevono la copertura televisiva. A ogni tragedia si alza il tiro e si spara dritti al cuore di Enzo. Subisce processi per procurata strage dai quali è sempre assolto. Gli ritirano il passaporto, trattato come un assassino, per scongiurare il pericolo di fuga all’estero, lui che non si muove da Maranello dal 1935. L’Osservatore Romano, il quotidiano della Santa Sede, gli dà del Saturno divoratore di figli, ovvero i piloti mandati a morire per il suo tornaconto economico. Enzo incassa e per lo più tace, rafforzando le accuse più dure. A volte affida a delle note scritte di suo pugno e consegnate alla stampa una blanda difesa, ad anni di distanza dai fatti.I piloti non sono stati figli per Enzo, si è sempre considerato un loro pari. Anche a ottanta e passa anni, anche a decenni di distanza dalla sua ultima corsa dietro a un volante, l’istinto, l’ossessione e le motivazioni di un pilota non l’hanno mai abbandonato. Dei motori sentiva la paternità, lo dichiara in un'intervista del 1957: «I motori sono come figli: uno viene su bene e studia, l’altro firma cambiali e fa lo scapestrato. I motori bisogna capirli, perché hanno un’anima». Motori che gli hanno dato gioie, ma anche delusioni. Le infinite cure di cui avevano bisogno, la spinta costante alla ricerca e allo sviluppo che hanno rischiato di mandare più volte la Ferrari gambe all’aria. Enzo non si considerava un imprenditore ma uno sperimentatore. Avrebbe messo qualcosa di nuovo o di unico in ciascuna delle duemila vetture che uscivano da Maranello ogni anno.

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