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Se in Suárez non fosse affiorata una predisposizione a dare svolte sempre drammatiche alla sua carriera, forse quella che oggi mi troverei a raccontare sarebbe una storia fatta di successi.
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Capitolo 1

Dannazione

Quando Luís Enrique lo introduce ai nuovi compagni di squadra del Barcellona lo fa pronunciando la frase «Bene, l’hanno finalmente lasciato uscire da Guantanamo per essere con noi, qui, oggi, ad allenarsi». Luís Suárez a questo punto della sua carriera sa già meglio di ogni altro calciatore suo coetaneo cosa significhi scendere e risalire dall’inferno. Solo nell’ultimo anno, il 2014, è caduto e si è rialzato tre volte, con sempre maggiore fatica e sforzo; non si può dire come un Cristo perché nessuno lo considera un Messia. Neppure i suoi stessi tifosi. È ambiguo, discusso e per di più testardo fino alla recidività. Un peccatore seriale che si è guadagnato, nel tempo, la nomina di tuffatore, razzista, violento.

Il primo crollo di Suárez nel 2014 è stato endemico all’organismo di cui faceva parte, corale: al suo Liverpool è scivolata di mano in maniera rocambolesca l’opportunità forse irripetibile di tornare a vincere in Premier League. Il secondo crollo è stato fisico: a metà maggio avverte un forte dolore al ginocchio in allenamento e la diagnosi è implacabile: infortunio al menisco, da operare. Il fatto è che Suárez è reduce da una stagione strepitante, se non strepitosa: è stato votato miglior giocatore dalla Professional Footballers Association ed è uno dei più attesi alla Coppa del Mondo in Brasile. Alla quale, al momento dell’infortunio, manca poco più di un mese.

L’immagine di Luís Suárez che affiora dagli ultimi due minuti di questo cortometraggio, una soggettiva della sua partita contro l’Inghilterra ai Mondiali in Brasile, è quella di un ragazzo amato dai compagni, capace di commuoversi dalla gioia, tutto pervaso di buoni sentimenti.

Prima del Mondiale c’è grande fermento sulle rive del Rio del Plata: in Avenida Brasil, a Montevideo, tutti i numeri sono stati cambiati, adesso ogni palazzo si trova al civico 1950, la data del Maracanazo, dell’ultima vittoria Celeste a un Mondiale. L’Uruguay si presenta con una generazione di calciatori finalmente matura, dopo il quarto posto nel 2010, pronta per compiere qualcosa per cui essere ricordati. Suárez non può mancare. A nessun costo. Viene operato al ginocchio dal fratello di Enzo Francescoli, uno dei giocatori più significativi della storia calcistica recente dell’Uruguay. Dopo l’intervento inizia un percorso di recupero che è una corsa contro il tempo, e una rincorsa al miracolo.

A 12 anni Suárez si è rotto il quinto metatarso per via di una macchina che gli ha calpestato un piede, ma lui non se ne è accorto e ha continuato a giocare. Il medico l’ha sgridato: per riprendersi per bene da un infortunio ci vuole disciplina e dedizione. Walter Ferreira è il kinesiologo della Celeste che quindici anni dopo ha il compito di rimetterlo in sesto in tempo per la seconda o terza partita della fase a gironi, nella quale l’Uruguay affronterà Costa Rica, Italia e Inghilterra. La seconda sfida è quella contro gli albionici, e per Suárez ha un significato particolare, perché l’Inghilterra è la sua gabbia dorata.

Anche Walter Ferreira in qualche modo è un dannato: nel gennaio del 2014 gli è stato diagnosticato un linfoma di Hodgkin, a 62 anni. Nei primi mesi di chemioterapia ha perso tutti i capelli. Quando Luís gli ha chiesto «Walter, tu verrai in Brasile? Perché se non vieni io non voglio andare. Io credo in te. Senza di te non credo di potercela fare», Walter “mani sante” ha trovato una ragione per combattere la sua battaglia: tuffarsi nella lotta di qualcun altro. Luís e Walter si sono allenati in casa del fisioterapista, a Prado: si sono dati forza reciprocamente.


Da questo dettaglio si capisce un po’ meglio la mentalità di Suárez: poter contare sull’appoggio di qualcuno è già per metà superare i propri, di problemi. Si intuisce anche la sua maturità: oggi Suárez non è più un ragazzino impudente, ma la stella della sua Nazionale. Il 9 giugno salgono entrambi sull'aereo per il Brasile: Walter ha terminato l’ultimo ciclo di chemio da appena due settimane, Luís è quasi pronto per tornare in campo. Il Sun titola: «Get well slowly, Luís», riprenditi lentamente.

Quando rientra in campo sono passate solo quattro settimane dall’intervento. Dall’altra parte del campo c’è l’Inghilterra. Al primo gol, Suárez cerca Walter: lo abbraccia, ed è un’immagine che fa il giro del mondo al pari di quella scattata al fischio finale, quando Suárez viene portato in trionfo dai compagni, in spalla: ha segnato la rete del 2-1, in contropiede, ed è stremato: «Sei talmente un bruto, una bestia, che non ti sei nemmeno reso conto che al secondo goal la tua gamba faceva tipo così», gli dice Walter, prima di mettersi a mimare con la mano uno spaghetto floscio. «Stavi messo proprio male».

Il 25 giugno, ancora su un campo d’allenamento, ancora di fronte ad un allenatore, avviene il terzo crollo di Suárez. Il peggiore, perché arriva, come la discesa finale delle montagne russe, dopo una risalita arrancante. L’allenatore della Nazionale, Oscar Washington Tabárez, el Maestro, lo prende in disparte. Tabárez non sembra il tipo che fatica a trovare le parole, ma non deve essere stato neanche facile: «Questa è la peggior notizia che abbia mai dovuto dare a un calciatore», gli dice. «Nove giornate». E poi: «Non puoi mettere piede in nessuno stadio. E ora devi andartene, devi stare a distanza anche dalla squadra».

Cosa ci fa, oggi, Luís Suárez al Barcellona? Quella culé è la squadra dei buoni, per eccellenza. Di Messi. Di Xavi e di Iniesta. I bravi ragazzi. C’è spazio per il peccato, incastrato tra le righe blaugrana?

Suárez aveva morso Chiellini al 79’ minuto della partita con l'Italia. «Sono cose che succedono, in campo. Eravamo dentro l’area, ci siamo scontrati, m’è venuto addosso con la spalla ed è per questo che ho un occhio ridotto così. Sono cose che succedono in campo, non dovremmo farne una cosa così grossa», dice Luís in un’intervista a caldo. «Dopo un contatto ho perso l’equilibrio, il mio corpo è diventato instabile e sono caduto addosso al mio avversario con la faccia, il che m’ha lasciato un piccolo livido sulla guancia e un forte dolore ai denti», recita invece la sua deposizione difensiva al Comitato Disciplinare della FIFA , all’indomani dell’incidente. L’arbitro non l’ha neppure espulso, sul campo. Dieci minuti prima, Luis aveva fallito l’occasione di portare in vantaggio i suoi. Due minuti più tardi, Godín avrebbe messo a segno la rete che condannava gli azzurri all’eliminazione, e permetteva alla Celeste il passaggio del turno, in maniera insperata.

Per quel morso la FIFA gli ha comminato la sanzione più drastica mai imposta a un giocatore in pieno Mondiale: sospensione di nove gare con la Nazionale, multa di 100.000 franchi svizzeri e interdizione di quattro mesi da qualsiasi attività sportiva, più il divieto di frequentare stadi e ritiro della Celeste durante i Mondiali. La cosa più simile a un esilio forzato che si possa pensare. La sanzione più severa prima della sua era stata imposta a Mauro Tassotti per aver rotto il naso, con una gomitata, proprio al suo nuovo allenatore al Barcellona, Luís Enrique.

Le due scene di Suárez a dialogo con un allenatore, con Tabárez e con Luís Enrique, rappresentano gli estremi speculari di uno stesso continuum: da una parte c’è un dialogo solitario, che esclude, che condanna alla dannazione; dall’altra una comunicazione comunitaria, che reintegra, distende, l’annuncio dell’avvenuta espiazione. L’inizio della redenzione. Nel mezzo c’è la macchia indelebile del peccato, che solleva inevitabilmente una scia di quesiti. Per esempio: cosa ci fa, oggi, Luís Suárez al Barcellona? Perché quella culé è la squadra dei buoni, per eccellenza. Di Messi. Di Xavi e di Iniesta. I buoni. C’è quindi spazio per il peccato, incastrato tra le righe blaugrana? «Non indosso gli scarpini da troppo tempo, mi fanno male i piedi», dice Suárez quando torna ad allenarsi.

Dopo il morso a Chiellini, Suárez si tocca i denti all'Estadio das Dunas, il 24 giugno 2014.
Foto di Matthias Hangst / Getty

Capitolo 2

Peccato Originale

Dev’essere per via del nostro retaggio cristiano: siamo convinti che ci sia sempre un precedente da cui tutto debba aver avuto inizio. In “Portrait of a serial winner” Wright Thompson compie un’operazione semplice e per certi versi obbligata: va a scavare nell’infanzia di Luís, negli affetti, per cercare il suo peccato originale. Circola (più in Inghilterra che in Uruguay, a onor del vero) una storia che ha i connotati della leggenda metropolitana: Suárez che colpisce con una testata al volto un arbitro, quando ha quindici anni. Non sembrano esistere referti ufficiali che confermino quanto accaduto, ed è un po’ il motivo per cui Thompson viaggia fino a Montevideo: per parlare coi suoi compagni d’infanzia, le figure presenti attorno a lui in quella parentesi di vita. Cerca di capire cosa sia successo davvero. È il meccanismo della psicanalisi: scavare per riesumare il rimosso, un pezzo per volta, e comporre un collage collettivo. Mi chiedo piuttosto se serva davvero capire fino a che punto Suárez sia già stato violento in passato. La Montevideo che emerge quando si compie una qualche incursione nel passato di Suárez ha un’aria gotica: case basse, balconi di ferro liberty, mura dai colori scuri. Non è Macondo: a tratti sembra di essere in Inghilterra, da qualche parte vicino Camden Town, o in una periferia non troppo sconquassata di Liverpool.

La Comercial non è un quartiere facile: al calar del sole spuntano spacciatori di marijuana e cocaina, c’è chi sniffa colla e chi si ubriaca. Dietro Bulevár Artígas, un’arteria molto trafficata, c’è il conglomerato in cui abita Luís. Il viottolo in cui gioca da mattina a sera, che con i suoi amici chiama semplicemente il callejón, il vicoletto, inizia idealmente dall’albero di limoni piantato dalla nonna, cresciuto sul cemento, e finisce con le mura grigie, il filo spinato e le torrette d’avvistamento del carcere femminile di Cabildo, sempre affollato di visitatori: c’è chi cerca di far entrare droga e chi cerca di tirar fuori persone. Ogni tanto qualche detenuta riesce anche ad evadere. Se volessimo cercarci una simbologia, l’albero di limoni sarebbe la speranza, che si scontra contro l’ineluttabilità della reclusione in un tipo di vita, in una condizione. Il gioco del calcio che c’è nel mezzo sarebbe la libertà.

Poco prima di fare il suo esordio da professionista, Suárez giocò con il Nacional de Montevideo un’amichevole a Ronda, in Spagna, contro il Siviglia valida per il Trofeo Ciudad del Tajo. C’erano 1500 spettatori, qualche ambulanza, dietro le porte alcuni alberi protetti da una rete. Suárez segnò un gol in rovesciata.

La prima squadra di Luís a Montevideo è l’Urreta: «Un club in cui giocavano i figli di quelli coi soldi», racconta la madre. «Per questo ce l’ho portato». I primissimi passi li aveva mossi nel Deportivo Artigas, a Salto, non lontano da calle Paraguay dove viveva. Era la squadra allenata dallo zio paterno, il campo si trovava nella base militare dove lavorava il padre. Ma è mentre gioca per l’Urreta che lo scout Wilson Pírez lo scopre, e lo convince a trasferirsi nelle giovanili del Nacional, una delle due squadre più importanti della capitale, e quindi di tutto l’Uruguay. Il Nacional è, tradizionalmente, la squadre dell’élite, mentre il Peñarol dovrebbe rappresentare il proletariato. «Ma non è vero», smentisce a un certo punto della sua autobiografia, “Crossing the Line”, Suárez: come se dovesse scagionarsi da chissà quale accusa.

A Montevideo ci sono quindici squadre di club che militano tra i professionisti, sparse tra Primera e Segunda División. A Salto neppure una. Paradossalmente potrebbe esistere un massimo campionato uruguayano giocato esclusivamente da club di una sola città, la capitale. Una ricchezza che non ha eguali al mondo: neppure Buenos Aires, né Rio de Janeiro, né Londra possono contarne un numero simile. Il fatto che Montevideo sia l'epicentro del calcio uruguayano ha molto a che vedere con la concentrazione della popolazione del Paese: un terzo abbondante, molto abbondante, quasi la metà dei cittadini vive nella capitale.
Nacional e Peñarol sono tuttavia le due società che si dividono, in una maniera o nell'altra, la gran parte dei favori degli hincha. Il Peñarol è stato fondato come dopolavoro ferroviario nel 1891: la scelta dei colori sociali, giallo e nero, viene dalle strisce sulla segnaletica sui binari. Anche il Nacional ha una forte connotazione sociale: quando alcune società di studenti universitari si sono fuse per dargli origine, l'intento era quello di creare una squadra che potesse essere la risposta criolla alle “squadre straniere” che scaldavano i cuori dei montevideani, almeno in termini di identificazione. I colori bianco, azzurro e rosso sono quelli della bandiera di José Gervasio Artigas, considerato il padre della patria.
La dicotomia popolo-élite, così reiterata nelle rivalità calcistiche dell'America Latina, in realtà è solo accennata nell'opposizione tra Nacional e Peñarol: è per questo che Suárez si prende la libertà di smentire il più consolidato luogo comune del calcio uruguayano.

Investigare nell’infanzia di Suárez significa scontrarsi con la normalità di un ragazzino emigrato dalle campagne di una cittadina come Salto, barrio Cerro, a una metropoli come Montevideo, a sette anni, per seguire i genitori e i suoi sei fratelli, alla ricerca di un lavoro (che la madre troverà in una ditta di pulizie all’interno delle stazioni degli autobus, mentre il padre verrà assunto in un biscottificio, prima di andarsene di casa nel 1997). Una normalità costruita attorno al disagio. È forse qua, nel ventre molle della povertà più oscura, che va localizzato l’epicentro dell’abbrutimento di Suárez, il suo peccato originale? Il difficile processo di redenzione, se la mettiamo in questi termini, non sarebbe che l’avventuroso tentativo di fuga tra gli ostacoli di quella condizione.

A dieci anni Luís ha partecipato a un programma televisivo per bambini. Si chiamava “Aventujuegos”, era condotto da Noelia Campo, era una specie di “Giochi senza frontiere” per ragazzini in età scolare: le squadre, infatti, erano composte da alunni delle scuole. Il gioco consisteva nell’arrampicarsi su ponti tibetani e poi riempire carrelli della spesa con quanta più merce possibile, nel tempo più rapido, con l’obiettivo di portarsi a casa il contenuto del carrello. Alla prima vittoria, la preside lo ha costretto a condividere il bottino frutto della vincita con tutta la classe, con la promessa che già dalla seconda vittoria avrebbe potuto tenere per sé il premio. Ha finito per partecipare a quattro puntate, tanta era la brama, e la voglia di elevarsi, anche materialmente. Luís sapeva perfettamente a contatto con cosa e vicino a chi stava crescendo.

L’alternativa era un’esistenza vincolata alle leggi della strada. Già a tredici anni rientrava a casa tardissimo, frequentava brutti posti e altrettanto brutte compagnie. «I miei amici si incontravano in strada, andavano in discoteca: io volevo fare lo stesso». A calcio era forte, ma non un campione. Non aveva determinazione, o almeno sembrava la stesse perdendo. Era un po’ sovrappeso, mangiava di tutto. Aveva ricevuto una convocazione per un provino con le giovanili della Nazionale, a Mar del Plata, in Argentina: non aveva potuto accettare perché non aveva soldi per comprarsi un paio di scarpe da gioco nuove. Ogni tanto si guadagnava qualche soldo spazzando i marciapiedi: raccoglieva tutte le monetine che incontrava, e schede telefoniche che rivendeva. A volte anche la madre lo aiutava a cercarle.
Ricardo Murmullo Perdomo, il tecnico delle giovanili del Nacional, gli dice: «O sistemi i pezzi della tua vita o è meglio se te ne vai da qui». Luís non vuole abbandonare il Nacional: ogni sforzo che ha compiuto, fino ad allora, nella sua vita l’ha fatto per rimanere nella rosa della Tricolor.

Il viottolo in cui Suárez gioca da mattina a sera, che con i suoi amici chiama semplicemente il callejón, il vicoletto, inizia idealmente dall’albero di limoni piantato dalla nonna, cresciuto sul cemento, e finisce con le mura grigie, il filo spinato e le torrette d’avvistamento del carcere femminile di Cabildo.

C’è stato un momento in cui Racing e Danubio, altri due club di Montevideo, si sono interessati a lui. «Un agente è venuto a casa mia e ha offerto a mio padre 25mila dollari per concedergli il 20% del mio cartellino». Ma Luís aveva già un accordo di rappresentanza, seppur informale, con Daniel Fonseca. «È stata dura lasciar andare tutti quei soldi. Al Nacional guadagnavo circa 4mila pesos al mese: 100 sterline. Ricordo d’aver pensato “Wow, venticinquemila dollari! Sarei ricco, dovrei firmare”. Mio padre disse “Sono un sacco di soldi, Luís. Prendili”». Se Luís non ha accettato, se non ha dato retta al padre, è anche perché ha preferito seguire il consiglio di Sofia: «Non hai mai firmato niente, neppure con Fonseca: perché dovresti firmare per loro?».

Sofia è la sua fidanzata, ha quattordici anni. Stanno insieme da un anno quando arriva il 2003, una data importante nella carriera di Suárez (che in quel momento non è tuttavia ancora una carriera) perché segna una svolta. Con le giovanili del Nacional disputa un torneo a Rivera. Parte, come gli capita spesso, dalla panchina: poi s’infortuna Fornaroli e Perdomo lo lancia in campo. Segna quattro reti, l’avversario è il San Eugenio de Artigas. Qualche giorno dopo, contro l’Oriental, parte da titolare e segna altre quattro reti. Nessuno riesce più a togliergli il posto da titolare.


Luís esplode definitivamente: segna più di sessanta reti in campionato, fino a giungere, nel novembre del 2003, a giocarsi il titolo giovanile contro il Danubio. In caso di vittoria, il Nacional si laureerebbe campione. In caso di sconfitta, tre giorni dopo si dovrebbe giocare la “bella”. A pochi minuti dal termine di una partita che sta assumendo risvolti negativi, Suárez viene ammonito. È diffidato, e in un attimo è come se gli svanissero di fronte tutti gli obiettivi: la vittoria del campionato, la possibilità di giocare la partita decisiva tre giorni più tardi. Tutto ciò che ha di migliore, di funzionante, nella sua vita. È lì che, a quanto pare, avrebbe sferrato la testata all’arbitro.

Ma non è tanto in quel gesto, o negli effetti di quel gesto, che si annida il peccato originale di Suárez, quanto piuttosto nelle cause: quando non riesce più a controllare le situazioni, non sa neanche più controllarsi. E reagisce. La violenza è solo una sfumatura. Al momento della testata è un mese che Luís non vede più Sofia, la sua fidanzata. Ha paura d’averla persa per sempre. Sofia o, se vogliamo, Beatrice.

Sofia Balbi ha dei tratti botticelliani, e la faccia angelica di Bice Portinari. Se faccio riferimento alla Beatrice dantesca non è solo per una curiosa analogia biografica (Beatrice era figlia di Folco Portinari, che faceva il banchiere, e anche il padre di Sofia Balbi era un banchiere), ma per il ruolo letterario di Sofia nella vita di Suárez: quello di musa ispiratrice. Sofia, da quando è entrata nella vita di Luís non ha fatto altro che tirarlo fuori dai gironi infernali nei quali lui ha sempre dimostrato d’avere facile (e disinvolto) accesso, per cercare di condurlo al Paradiso. Nella storia che state leggendo, il Paradiso è tutto quello che circonda le Ramblas di Barcellona.

La famiglia di Sofia, a Montevideo, viveva a Solymar, uno dei quartieri residenziali della classe media. La famiglia di Sofia è il contesto familiare che Suárez non ha mai avuto: l’ingenua invadenza con la quale Luís si inserisce tra loro è quella di ogni quindicenne invitato a casa dei genitori della fidanzatina che si sforza di risultare simpatico al padre, o aiuta la madre nei piccoli lavori di casa. Osservarli insieme, in una foto da ragazzini, è osservare una coppia improbabile: lei con il volto da studentessa modello, lui con i capelli arruffati e lo sguardo poco raccomandabile del ragazzo con il quale proprio non vorreste che vostra figlia uscisse.

«Sei solo pigro, devi impegnarti di più». Nella frase che Sofia ripeteva a Luis mentre facevano i compiti, come racconta lui stesso nella sua autobiografia, c'è molto di più di un candido tentativo da parte di una quattordicenne di far studiare il primo fidanzatino. Se dodici anni più tardi i due sono ancora uniti, se sono usciti indenni dalla visita alle cerchie infernali, se hanno due figli, significa che una frase così innocua ha avuto nell’animo di Suárez un impatto devastante, un innesco più forte della rincorsa al successo, ai soldi, alla realizzazione. Si può instradare una vita su binari forgiati da qualcosa di così elementare da apparire inverosimile come il semplice amore per una persona?


Wilson Pírez, il dirigente delle giovanili del Nacional, ogni giorno alla fine degli allenamenti regalava a Suárez quattordici pesos: se li tirava fuori dalla tasca come un papà premuroso per permettere a Luís di acquistare il biglietto del bus, andata e ritorno per Solymar.
Sofia si è trasferita a Castelldefels, nell’hinteland di Barcellona, nell’ottobre del 2003. In seguito alla crisi del 2002 che ha portato la banca in cui il signor Balbi lavorava alla chiusura, l’intera famiglia ha deciso di emigrare in Spagna. La sera prima della partenza i due giovani si sono seduti sotto la pensilina di una fermata dell’autobus, e hanno pianto sui testi delle canzoni nelle quali avevano visto riflessa la loro acerba storia d’amore. Un mese dopo quella sera, Luís aveva colpito l’arbitro di Nacional - Danubio con una testata.

Ma a Natale si incontrano nuovamente, a Barcellona: Luís è riuscito ad andarla a trovare grazie all’aiuto di Daniel Fonseca, il suo procuratore, che gli ha pagato il biglietto aereo. Suo fratello maggiore Pablo, invece, gli ha regalato 60 dollari per il viaggio, una cifra che gli sembrava un’enormità. Durante quella vacanza, Luís si fa portare al Camp Nou. Vorrebbe visitare lo stadio, entrare nel negozio ufficiale, comprarsi una maglia o un paio di scarpini, ma non se lo può permetter. Per questo s’accontenta di scattare delle foto vicino ai palloni, con la maglia blaugrana tra le mani.

Da quel Natale, ogni volta che Suárez riuscirà ad attraversare l’Atlantico per tornare a stringere Sofia le chiederà di andare al Camp Nou. Nel 2004, durante la solita sortita, scoprono un cancello lasciato incustodito, e socchiuso. Si intrufolano all’interno, raggiungono il terreno da gioco. Durante la firma del contratto che lo lega al Barça, nell’estate del 2014, un dirigente rivolgendosi a Sofia le dirà «Meno male che sei venuta anche tu. Ci sarebbe da saldare il conto per l’ingresso allo stadio, quello che non avete pagato dieci anni fa».

Nel momento dell’incursione clandestina al Camp Nou Suárez non è già più il ragazzino che, come racconta nella sua autobiografia, in maniera abbastanza prevedibile giura in un'intervista a una televisione locale: «Un giorno giocherò per il Barcellona». Nel 2004 Luís è un ragazzo che vuole davvero giocare per il Barcellona. Non per i motivi che possiamo immaginare, ma per una questione molto più basilare, e per lui vitale: vivere insieme a Sofia.

È difficile pensare che un giovane calciatore possa iniziare a inseguire il sogno di diventare un top-player solo per raggiungere la fidanzatina del liceo. Infatti, probabilmente, Suárez vuole anche realizzarsi professionalmente in un gioco che ama; vuole fare gol sui palcoscenici più importanti del mondo, vuole arrivare in Nazionale, vuole che il suo nome figuri vicino a quelli di Enzo Francescoli, di Daniel Fonseca, del loco Abreu. Per farlo sa che deve impegnarsi di più.
Nel Natale del 2003 Suarez sembrava pronto per il grande salto: Pírez lo chiama per dirgli che Ostolaza, il tecnico della prima squadra del Nacional, ha deciso di convocarlo per il ritiro precampionato dei grandi.

Luís, felice e sorridente il giorno della presentazione al Barcellona, il 19 agosto 2014.
Foto di David Ramos / Getty.

Capitolo 3

Tutti gli inizi si somigliano

Dopo la breve parentesi con la prima squadra nel 2003, Luís torna a disposizione delle giovanili e ci rimane per un altro anno e mezzo, cioè fin quando Martín Lasarte lo convoca per la partita di Copa Libertadores contro i colombiani del Junior Barranquilla, facendolo esordire.

Lasarte è arrivato al Nacional dopo una carriera da outsider, condotta tra Emirati Arabi Uniti e panchine di squadre di basso profilo: però nella sua prima annata al Nacional ha vinto il campionato uruguayano da imbattuto. Luís diventa un suo pupillo: nella stagione 2005/2006, tra Apertura e Clausura mette insieme 29 presenze su trentasei partite giocate complessivamente dalla Tricolor.

«Bisognerebbe cronometrare quanto tempo ci ha messo, una volta entrato in campo, per andare in rete», dice il telecronista.
È il primo gol di Suárez in Primera.

Il 10 Settembre 2005 il Nacional sta già distruggendo il Paysandú quando Suárez entra in campo, sul risultato di 4-0. Pochi secondi dopo il suo ingresso la palla viene sventagliata sulla fascia destra, dove c’è Sebastián Vázquez: l’ala mette al centro un pallone che un attaccante del Nacional, da torre, appoggia a Luís, solo al centro dell’area: il suo marcatore l’ha abbandonato, o l’ha perso di vista, o non s’è proprio accorto della sua presenza, e ora tentenna indeciso tra l'andargli incontro e il piazzarsi sulla linea di porta. Luís ha già deciso che la cosa giusta da fare è rimanere spalle alla porta, inarcare la schiena e inscenare una rovesciata, la maniera più sensazionale e arrogante di segnare la prima rete in Campionato. Ma la traversa respinge il tiro, che carambola sui piedi di Vázquez; segue una conclusione, ancora respinta dal marcatore disattento, fin quando Luís non la scaraventa dentro con violenza e definitività.

Il primo gol di Suárez parla di questo: di supponenza, di genio; ma anche di perseveranza, di seconde opportunità.

Che Suárez abbia deciso di abbandonare la squadra che l’ha lanciato, la più importante del suo Paese, per avvicinarsi almeno un po’ al suo Miglior Mondo Possibile (cioè giocare nel calcio europeo ma, soprattutto, vicino alla sua amata) suona molto, e al contempo molto poco, romantico.

Anche altre reti, in quella stagione d’esordio, affrontano gli stessi temi: contro il Liverpool de Montevideo, ad esempio, vince un contrasto sulla trequarti di campo mentre è lanciato verso l’area, insiste nell’affondo, scambia con Vázquez nello stretto e segna; nel derby contro il Peñarol risolve una mischia con un tiro dal limite dell’area che passa attraverso, e dà l’impressione di bucarle, almeno quattro maglie gialle e nere, come se non esistesse limite corporeo possibile alla sua volontà; e poi contro il Defensor inscena una doppia gambeta con tanto di tunnel, un gesto tecnico che diventerà distintivo di pari passo con la sua evoluzione, perché il tunnel è la dimostrazione di superiorità più umiliante per l’avversario ed esaltante per chi se ne rende protagonista.

Nella doppia finale contro il Rocha segna due volte, una all’andata e una al ritorno. Il Nacional vince il campionato, Luís ha segnato 12 volte. I tifosi impazziscono, gridano il suo nome, lo idolatrano. Solo pochi mesi prima, quando la mancanza di Sofia era tornata a farsi sentire e a generare effetti negativi sulle sue prestazioni, prima che passasse in pianta stabile nella rosa della prima squadra, gli gridavano burro, somaro.

Grads Fuhler e Hans Nijland sono due osservatori che lavorano per il Groningen FC, una squadra olandese, dove sono cresciuti i fratelli Koeman, o anche Robben. Nella primavera del 2006 sono in Uruguay per seguire un certo Elías Figueroa, promettente attaccante del Liverpool de Montevideo. Sembrano convinti. Trovandosi con un giorno libero da impegni prima di imbarcarsi per l’Olanda, i due decidono di prestare ascolto a chi gli suggerisce di visionare un altro attaccante, un diciannovenne che sta esplodendo tra le fila del Nacional: non è nella loro lista, ma perché non dargli uno sguardo? Quel ragazzo si chiama Luís Suárez.


Il calcio uruguagio, nei primi anni del ventunesimo secolo, soffre l’onda lunga di una crisi economica che ha coinvolto il paese, non solo il suo sistema calcio, a cavallo tra i due millenni. I club possono contare su una base di soci che, come in una Società di Mutuo Soccorso, viene coinvolta in attività sociali e di sostentamento che, inquadrate sotto un’altra ottica, riescono a sembrare addirittura ludiche, un po’ come lo stratagemma utilizzato da Huckleberry Finn per far dipingere lo steccato a qualcun altro. I tifosi del Nacional, per esempio, prima di ogni stagione ridipingono le gradinate del Gran Parque Central; farlo li rende contenti.
I club, tuttavia, non riescono a pagare profumatamente - e di conseguenza trattenere - i gioielli che formano nelle giovanili, i quali vengano acquistati, il più delle volte sotto prezzo, da club europei quando sono ancora in verdissima età. Perdendo il patrimonio tecnico i club non possono ambire a vittorie continentali, e quindi guadagnare e investire, e così via, in una spirale - poco virtuosa invero - di impoverimento.

Se provassimo a insinuarci nella mente di Luís quando in società gli comunicano l’interessamento degli olandesi, non faticheremmo a riconoscerci in due domande (e una certezza) che dovevano sicuramente convivere nei suoi pensieri. La prima domanda: dov’è Groningen? (Risposta: in Olanda). La seconda domanda: quanto mi pagano? (Risposta: non è importante). La silloge è facile: a prescindere dallo stipendio, Groningen è in Olanda, e l’Olanda è in Europa. L’Europa è dove si trova la Spagna, che è dove sta Barcellona, che è dove sta Sofia. La certezza di Luís è che l’Olanda è più vicina alla Spagna di quanto non lo sia l’Uruguay. Che Suárez abbia deciso di abbandonare la squadra che l’ha lanciato, la più importante del suo Paese, per avvicinarsi almeno un po’ al suo Miglior Mondo Possibile (che è giocare nel calcio europeo, ma soprattutto vicino alla sua amata) suona molto, e al contempo molto poco, romantica.

Mentre Fonseca sta definendo l’ingaggio di Albín, un altro calciatore del Nacional, da parte del Getafe, Luís in attesa del definitivo passaggio in Olanda passa qualche giorno a Madrid anche se Sofia, che lavora in un McDonald’s, non riesce a ottenere un giorno di permesso per raggiungerlo. L’ingranaggio inceppato riprende a funzionare: dopo aver accarezzato l’idea di potersi fermare anche lui al Getafe (a Schuster sembra non sarebbe dispiaciuto) Suárez diventa un calciatore del Groningen. Si stabilisce in Olanda, e al primo week-end libero dagli allenamenti vola a Barcellona, va a prendere Sofia e la porta via con sé.

Un giovane Luis, deluso, dopo la sconfitta del suo Ajax contro il Real Madrid, in Champions League, il 23 Novembre 2010.
Foto di Laurence Griffiths / Getty.

Capitolo 4

La vita in rosa

Se in Suárez non fosse affiorata, nel corso degli anni, quella particolare predisposizione a dare svolte sempre drammatiche alla sua carriera, forse quella che oggi mi troverei a raccontare sarebbe una storia fatta di successi, di passi avanti, di realizzazioni personali e sportive. Ogni aspetto della sua carriera, quando arriva al Groningen, è rosa: guadagna più di quanto non avesse mai fatto in patria; gioca in un campionato che non è di altissimo livello, ma in cui militano squadre dalla storia importante, come l’Ajax; divide un appartamento con la sua fidanzatina sedicenne, con l’approvazione dei genitori di lei. Eppure, le cose possono addirittura migliorare: la strada è tutta in discesa. Quello che voglio provare a fare adesso è raccontare la sua traiettoria omettendo volontariamente, per quanto possibile, i brutti episodi che ne hanno scandito i momenti più salienti. Si potrebbe anche finire per trovare il processo di crescita di Luís Suárez medio. Meglio: noioso.

Nella sua autobiografia Suárez racconta che nel centro di Groningen c’è una statua che raffigura una specie di pollo: a Sofia, durante una passeggiata nei primi giorni di permanenza, dice: «Vedrai, rimpiazzeranno la statua del pollo con la mia». Là trova Bruno Silva, un suo compatriota, già da qualche anno in Olanda: insieme prendono il mate, parlano della loro terra lontana, guardano le partite del Nacional sulla tv satellitare. Bruno Silva è originario di Cerro Lago: è un uomo della campagna, e attraverso i suoi ricordi Luís vive i propri, quelli che gli mancano, della gente e dei luoghi lontani da Montevideo. «Una volta lasciato l’Uruguay sono diventato più uruguayano di quanto non fossi mai stato prima».

Bruno Silva è il giocatore con la maglia numero 2 che nei video della sintesi di Grongingen - Vitesse, dopo la rete del 4-3 del Groningen va incontro all’allenatore, Ron Jans, che è un omone, e lo guarda dal basso in alto con lo sguardo compiaciuto di chi sembra voler gridare: «Hai visto? Che ti avevo detto?». Bruno Silva deve aver svolto un ruolo di mentore di Suárez ben oltre quanto lo stesso Suárez descriva. Quella partita contro il Vitesse arrivava una settimana dopo l’eliminazione del Groningen dalla Coppa Uefa, per mano del Partizan Belgrado. Nella gara di ritorno, in cui avrebbero dovuto segnare due reti e invece si era ancora sullo zero a zero, Jans aveva sostituito Suárez, che aveva avuto una reazione maleducata, e Jans gli aveva tirato addosso un ombrello. Dopo la vittoria in rimonta contro il Vitesse (Luís si guadagna il rigore del 2-3 a dieci minuti dalla fine, e tra l’87° e il 91° segna due volte), una settimana più tardi, Suárez va a salutare la curva con un ombrello sotto braccio.

Quegli stessi tifosi cominciano a gridargli huurling, mercenario in olandese, già all’uscita delle prime indiscrezioni sull’interessamento dell’Ajax. In termini pratici non c’è nessun motivo per il quale Suárez debba preferire la comoda provincia ad Amsterdam. In più l’Ajax, oltre a essere l’Ajax, gioca la Champions League. Luís potrebbe mettersi in mostra, convincere qualche squadra francese, o italiana, o addirittura spagnola a metterlo sotto contratto. Il Barcellona nella migliore delle ipotesi. Una trasferta europea potrebbe diventare un’occasione in più per abbracciare i suoceri a Castelldefels. All’annuncio della firma con i “Lancieri”, i tifosi danno fuoco a sciarpe, bandiere, striscioni e maglie di Suárez. Però, onestamente: non c’era davvero alcuna ragione per rimanere.


È l’aprile del 2008. Poco dopo l’ingresso in campo di Groningen e Ajax, in casa dei biancoverdi, e poco prima del fischio d’inizio, sugli spalti divampano le fiamme: magari qualcuno voleva appendere il fuoco a una maglia di Suárez e la faccenda gli è scappata di mano. I ventidue giocatori si rifugiano nel tunnel che conduce agli spogliatoi; lo stesso hanno fatto alcuni tifosi scappati dalle gradinate. Che cominciano a urlare: «Luís, perché te ne sei andato?».

Qualche minuto dopo le fiamme vengono sopite, anche fuor di metafora: il tutto finisce con i tifosi del Groningen che chiedono foto e autografi al loro ex-idolo. Suárez è uno di quei calciatori che sanno estremizzare la percezione di sé anche nei fan più dotati di raziocinio: amore estremo o estremo odio, senza possibilità di sfumature, senza mediazioni.

L’allenatore dell’Ajax, in quella stagione, è Henk ten Cate. Suárez dice: «Veniva dal Barcellona, aveva una filosofia che mi si addiceva. Mi sono sentito a mio agio, nelle prime gare, e poi parlava anche lo spagnolo». Nella prima stagione con i “Lancieri” va a segno 19 volte in 37 partite di Eredivisie, praticamente un gol ogni due partite.

Tra le 49 reti di Suárez nella stagione 2009/10 con l’Ajax ci sono anche le sei messe a segno, tutte insieme, in una partita contro il WHC Wezep giocata il giorno dell’antevigilia di Natale.
Risultato finale: 1-14.

L’anno successivo sulla panchina c’è Marco Van Basten. «Era molto rigido tatticamente, e non sempre mi sono sentito a mio agio nel suo sistema di gioco». Suárez nutre qualche scetticismo non solo per il sistema di gioco, ma anche per la mentalità, la concezione e il metodo di Van Basten, il quale sosteneva che i calciatori dovessero essere uniti, fuori prima ancora che in campo: praticamente uniti sempre. Per questo organizzava pittoresche messinscene che agli occhi di uno come Suárez dovevano apparire bislacche. Una volta, racconta, Van Basten portò tutta la rosa in un laboratorio artistico: avrebbero dovuto dipingere insieme. «L’unico risultato ottenuto», ricorda Suárez «è stato che eravamo tutti là a domandarci “Ma che ci facciamo, qua?”».

L’Ajax non cambia molto tatticamente rispetto alla formazione di ten Cate: ma Suárez comincia a sperimentare un’evoluzione di ruolo che finirà per ripercuotersi anche sulla sua visione del gioco, nei termini più ampi possibili. Con ten Cate giocava sulla fascia destra o sinistra di un 4-3-3 che aveva come terminale offensivo il prolifico Klas-Jans Huntelaar, sostituito poi (dopo il suo passaggio al Real Madrid) dall’argentino Dario Cvitanich. A Suárez a quel punto non veniva più chiesto di seguire i terzini avversari quando avanzavano, però era necessario che il suo apporto in attacco diventasse più concreto: a una maggiore libertà di movimento corrispondeva una maggiore responsabilizzazione. Nella testa di Luís, a più responsabilità corrispondono più preoccupazioni; e più preoccupazioni a più stress. Lo stress è il brodo primordiale in cui maturano i Brutti Episodi (ma vi chiedo di portare ancora un po' di pazienza).

Le tinte folgoranti della graduale esplosione di Suárez ci restituiscono un giocatore monodimensionale. Per imprimergli spessore, come negli altorilievi, serve l’ombra. L’oscurità.

Martin Jol arriva all’Amsterdam Arena nel 2009/10; per Suárez è il quarto tecnico diverso in quattro stagioni in Olanda, e di certo è Jol quello a cui deve di più, perché a 23 anni lo nomina capitano della squadra. «Non è che di colpo mi sono sentito superiore agli altri», racconta Luís ricordando il momento in cui gli è stata affidata la fascia. «Non avrei cambiato la mia maniera di parlare ai compagni solo perché portavo una fascia al braccio: ma di certo mi sono sentito più responsabilità sulle spalle». Ora i destini della squadra dipendono molto, soprattutto, dai suoi. Sono convinzioni che crescono in maniera esplosiva, in individui egotici come lui.

L’Ajax di Jol ha infranto molti record in Eredivisie: era una squadra che segnava tanto, 106 gol in campionato, e subiva pochissimo, soltanto 20 reti, soltanto 4 in casa. Eppure è riuscita a perdere il campionato, preceduto dal Twente per un solo punto. Ma soprattutto era una squadra che produceva gioco. Che non si abbandonava mai all’idea più semplice, o istintiva, ma ragionava.

«Le mie radici uruguayane mi hanno insegnato che non ci si deve mai tirare indietro, in campo; l’educazione olandese mi ha insegnato invece che non si deve mai smettere di pensare.». «Gli olandesi non litigano mai quando parlano di pallone: discutono, argomentano. E se c’è qualcosa intorno alla quale gli piace discutere, argomentando, è la tattica».

Al termine della stagione Luís avrà segnato 49 gol in 48 partite giocate, una media mostruosa che però non gli sarà valsa più di una vittoria in Coppa d’Olanda, contro il Feyenoord, a Rotterdam.

Quando nel Gennaio del 2011 lascia l’Ajax per trasferirsi a Liverpool, sulla panchina non c’è già più Jol, sostituito ad Ottobre per una penuria di risultati, ma Frank De Boer. «Frank è scuola Barcellona, come il mio primo allenatore all’Ajax ten Cate, e lo stile con il quale voleva che la squadra giocasse sarebbe stato ideale, per me». Se Luís usa il condizionale è perché in quella stagione ha giocato soltanto tredici partite, fino al mese di novembre, segnando 7 volte.
A inizio stagione aveva portato sul prato dell’Amsterdam Arena sua figlia Delfina, nata soltanto da due settimane. Era la stagione immediatamente successiva ai Mondiali del 2010, e Luís era già un uomo diverso, non soltanto per la nuova paternità. In Sudafrica era successo qualcosa che non è ancora tempo di raccontare (per non infrangere la regola che mi sono dato); qualcosa che avrebbe in un certo modo influenzato e condizionato il suo comportamento, la sua carriera.


La prima cosa che balza agli occhi di Suárez ad Anfield è la dimensione della porta degli spogliatoi dei padroni di casa: è più piccola di quella degli ospiti. Si tratta di un trucco, adottato ai tempi di Bill Shankly, grazie al quale i calciatori del Liverpool, all’uscita in campo, appaiono più grandi e imponenti di quello che sono. Mi sembra un’immagine evocativa di quanto basti poco per cambiare la percezione di sé negli altri. Quando gli chiedono di scegliere il numero decide per il 7: nei suoi ricordi era la maglia di Steve Macmanaman, poi gli hanno raccontato cosa significasse davvero, da quelle parti: Kevin Keegan; o Kenny Dalglish, il suo allenatore nella stagione 2010/11.
Due giorni dopo la firma, ad Anfield, contro lo Stoke, Luís parte dalla panchina: quando fa il suo ingresso in campo ci mette poco a entrare nell’immaginario collettivo del tifoso con la forza dirompente di un tifone ai tropici. Segna sotto la Kop. «Ogni volta che rivedo in video quel gol mi aspetto che l’uomo sulla linea fermi la palla», racconta nella sua biografia. «Eppure non succede mai». Della stagione e mezza che Luís trascorre sotto la gestione Dalglish (sempre per la regola che mi sono imposto e che sta diventando davvero castrante) posso parlare solo del lembo di terra sfilacciato che rimane attorno a un cratere ancora fresco: quel cratere è il Secondo Brutto Episodio.

«In Premier ci sono squadre che da un punto di vista tattico non sono un gran che. Ho realizzato, ad esempio, che se abbandoni il fronte dalla posizione di centravanti e ti inserisci in area, partendo da dietro, in quel momento entrambi i centrali potrebbero seguirti; è una cosa che non m’aspettavo. Significa che un compagno di squadra può introdursi nello spazio e essere uno contro uno con il portiere». Chiedere a Suárez di fare un passo indietro non deve essere facile: ma chiederglielo per rendere la sua posizione in campo più mobile, e quindi imprevedibile, e quindi più efficace, deve essere uno sforzo che vale la pena di fare.

La vera esplosione di Luís a Liverpool coincide con l’arrivo sulla panchina dei Reds di Brendan Rodgers, nella stagione 2012/13, e con il suo cambio di ruolo, da punta pura a enganche avanzato: è un ruolo che gli piace assai di più, perché «non posso stare lì in area ad aspettare il pallone». In quella posizione invece può allargarsi a sinistra, e poi stringere per cercare la porta.

Rodgers si è affermato nello Swansea, con un’idea di calcio offensiva, discretamente globale, molto ispanica (da qui il soprannome di Swanselona): perfetta per Luís. Inoltre, dopo un avvio stentato, nel mercato di gennaio la società gli affianca Coutinho e Daniel Sturridge, che gli dice: «Insieme io e te possiamo fare qualcosa di grande, qua». La prima partita che giocano insieme (contro il Mansfield Town, in FA Cup), però, finisce per passare alla cronaca più che altro per una rete segnata con la mano da Suárez.
Un gol segnato in modo scorretto contro una squadra di parecchie categorie inferiori, il negativo anti-romantico della Mano de Dios> di Maradona. Non è tanto questione di peccato originale, ma di peccati originali, nel senso di bizzarri, quasi: e Luís sa dare principio a discussioni intorno a ogni suo gesto. Dopo quel gol viziato, si bacia la mano.

La verità è che sul polso Luís porta tatuato il nome della figlia Delfina, ed è quello che bacia. I tifosi più creativi credono nella potenza evocativa delle parole: hanno scoperto che Delfina è l’anagramma di Anfield, e danno a quel bacio un sapore particolare.


Il flusso di responsabilità insufflato da Rodgers in Suárez passa, inevitabilmente, attraverso la sua designazione come capitano. La prima volta è contro l’Oldham, sempre in FA Cup. Il fatto che in quella partita il Liverpool venga sconfitto, ed eliminato dalla coppa, suscita in Suárez un sentimento di impotenza amplificato dall’essere capitano: si sente colpevole più degli altri.
Il Suárez della prima stagione di Rodgers è l’uomo che crea almeno 3 occasioni a partita, che tira una media di 5 volte a partita contro la porta avversaria, un po’ da tutte le posizioni, e che la metà delle volte inquadra lo specchio; che segna 23 volte. Il Liverpool senza di lui appare monco della forza di fuoco; quando c’è, invece, in tandem con Sturridge, è capace di far calare sul campo una nebbia filamentosa di pericolosità latente. I cronisti lo chiamano “genio”, “magico”, “colui che rende possibile l’impossibile”, come in occasione della tripletta (con un gol da oltre 50 metri) contro il Norwich City.

Ma il Suárez della prima stagione di Rodgers è anche quello che, proprio come cantano i tifosi, “just can’t get enough”: non gli basta mai, e al contempo non ne vorrebbe già più. Gli viene voglia di lasciare l’Inghilterra, a causa delle attenzioni morbose che riceve dalla stampa più per via dei Brutti Episodi che per i numeri in campo. L’Arsenal vorrebbe portarlo all’Emirates; Luís invece decide di restare, dopo essersi lasciato convincere da Steven Gerrard. Che gli dice rimani, e ci qualifichiamo per la Champions League.

Suárez e Rodgers a inizio stagione 2013/14 si parlano a malapena: l’allenatore pensa che il suo giocatore abbia mancato di rispetto ai compagni di squadra parlando pubblicamente della sua volontà di andarsene. «La società conosceva in che stato emotivo fossi», spiega nell’autobiografia, «ma non ha fatto nulla; ne ho parlato pubblicamente solo quando mi sono sentito disperato, confuso, e stufo, quando ho pensato fosse giusto farlo». Non si può dire che il Liverpool non tenesse al suo giocatore, che non lo ritenesse indispensabile: nell’anno precedente gli avevano messo a disposizione un aereo privato per farlo tornare in tempo, da un impegno con la Nazionale, per il derby contro l’Everton. Da quanta fiducia riponevano in lui, nonostante i Brutti Episodi e le esternazioni di malcontento, gli avevano addirittura proposto un rinnovo contrattuale sontuoso.

Il fatto è che il Liverpool nel 2013/14 punta con prepotenza a una vittoria della Premier League che manca da più di vent’anni. Ha lavorato per quello, nella costruzione della mentalità, nella motivazione. Con il passare delle giornate il progetto acquisisce concretezza: in Aprile, prima della gara contro il Manchester City che è un diretto concorrente, i fan possono cantare «We’re going to win the league, and now you’re going to believe us: we’re going to win the league». Ora ci crederete: stiamo per vincere. «Dovevamo vincere il titolo per loro», racconta Luís. «È stato un mix di emozioni così potenti, dal silenzio al boato della folla alla sensazione di responsabilità». Si riferisce alla partita contro il Man City: in vantaggio di due reti si erano fatti rimontare, poi Coutinho con un gran gol aveva chiuso il match. La sensazione era che, dopo il game, set e match fossero raggiungibili davvero.

«Dalla posizione in cui ero in campo in quel momento l’ho visto in maniera stranamente chiara. Il momento in cui tutto ha iniziato a scivolarci via. Ho visto la palla passare sotto il piede di Steve, e Demba Ba correre in profondità, tutto solo. Potevo solo sperare che Simon lo fermasse in qualche modo. Ma non è andata così». È il racconto che fa Suárez del momento in cui il Liverpool ha perso un campionato che teneva saldo in mano, il celebre scivolone di Gerrard.

È interessante come Suárez nell’autobiografia prima si faccia carico e poi cerchi goffamente di scrollarsi della presunta responsabilità di quell’evento. Dopo la partita contro il Norwich, la quart’ultima, la settimana precedente all’ecatombe contro il Chelsea, Luís ha chiesto a Ray Haughton cosa sarebbe successo a fine stagione. Sarebbero dovuti rimanere per qualche tipo di evento, di celebrazione, chiede. «Non ho mai detto quando vinciamo il campionato; era solo una domanda tipo se vinciamo il campionato». «Era solo per organizzarmi, tutto qui: avevo in programma di andare a Barcellona, a trovare i genitori di Sofia, e poi in Uruguay: dovevo organizzare i voli». Suárez racconta d’essersi pentito subito dopo aver fatto la domanda, e di essersela ricordata in maniera nitida solo durante la fuga di Demba Ba verso la porta. «Quella del calciatore è un’esistenza solitaria: i tuoi compagni di squadra, allo stesso tempo, possono essere tuoi rivali».

L’appendice di stagione del Liverpool è amarissima: contro il Crystal Palace, alla penultima giornata, in vantaggio per 3-0 i Reds subiscono una rimonta cocente. Finisce 3-3. Suárez abbandona il campo con la maglia sollevata sul volto. «Al fischio finale non ho saputo controllare le lacrime. Ho sollevato la maglia sulla testa, volevo solo sparire». È l’immagine più forte e didascalica dell’ultima stagione di Suárez al Liverpool, quella dell’uscita di scena da Sulhurst Park: l’imbattibile, il macho, che abbandona il campo con la maglia a coprire il volto in lacrime. Un’immagine piena di drama.

Così come l’ho letta finora, quella di Luís Suárez è tutto sommato un’escalation. Sembra la carriera di un Messi che non ha avuto la fortuna di crescere tra i più forti, e che nondimeno un passo per volta si è guadagnato autorevolezza, rispetto, timore degli avversari. Ma le tinte folgoranti della graduale esplosione ci restituiscono un giocatore monodimensionale. Per imprimergli spessore, come negli altorilievi, serve l’ombra. L’oscurità.

Capitolo 5

Il Brutto Episodio Pilota:
la mano

Credo che la presunta cattiveria e antisportività di Suárez risaltino in maniera così vistosa perché le squadre in cui ha giocato sono squadre depositarie, nell’immaginario collettivo, di un asset di valori positivi. Il Liverpool di Shankly e della tragedia di Hillsborough; l’Ajax per il solo fatto di essere l’Ajax. Il Nacional, il cui stadio ha una curva intitolata ad Abdón Porte.

Abdón Porte è uno dei personaggi mitici del calcio sudamericano d’inizio Novecento. Capitano indissolubile, giocò per tutta la carriera (molto longeva) titolare fin quando, per ragioni principalmente fisiologiche, il tecnico decise di escluderlo di colpo dalla squadra: era invecchiato, aveva fatto il suo tempo. Abdón, dopo l’ultima partita, dopo aver festeggiato la vittoria con la squadra, si intrufolò sul prato di Gran Parque Central di notte: raggiunse il cerchio di controcampo e con un colpo di pistola al cuore si tolse la vita. Quando trovarono il cadavere, il giorno successivo, si accorsero di un bigliettino che aveva conservato nella tasca della giacca. Si sarebbe dovuto sposare di lì a una settimana; ma non faceva cenno alla futura moglie, nel messaggio. C’erano invece dei versi toccanti dedicati al Nacional, al suo attaccamento alla maglia. Era il 1918 e nella curva a lui dedicata, oggi, i tifosi incitano la squadra con uno striscione che recita «Por la sangre de Abdón»; per il sangue di Abdón. Il personaggio di Porte è paradigmatico di una predisposizione tutta uruguayana alla tenacia, alla garra: non si deve mai mollare, cedere, abbandonare i destini della propria squadra, se non in maniera drammatica, appunto.

Se fosse uscito dal campo con aria dimessa e dimostrando costernazione, e avesse esultato con così tanto entusiasmo negli spogliatoi, in completa solitudine, oggi il pubblico avrebbe un’altra concezione di Luís Suárez.

Il Brutto Episodio Pilota della carriera di Suárez è avvenuto mentre indossava la maglia della Celeste. In quel momento, durante i Mondiali sudafricani del 2010, le luci sul set nel quale recita da attore principale cambiano. L’Uruguay ha superato la fase a gironi liberandosi con qualche difficoltà di Messico, padroni di casa e Francia. Contro i centroamericani Suárez ha segnato la sua prima rete mondiale, ha esultato mimando qualcosa nella sua pancia: la moglie Sofia è incinta all’ottavo mese. L’Uruguay avanza, agli ottavi si libera della Corea del Sud con una doppietta di Luís; ai quarti affronta il Ghana, l’ultima africana rimasta in competizione.

All’ultimo minuto dei tempi supplementari, le Black Star hanno l’occasione di passare in vantaggio: la palla si sta dirigendo verso la rete sguarnita quando Suárez si sostituisce a Muslera e respinge con la mano un tiro che sembrava vittorioso. Un compagno, vicino a lui in area, gli dice «nessuno ha visto niente». Quando l’arbitro si avvicina, a fianco di Luís c’è Jorge Fucile. È già ammonito, salterebbe in ogni caso una semifinale che manca, per la Celeste, da quarant’anni. Fucile e Suárez si somigliano abbastanza: Luís indica il compagno, «è stato lui» dice all’arbitro. Il direttore di gara non abbocca e lo espelle. Asamoah Gyan però sbaglia il rigore, e le squadre vanno a giocarsi la semifinale ai tiri dal dischetto. Alla fine la spunta l’Uruguay: l’ultimo tiro lo mette a segno il loco Abreu, con un colpo alla Panenka.

L’espulsione di Luís contro il Ghana incanala l’evento nell’ordine naturale delle cose: chi sbaglia, paga. Avrebbe saltato la semifinale, e la finale. Si era immolato per la squadra, qualcosa che ha molto a che vedere con il concetto di garra.

Vicino a Kimberly, sede del ritiro dell’Uruguay, c’è una vecchia miniera di diamanti dismessa che si può visitare. Si chiama Big Hole ed è quello che dice il nome: un grande buco, un enorme nulla. Suárez racconta di aver provato la stessa sensazione di vacuità di quando era di fronte al Big Hole, mentre osservava la sequenza dei rigori negli spogliatoi con l’addetto al guardaroba. E di aver riempito quel vuoto solo con la gioia immensa con la quale è tornato in campo per abbracciare i compagni al momento della vittoria. «Non dico che lo rifarei, ma in quel millesimo di secondo quasi tutti i giocatori che conosco avrebbero preso la mia stessa decisione». «Mi sarei sentito più colpevole se avessi fatto un fallo che fosse costato un infortunio a un avversario». L’espulsione di Luís peraltro incanala l’evento nell’ordine naturale delle cose: chi sbaglia, paga. Avrebbe saltato la semifinale, e la finale. Si era immolato per la squadra, qualcosa che ha molto a che vedere con il concetto di garra. «Mi sarei sentito molto più in colpa se mi fossi procurato un rigore e l’avessi fallito».

La scena che più ha disturbato il pubblico mondiale, però, è proprio quella che ho deciso di chiamare Il Brutto Episodio Pilota: l’esultanza smodata con la quale un calciatore espulso per un gesto scorretto accoglie l’errore di un avversario, ovvero il rigore fallito da Gyan. C’è chi lo ha interpretato come una mancanza di rispetto. A me sembra più grave il tentativo di ingannare l’arbitro additando come colpevole un compagno.

«Mi sono arrivate storie di gente che a Salto ha coperto con un adesivo il nome Joaquín sul cartello in calle Joaquín Suárez: sull’adesivo c’era scritto Luís». Per i suoi connazionali, solo per loro, Suárez invece è un eroe. Al ritorno in patria viene accolto da una folla festante che canta «no es la mano de Dios, es la mano de Suárez, la puta madre que le parió»; tutta la Celeste viene ricevuta dal presidente Mujica.

Luís freme per tornare a Barcellona. Finalmente riesce a raggiungere Sofia, che ancora non ha partorito. Allora chiede e ottiene dall’Ajax il permesso di allenarsi a Barcellona, e di raggiungere i compagni ad Amsterdam solo il giorno della gara di Champions League contro il Paok: segna la rete del pareggio dei “Lancieri”. La sera della partita di ritorno, il 4 Agosto, l’Ajax gli mette a disposizione un jet privato che da Salonicco lo porta a Barcellona: atterra alle due del mattino, due ore più tardi Sofia rompe le acque.

Ancora drama: ma nonostante la positività che può sprigionare una storia dai contorni rosa come quella di una paternità sospirata, chiunque ha ormai chiaro che in Suárez convivono un Dottor Jekyll e un Mr Hyde. Ed è quest’ultimo aspetto a sembrare molto più interessante, e meritevole d’attenzione.

Suárez in azione con la maglia del Liverpool in una partita di Premier League control il Tottenham, ad Anfield, il 30 marzo 2014.
Foto di Alex Livesey / Getty.

Capitolo 6

Il primo brutto episodio:
Il morso

Cercare i tratti della provocazione nell’esultanza successiva al fallo di mano ai Mondiali significa dare per assunto che Suárez lo abbia fatto con malizia. A me non dà l’impressione di un comportamento da “senza regole”, da chi fa come gli pare per poi passare impunito; mi sembra piuttosto la conseguenza di una lettura che stabilisce delle priorità. Ubi maior. Evitare di prendere gol. Beccarsi una punizione. Scontarla, ma pure esultare per l’efficacia del gesto (per quanto antisportivo). È la visione del gioco del ragazzino per strada, un gioco in cui vale tutto purché serva per ottenere un minimo vantaggio.

Jol, per minimizzare il gesto, lo definisce “un morso d’amore”.

Questa semplicità del selvaggio, la primazia dell’istinto di sopravvivenza, la rilettura personalistica della dicotomia bene/male di Suárez fa capolino anche in un altro episodio, precedente ai Mondiali. Al termine della stagione 2009/10, per aggiudicarsi il titolo l’Ajax dovrebbe vincere e sperare che il Twente perda. «E se offrissimo un bonus per la vittoria agli avversari del Twente?», suggerisce nello spogliatoio. Suárez racconta di esserci rimasto molto male, alla reazione dei compagni: sarebbe una truffa, gli fanno notare. «Sarà che la mentalità uruguayana è diversa», liquida così il ricordo: a me sembra assolutamente calzante con la visione bambina cui facevo cenno prima, il ricorso a qualsiasi metodo non dico per vincere barando, ma per tenere viva la fiamma della speranza di vittoria.

Nel Novembre del 2011 l’Ajax è in crisi, Martin Jol sta rischiando l’esonero e i “Lancieri” affrontano il PSV. È una partita dura, in cui Lindgren dell’Ajax viene espulso. Sotto di un uomo, con il risultato fermo sullo 0-0, Suárez è molto frustrato. Vorrebbe che si tornasse alla parità numerica. Vorrebbe avere un’occasione per segnare. Nulla di questo succede, e allora morde l’avversario Otman Bakkal. «Mi si è fatto incontro minaccioso, e allora ho morso la sua spalla. In realtà poi gli ho messo il braccio intorno alle spalle, al fischio finale, e gli ho chiesto scusa. Abbiamo lasciato il campo insieme, ma ormai il danno era fatto».

«Luís non vuole sentir parlare di psicologi perché è pienamente cosciente che il suo “male” è intrinsecamente connesso alla sua genetica competitività: non ammette la parola “sconfitta”», è il parere del giornalista Jop van Kempen. «Non è che non ci sto a non vincere: io ho bisogno di vincere. È un sentimento soffocante: non sopporto il peso del fallimento».

Per Suárez, intendo dire nell’ottica di Suárez (e per esempio anche in quella di Diego Lugano, il capitano della Celeste 2010), il fallo di mano contro il Ghana, l’esultanza entusiasta, addirittura il morso a Bakkal sono figli dello stesso movente: la celebre garra charrúa. Per gli altri, questa visione suona troppo giustificatoria; ed è comunque qualcosa da stigmatizzare. Gli vengono sanzionati sette turni di squalifica: Suárez li sconterà in pieno, ancora una volta, confessando anche di essersi pentito. Poi si trasferirà al Liverpool.


Se provassimo a guardare un po’ indietro, nella storia del calcio uruguayano, per chiederci se questa faccenda dell’irruenza, dell’agonismo esasperato sia stata una costante, non dico in generale, ma negli uomini più rappresentativi, quelli che sono entrati nel mito per essere decisivi, la risposta non gratificherebbe neppure un po’ Luís Suárez. Lontani i tempi dell’orgoglio indossato con umiltà da Obdulio Varela, o della classe ancién régime di Héctor Scarone e Héctor el manco Castro, monco della mano sinistra, i calciatori più forti tecnicamente sono sempre stati anche i più principeschi, nei modi come nel tocco: Alcides Ghiggia, Juan Alberto Schiaffino. José Leandro Andrade. Enzo Francescoli.

La storia del calcio Uruguaiano
1889
Una rappresentativa di Montevideo viene sconfitta dalla rappresentativa di Buenos Aires nel primo incontro “internazionale” dell'Uruguay
1901
A Montevideo si affrontano Argentina e Uruguay: è la prima partita tra selezioni nazionali a giocarsi fuori dalle Isole Britanniche
1910
La nazionale indossa per la prima volta una maglia Celeste, in onore della seconda maglia con la quale il River Plate de Montevideo aveva sconfitto gli imbattibili argentini dell'Alumni
1916
Si disputa la prima edizione della Copa América. La vince l'Uruguay sconfiggendo i padroni di casa dell'Argentina. Con 16 trionfi la Celeste è la Nazionale con più vittorie nella competizione.
1924
L'Uruguay è il primo paese sudamericano a partecipare ai Giochi Olimpici. Si aggiudica il torneo calcistico nell'edizione del '24 e in quella del '28. Per 76 anni nessuna squadra sudamericana è riuscita a bissare il successo della Celeste e guadagnarsi la medaglia d'oro
1930
L'Uruguay ospita la prima edizione del Campionato del Mondo di calcio, e ovviamente si laurea campione. Con il riconoscimento dei Giochi Olimpici come massima competizione calcistica prima della fondazione dei Mondiali, l'Uruguay è Tricampeón.
1934
L'Uruguay boicotta i Mondiali organizzati dall'Italia. Ripeterà il gesto di dissenso (da alcuni interpretato contro i regimi fascisti) nel 1938.
1950
Nella prima edizione postbellica dei Mondiali, ospitati dal Brasile, l'Uruguay vince insperatamente contro i padroni di casa. È l'anno del Maracanazo.
1954
Dopo aver polverizzato le britanniche (7-0 alla Scozia, 2-1 all'Inghilterra) la Celeste si piega solo in semifinale, ai tempi supplementari, all'Ungheria di Puskás. Finirà quarta classificata.
1957
Vince l'ultima edizione della Copa América giocata con la formula del girone all'italiana
1970
Con una squadra modesta l'Uruguay arriva fino alle semifinali. Di fronte, però, si trova il Brasile di Pelé.
1973
Inizia un periodo turbolento per la storia politica del Paese, con l'insediamento di una dittatura civico-militare, che si ripercuote sul calcio. La Nazionale buca la qualificazione ai Mondiali del 78, nella vicina Argentina.
1995
L'Uruguay vince la Copa América per la quattordicesima volta. Quello che seguirà sarà il più lungo digiuno continentale.
2010
Torna a giocare una semifinale Mondiale dopo quarant'anni. Sconfitta dall'Olanda, la Celeste perderà anche la finale per il terzo posto contro la Germania.
2011
Ultima vittoria in Copa América, con la quale supera – in Argentina – l'Argentina nel computo totale delle vittorie. Inoltre, si porta in testa alla speciale classifica per numero di tornei internazionali conquistati dalle Nazionali.
2014
Dopo aver eliminato l'Italia si piega, agli ottavi, davanti alla Colombia.

«Sofia ride sempre quando mi faccio tutto patriota, ma sono molto fiero dell’Uruguay. [...] Da qualche parte ho letto che il nostro inno è stato votato il più bello al mondo, dopo La Marsigliese [...] Siamo un paese piccolo, con pochi problemi», dice Suárez. «Tutte le cose di cui l’Argentina si vanta, in realtà, sono uruguayane: il miglior manzo, il dulce de leche. Gardel. Argentina e Uruguay non si odiano, ma ogni sfida è una battaglia sul campo». Nelle parole di Suárez quando racconta la spedizione in Argentina per la Copa América del 2011 c’è tutto l’orgoglio uruguagio, la “viveza criolla”, lo spirito picaresco di chi ha appena conquistato un quarto posto al Mondiale (mentre l’Argentina è stata strapazzata dalla Germania) e sa di poter puntare in alto, anche se il divario tecnico è notevole.

La visione del gioco di Suárez è tale e quale a quella del ragazzino che gioca per strada: per lui il calcio è un gioco in cui vale tutto, purché serva per ottenere un minimo vantaggio.

Quando le due Selección si scontrano, ai quarti, la partita è maschia: Suárez mette a segno tredici falli, sente la partita sfuggirgli di mano - ancora - e reagisce a modo suo - ancora. Se non sto raccontando il Secondo Brutto Episodio è perché non è mai avvenuto: Tabárez a un certo punto della partita gli dice, in sostanza, che se non si calma lo tira fuori.

Alla fine Suárez si calma, quanto basta all’Uruguay per arrivare in parità numerica al termine dei supplementari e poi vincere ai calci di rigore; nel frattempo il Brasile viene eliminato dal Paraguay, e la sensazione è che con una gestione oculata del patrimonio tecnico e dell’emozionalità l’Uruguay può alzare la coppa.

Contro il Paraguay, nella finalissima, alla quale l’Uruguay arriva battendo in semifinale il Perù per 2-0 con una doppietta di Suárez, un uno-due in cinque minuti all’inizio del secondo tempo, Luís segna la rete del vantaggio. Finirà in trionfo, con una doppietta di Forlán ad arrotondare il risultato. «Non c’è niente di meglio della sensazione di alzare il trofeo, e sapere che i tuoi figli diranno, un giorno, “Mio papà è stato Campione d’America». Supponiamo allora, per un istante, che l’animosità sia positiva.

Suárez e Evra si scontrano, questa volta in campo, ad Anfield, nel 2011.
Foto di Clive Brunskill / Getty.

Capitolo 7

Il Secondo Brutto Episodio:
il razzismo

Per trovare almeno un po’ credibile l’arringa difensiva con la quale Suárez prova a difendersi dall’accusa di razzismo sorta in seguito a l’affaire Evra bisognerebbe masticare un po’ di teoria degli atti linguistici o aver letto qualche libro sulla funzione performativa del linguaggio. Senza una preparazione del genere la lunga spiegazione presente nella sua autobiografia finisce per apparire una gigantesca nuvola di fumo creata più per confondere che per spiegare davvero.

Il 15 Ottobre del 2011 Suárez ha già “parato” un gol fatto, esultato smodatamente, morso un avversario. Tutto ciò fornisce una serie di aggravanti affinché la risposta di Suárez possa essere considerata plausibile. Perché cattiva e antisportiva.

Forse però neppure Evra ha saputo gestire la situazione con troppa freddezza (e maturità).

«Ho usato la parola spagnola negro in una discussione (in spagnolo) con Evra durante una gara tra Liverpool e Manchester United? Sì. La parola negro ha lo stesso significato in spagnolo e inglese? No, assolutamente no. Sono un razzista? No, assolutamente no.». Con questo sillogismo Suárez apre il capitolo che nella sua bio dedica al Secondo Brutto Episodio: per un tifoso del Liverpool, un hater del Manchester (o di Evra) e un uruguayano medio tanto basterebbe per scagionarlo, perché è un’ipotesi inattaccabile, adamantina.

Una quarantina di pagine prima, mentre parlava della sua infanzia, Luís ci ha tenuto a introdurre un particolare che in quell’istante non sembra avere tanto senso, ma che proattivamente assume dei connotati assai diversi: ovvero il fatto che sua zia, da piccolo, lo chiamasse negrito.

A quanto ne so io, in Uruguay la parola negro non è per nulla offensiva. El jefe negro, Obdulio Varela, il capitano della Celeste del Maracanazo, non per essere negro ha lo smalto scalfito di un’unghia. Non che valga come tesi d’assoluzione. Ma mi sembra che il nodo gordiano della faccenda, qui, sia perché mai Evra abbia deciso di mettersi a discutere con un hispanohablante in spagnolo (non sono a conoscenza del livello linguistico di Evra in spagnolo, ma i rapporti tra madre lingua e chi non lo è sono sempre sbilanciati e a rischio malinteso).

Eppure, se allargassimo il contesto in cui la parola negro si trova inserita, in quel particolare scambio di battute, vedremmo la tesi di Suárez smontarsi. L’uruguagio sostiene di essersi rivolto a Evra chiedendogli «Por qué, negro?»: qualcosa del tipo «perché mi stai accusando di / stai dicendo / stai facendo questo, negro?». Evra, dalla sua, in un’intervista post-match a Canal+ spiega che dopo uno scontro avrebbe chiesto a Suárez chiarimenti sul particolare trattamento riservatogli, con tutta evidenza rude, o ruvido, come è credibile aspettarsi dall’uruguayano. E che lui, per tutta risposta, avrebbe tranciato la conversazione con un fulminante «porque eres negro». Perché sei negro.

Evra non era nuovo ad accuse di razzismo. Nel 2006, appena arrivato al Manchester United dal Monaco, alla fine di un incontro con il Liverpool aveva dichiarato di essere stato apostrofato con epiteti razzisti da Finnan. La Football Association aveva approfondito la questione con un’indagine, al termine della quale Finnan era stato assolto. Nel 2008 era stato squalificato per quattro giornate in seguito a un alterco con un giardiniere di Stamford Bridge, reo - a suo dire - d’avergli rivolto ancora una volta insulti razzisti. Insulti dei quali non era stata rilevata evidenza. Insomma: Evra è spesso passato per quello che si gioca il jolly razzista anche per provocare gli avversari.

Dopo l'accusa di razzismo da parte di Evra ha iniziato, in buona sostanza, a farsi un sacco di paranoie: e se scambiassi la mia maglia con un avversario di colore? E se non la scambiassi? Se mi faccio una foto con un tifoso nero?

La questione della barriera linguistica appare da subito dirimente: Suárez afferma di non essere andato personalmente dall’arbitro perché la sua scarsa dimistichezza con l’inglese non gli avrebbe permesso di spiegarsi, e forse avrebbe potuto amplificare il malinteso (oltre al fatto che si tende a non andarsi a giustificare, né con l’arbitro né con nessuno, se si ritiene di non avere proprio nulla di cui doversi giustificare). Successivamente uscirà fuori che Evra avrebbe a sua volta ricambiato l’offesa dando a Suárez del “suramericano” (neppure questa parola pare avere connotazioni negative, ma non conosco così bene il francese da potermi sbilanciare: ovviamente ne avrebbe, se vicino comparisse qualcosa come “di merda”).

È vero che entrambi avrebbero potuto cercare una riconciliazione. Ma Suárez era troppo occupato a combattere contro i suoi demoni. I compagni, in allenamento, per sdrammatizzare gli urlano «passa la palla, negro». «Alzati, negro, che non t’ho neppure toccato». Lui è troppo spaventato per stare al gioco. Nella mente di Suárez, anche il solo fatto d’aver ricevuto un’accusa del genere è un pensiero troppo pesante da sopportare, e ha delle ripercussioni: per esempio, quando Dani Alves è stato vittima di quel gesto esecrabile da parte di un tifoso avversario che gli ha lanciato una banana contro, Suárez si è dovuto costringere a non mettere sui social network nessun messaggio di solidarietà: se avesse usato lui l’hashtag #somostodosmacacos, cosa sarebbe successo? Ha iniziato, in buona sostanza, a farsi un sacco di paranoie: e se scambiassi la mia maglia con un avversario di colore? E se non la scambiassi? Se mi faccio una foto con un tifoso nero? «Puoi dirmi che sono uno che dice le parolacce, uno che morde, uno che si tuffa in area senza esser toccato. Ci sono le prove. Ma razzista: mi fa un sacco male. È un’accusa molto seria. E mi fa male: a me, alla mia famiglia, è una macchia indelebile, che rimarrà anche quando i miei figli saranno cresciuti».

Il 20 Dicembre 2011 la FA ha dichiarato Suárez colpevole, punendolo con 8 giornate di squalifica, ritenendo che in quel contesto la parola “negro” fosse da intendersi pronunciata in maniera offensiva, senza lo scopo scherzoso o conciliatorio sostenuto dall’uruguayano, dato che i due stavano di fatto litigando. Quando nel febbraio del 2012 Suárez è tornato in campo, dopo il Tottenham il calendario ha voluto che il Liverpool incontrasse nuovamente il Manchester United. E l’attesa stretta di mano conciliatoria tra i due non c’è stata.

«Pepe Reina era dietro di me, in fila; poi m’ha detto “Ho visto cosa ha fatto - ha abbassato la sua mano così non potevi stringergliela”. Una volta che l’ho superato ha iniziato il teatrino di prendermi per il braccio e protestare che non gli avevo stretto la mano. E poi ha guardato verso Ferguson, per vedere se Paparino stava guardando. Se era una trappola, c’ero cascato in pieno». Anche Sofia, che è in tribuna, gli invia un sms. Luís lo legge solo riaccendendo il telefono, ore dopo la fine della partita: «Non ti ha dato la mano. L’ha abbassata prima che arrivassi di fronte a lui!».

Capitolo 8

Il Terzo (non poi così) Brutto Episodio

«Così come il calcio è diverso da paese a paese, lo è anche “ingannare” l’arbitro. Come il trabocchetto viene recepito è un fatto culturale, lo stesso la reazione che suscita. Mi ero già fatto una reputazione per essere un tuffatore, ma nella mia parentesi inglese ho preso come venti cartellini gialli, e più di quindici erano per proteste, per gesti, per aver detto cose che non avrei dovuto dire o per aver contestato una decisione dell’arbitro. Non uno per essermi tuffato». Nella stagione 2012/13, il derby del Merseyside tra Everton e Liverpool diventa incandescente quando Moyes, tecnico dei Toffees, qualche giorno prima del match accusa Suárez, senza mezzi termini, di essere un tuffatore.

Nell’espressione rassegnata e quasi compiaciuta di Moyes di fronte all’esultanza provocatoria di Suárez c’è tutta la consapevolezza dell’attore non protagonista in un film premiato con l’Oscar.

Già in Olanda i tifosi, per schernirlo, gli avevano dedicato il coro “Su-árez, oh oh”, sull’aria di “Volare” di Modugno. «Dicono che tuffarsi sia qualcosa di molto sudamericano. E guarda, è vero che i sudamericani sono più picareschi, che cercano di sfruttare ogni tipo di vantaggio».

Nel corso della partita, a un certo punto Suárez si tuffa volontariamente a terra: ma non è in area, non sta reclamando alcun rigore. Scivola di fronte alla panchina dell’Everton, davanti a Moyes, per mettere in scena l’esultanza per una rete che in realtà non è neppure sua, ma un’autorete di Leighton Baines. Si sta comportando esattamente come ora il pubblico si aspetta si comporti: da arrogante, da provocatore. Da presuntuoso, da chi non ha paura di attirarsi le antipatie. «Moyes si è alzato dalla panchina per dirmi qualcosa, ma non potevo sentirlo perché era proprio il momento in cui i compagni arrivavano e mi iniziavano a saltare addosso. L’ha presa bene. Anche se mi ha detto che mi sarei dovuto tuffare di fronte a un sacco di allenatori, se tutti quelli che credevano fossi un tuffatore avessero dovuto ricevere lo stesso trattamento».


Nel 2005, quando aveva 18 anni, Luís ha deciso di farsi un tatuaggio insieme a un cugino. Si è fatto tatuare un tribale del quale oggi si vergogna. In un’intervista al New York Times dice che se lo sta facendo ritoccare. Vorrebbe cancellarlo, ma l’inchiostro è indelebile. Si può coprire, ricalcare, riempire. Trasformare in qualcos’altro. Ma non si può cancellare. Non si può tornare indietro, coi tatuaggi. Credo sia una metafora interessante. Il Primo Brutto Episodio, il morso a Bakkal, è come un tatuaggio figlio dell’istinto, di un momento in cui ha perso il controllo e gli è saltato in testa di fare qualcosa di molto lontano - seppur non estraneo - a ciò che desiderava.

Il Secondo, la querelle con Evra, è stato l’abbrutimento di una macchia d’inchiostro già sotto pelle: l’accusa di razzismo l’ha resa incancellabile, e dai tratti più marcati.

Il Terzo Brutto Episodio è il ricamo finale, innecessario, a un’opera che forse non ti vergogni neppure più così tanto di nascondere, perché hai cercato di coprirlo così tante volte da essertene dimenticato.

Quando aveva 18 anni Luís si è fatto tatuare un tribale del quale oggi si vergogna. Vorrebbe cancellarlo, ma l’inchiostro è indelebile. Si può coprire, ricalcare, riempire. Trasformare in qualcos’altro. Ma non si può cancellare. Non si può tornare indietro, coi tatuaggi. Credo sia una metafora interessante.

Sofia, in quella stessa intervista al New York Times, dice che hanno lavorato insieme per costruire una specie di bunker mentale (una fasciatura con la quale nascondere il tatuaggio, se vogliamo continuare la metafora), un posto asettico ed insonorizzato in cui rimanere ancorati a terra, alla realtà: se le cose si fanno dure, la soluzione migliore è rinchiudersi in quel bunker.

Dall’aneddoto che racconta subito dopo, e cioè quello di Luís che torna a casa dopo la strepitosa prestazione contro il Norwich e le racconta dei quattro goal tutti insieme e lei fa qualcosa tipo ah-ahm e poi si rimette a parlare dei bambini, si potrebbe essere portati a pensare che questo bunker costruito mattone per mattone sotto la direzione ai lavori della signora Balbi possa esser stata una mossa azzeccata. «La persona che va in campo sono io. Ma quello che suono fuori dal campo, quello che vive nella maniera giusta, che si riposa, che segue la dieta giusta per lui, che non beve, che non fuma: quello dipende dalla persona che ho a fianco».

La mia impressione, piuttosto, è che andarsi a rifugiare negli affetti non sia stato, alla lunga, fruttuoso: forse Suárez si sarebbe dovuto affidare a un esperto, a qualcuno che gli spiegasse come gestire la sua predisposizione al colpo di testa in maniera meno emozionale, e più sterilizzata possibile.

Ma Suárez è un tipo pieno di convinzioni, e punti fermi, e certezze. L’unico risultato visibile e palpabile, nondimeno, è che caduto una volta da cavallo, non ha tardato a ripetersi. Non voglio spingermi a dire a causa di Sofia. Ma, almeno questo sì, nonostante Sofia. Nonostante Beatrice.

Luís Suárez rotola a terra durante una partita di Premier League control il West Ham, il 6 aprile 2014.
Foto di Julian Finney / Getty.

Capitolo 9

Il Quarto Brutto Episodio, che poi son due: mordi ancora

Il 21 Aprile del 2013 Chelsea e Liverpool si stanno giocando una chance di qualificazione per la Champions League. È un match strano, avvincente ma teso: Oscar porta in vantaggio i Blues, Sturridge pareggia pochi minuti dopo l’inizio del secondo tempo. Cinque minuti più tardi il Chelsea batte un corner, e Suárez la tocca con una mano: Hazard realizza il calcio di rigore. La scena di Luís che al settimo minuto di recupero anticipa Ivanovic e segna il gol di un pareggio insperato, ma tutto sommato inutile a entrambe le squadre, di fatto non sarebbe dovuta esistere. Suárez avrebbe dovuto abbandonare il campo mezz’ora prima.

Quando si dice una bugia il tessuto nasale si dilata per via del maggiore afflusso di sangue. È un po’ quello che succede a Suárez quando l’intervistatore gli chiede cosa è successo con Chiellini.

Subito dopo il Quarto Brutto Episodio, Suárez accarezza Ivanovic. Sorride, e lo accarezza platealmente dietro la testa. Poco prima lo ha morso su un braccio: il difensore ha cercato di mostrare il segno sulla carne all’arbitro, con lo stesso slancio d’incredulità che avremmo imparato a riconoscere negli occhi di Chiellini. «Sono triste per quello che è successo oggi pomeriggio; chiedo scusa a Ivanovic e a tuto il mondo del calcio per il mio comportamento imperdonabile. Mi dispiace tanto!».

Le dichiarazioni dei calciatori sui social network riflettono molto della vera essenza degli stessi: non c’è la pacatezza diplomatica degli uffici stampa a mitigarli. C’è al contrario l’estemporaneità estrema, piena di ingenuità e piccoli dettagli rivelatori. Io, in quel punto esclamativo finale, rivedo l’intonazione del ragazzino che scoperto e sgridato cerca, non potendo più negare, di gridare la propria colpevolezza, come se un’ammissione concitata potesse cancellare la portata del danno arrecato.

Quel morso, anche per via della recidività, gli costa dieci giornate di squalifica. Subito dopo il comunicato Suárez ha raccontato di essere tornato a Montevideo e di aver dato un party con gli ex compagni del Nacional. Come se avesse voluto fare un viaggio nel tempo, a ritroso, al momento ancora precedente alla prima testata a un arbitro. Come se l’avesse fatto per bloccare il tempo, o imboccare una strada alternativa.

Perché quella che invece si trova a percorrere, ora, è sterrata e piena di ostacoli. Le condanne arrivano da ogni angolo, anche i politici si mettono in fila per esternare i loro j'accuse: il primo ministro Cameron lo taccia di essere «il peggior esempio possibile». Luís comincia a pensare che il suo tempo in Inghilterra sia finito: «Quando anche il primo ministro fa commenti sul tuo comportamento, probabilmente è tempo di pensare ad andarsene da qualche altra parte».
Il Quarto (e fin lì Peggiore) Brutto Episodio non è neppure efficace: il Liverpool non si qualifica per la Champions League, e lui diventa ufficialmente il Nemico Pubblico Numero Uno.

«Ero il tipo che aveva morso uno, e un anno prima era stato accusato d’essere razzista. Credo ci fossero grandi club che pensavano avrei apportato un danno, alla loro immagine». «Una parte di me pensava: giudicatemi da quello che faccio in campo. Ma anche gli incidenti dei morsi erano avvenuti in campo, no?». In quel momento Liverpool è l’unico posto in cui, nonostante tutto, non si sono ancora stufati di lui.


«Arrivo a un livello di stress che se non scarico, anche irrazionalmente, impazzisco», scrive nella sua autobiografia Suárez. C’è qualcosa che non funziona da un punto di vista strettamente semantico: per evitare di impazzire, per scansare l’irrazionalità, Luís deve scaricarsi. Anche irrazionalmente.

La paura di perdere quello che ha, e la conseguente reazione frustrata, fornisce più un alibi che una vera giustificazione; e le dinamiche di somatizzazione del peccato, o della cattiveria, che Suárez ha adottato dopo ogni Brutto Episodio danno l’impressione di essere in fin dei conti puerili. Leggendo la sua autobiografia ci si rende conto di un postulato che lui sembra aver interiorizzato a meraviglia: chiedendo scusa andrà tutto bene. Oppure, se non vuoi chiedere scusa, allora nega: come dice la psichiatra Saima Latif, «negare è il metodo che i bambini usano per evitare la vergogna». Come se bastasse soltanto chiedere scusa, o pentirsi platealmente, o negare, per salvarsi.

Secondo Bill Barnwell, che argomenta il suo punto di vista in un pezzo su Grantland uscito subito dopo il morso a Chiellini, l’Ultimo Brutto Episodio, le reazioni di Suárez non incarnano un tentativo di difesa, ma di offesa: il suo comportamento spinto all’estremo sarebbe un tentativo di far reagire gli avversari, di scatenare una reazione meccanica mediante la quale a finire espulsi dovrebbero essere gli altri, e non lui. Ma si tratta di un processo inefficace, che se da una parte non scagiona Luís, dall’altra gli conferisce una capacità di ragionamento superiore, di premeditazione, del quale non sembra capace. Michael Bloomfield, uno psichiatra, sul The Guardian poco dopo l’episodio di Italia - Uruguay scrive «non so cosa stesse passando per la testa di Luís Suárez. Probabilmente neppure lui. Un atto di quella natura non può essere premeditato».

Munari diceva che complicare è facile; è semplificare ad essere estremamente complicato. Il tema psichiatrico più gettonato comunque è quello della fase orale di Freud, della presunta regressione a quello stato (o mancato superamento tout court) da parte di Suárez. Si cita Karl Abraham, si cercano nessi tra la regressione alla fase orale e gli stadi di depressione, le inclinazioni al vittimismo e lo sviluppo di un egocentrismo spiccato. E c’è addirittura stato chi è arrivato a citare i potenziali risvolti sessuali del morso, l’eccitazione che ne deriva.

Simon Hattenstone, giornalista del Guardian, lo ha intervistato a Barcellona, pochi giorni prima dell’uscita dell’autobiografia “Crossing the line”. C’è un video in cui palleggiano amichevolmente sul campo d’allenamento. Suárez parla con un tono monotono, è (sembra essere) molto tranquillo. Non troppo a suo agio, casomai. Il giornalista, invece, è entusiasta come un ragazzino. «Credi di avere qualcosa che non va?», gli chiede. «Non so cosa risponderti», risponde Suárez.

Nel suo agire c'è una piccola parte di consapevolezza: la sua non è solo una reazione istintiva di fronte al pericolo, ma anche il desiderio di portare all’estremo una sfida in primis con se stesso. Quasi un volersi sentire in pericolo.

Verso la fine dell’intervista, Suárez tronca una risposta a metà e se ne va. L’agente - sentiamo quello che gli dice perché Suárez ha ancora il microfono acceso addosso - lo invita a calmarsi: «Ti stai agitando troppo». È agitato per via della domanda sul morso a Chiellini. «Me l’avranno chiesto trentottomila volta. Mai più, non dirò più niente, questa è l’ultima volta».

Secondo Luís, il problema è che in competizioni come la Coppa del Mondo non si ha tempo per respirare, per pensare. È il tema che ritorna dei calciatori sotto pressione. «Ti senti di voler abbassare le serrande, rinchiuderti per un po’, ma non puoi. Non hai tempo, e credo sia questo che mi abbia danneggiato prima della partita contro l’Italia. Avevo tutta quella tensione dentro e non ho saputo trovare una maniera per sfogarla».

«Ho lavorato in isolamento, disperato nel tentativo di fare il mio ritorno, lontano dai compagni di squadra. Avevo Walter e Sofia, certo, ma non ci ho mai davvero parlato». Forse sfogarsi con la moglie, aggrapparsi alla sua ancora di salvataggio, non gli è sempre davvero servito. Oppure: non è stato abbastanza.

«Ho imbottigliato tutta la pressione. Dovevo scaricarmi, ne avevo bisogno. Ma non potevo. O non volevo». Io sono convinto che quella di Suárez non sia vera cattiveria, ma anche che nel suo agire ci sia una piccola parte di consapevolezza: la sua non sarebbe solo una reazione istintiva di fronte al pericolo, ma anche il desiderio di portare all’estremo una sfida in primis con se stesso. Direi quasi un volersi sentire in pericolo.

L'uomo di famiglia, con la moglie Sofia e la figlia Delfina, sugli spalti ad Anfield.
Foto di Alex Livesey / Getty.

Capitolo 10

Fine Pena Mai?

«Dopo alcuni giorni in cui non volevo parlare con nessuno, dopo il morso a Chiellini, Sofia e io siamo andati in campagna, a Montevideo, e abbiamo iniziato a parlare di tutto: ho accettato quello che avevo fatto, e ho capito cosa avrei dovuto fare». Se avesse dato retta alle discussioni che sorgevano attorno al suo nome, forse Suárez avrebbe finito per continuare a negare l’evidenza, come altre volte gli era successo. Aveva dalla sua Tabárez, che in conferenza stampa aveva detto «Questa è la Coppa del Mondo di calcio, non c’entra niente la moralità spicciola», addirittura il Presidente della Repubblica Mujica: «Io non ho visto Suárez mordere nessuno. Si danno così tanti calci e botte, di solito non è un problema. Abbiamo scelto Suárez non per fare il filosofo, il meccanico, o per le sue buone maniere. È un calciatore, ed è eccellente».

«Quando mi hanno presentato, al trofeo Gamper, sentivo come se mi avessero invitato come ospite. Come se avessi vinto un premio: giocare una sera con il Barcellona».

Credo che l’episodio scatenante per innescare il motore dell’espiazione, piuttosto, sia stata una domanda che gli ha rivolto la figlia Delfina, quando ha visto che l’Uruguay era in campo e suo padre non c’era: «Papà, perché non sei lì a giocare?».

Dopo aver sempre rifiutato l’aiuto di un analista, dopo avergli preferito l’accogliente rifugio affettivo della moglie Sofia, oggi Suárez è seguito da Joaquín Valdés, uno degli psicologi dello staff del Barcellona, molto legato a Luís Enrique.

Scrivere di Suárez è una trappola. Nella sua storia non c’è nulla di edificante: ad ogni Brutto Episodio ha sempre fatto da contraltare un miglioramento nella sua carriera.

La scusa con la quale si era sempre divincolato dall’analisi come dai difensori avversari era più o meno questa: «Io sono quel tipo di giocatore che in campo dà tutto. È il mio modo di giocare, e non voglio che parlando con gli psicologi possa perdere questa caratteristica». Oggi si è ricreduto. «Ho avuto uno specialista che mi ha aiutato a guarire il ginocchio dopo l’infortunio: cosa c’è di male se ho uno specialista del settore che mi aiuta a gestire la rabbia?».

Scrivere di Suárez è una trappola. Nella sua storia non c’è nulla di edificante: ad ogni Brutto Episodio ha sempre fatto da contraltare un miglioramento nella sua carriera. Più il fardello della cattiva considerazione, delle accuse, dell’odio, della condanna si appesantiva, più Suárez - come se si trovasse all’altro estremo della corda che passa intorno alla carrucola - si elevava.

Una sera ero a cena con alcuni miei amici argentini. Al di là della rivalità tra i loro paesi, parlavamo di Suárez e ad un certo punto uno di questi amici ha cominciato a inscenare una gag che sarebbe dovuta suonare simpatica - forse lo era perché tutti sembravano molto divertiti - in cui, fingendo di parlare al telefono con l’uruguayano, discutevano di tagli d’asado, di quale fossero i migliori: «Purtroppo no, Luís: abbiamo finito le costate di difensore». Finiva così la gag.

Ci sono rimasto un po’ male, non so bene perché: forse perché approfondire la sua storia ti instilla il dubbio (o l’illusione) che Suárez sia solo vittima di un grosso malinteso, che sia semplicemente troppo vivo dentro un contesto, il calcio e chi lo segue, poco disposto a tollerare, e che anzi spesso si arena di fronte a certi tabù. O forse è solo l’ennesimo inganno, un tuffo in area che sei certo d’aver visto e per il quale assegni il rigore, mentre Luís se la ride alle tue spalle.

L’ultimo stadio, nel processo di elevazione di Suárez, coincide con la società che più di tutte, in senso estrinseco e in particolare per lui, somiglia al Paradiso; ciò che più s’avvicina al luogo dei giusti. Quando ha appreso che l’accordo tra Liverpool e Barça era concluso, Luís confessa di essersi messo a piangere. Stava vivendo un periodo terribile, non si sentiva neppure più un professionista: obbligato ad allenarsi da solo, in semiclandestinità, aveva l’impressione di star facendo qualcosa che non si doveva fare, di doversi nascondere. Non credeva che espiare le proprie colpe potesse essere così dura.

Il giorno della presentazione ufficiale un giornalista ha chiesto ad Andoni Zubizarreta, direttore sportive dei culé: «Come potete continuare a dirvi més que un club dopo aver preso Luís Suárez?». «Noi qua accettiamo esseri umani, con tutte le loro imperfezioni, » ha risposto. «Che abbiano saputo imparare dai loro errori». Il brutto tatuaggio è pronto ad acquistare una nuova brillantezza.


Fabrizio Gabrielli scrive e traduce dei libri. Ha tradotto Lugones e collaborato con i blog di Finzioni, Edizioni Sur e Fútbologia occupandosi di Sudamerica, calcio e letteratura, anche in combine. Il suo ultimo libro si intitola "Sforbiciate. Storie di pallone ma anche no" (Piano B, 2012). È vice-direttore de l'Ultimo Uomo.

Per ulteriori approfondimenti

  1. Luis Suárez, “Crossing the line”, Headline Book
  2. Eduardo Galeano, “Splendori e miserie del gioco del calcio”, Sperling&Kupfer
  3. Osvaldo Soriano, “Obdulio Varela” (in “Fútbol”), Einaudi
  4. Roberto Fontanarrosa, “Wilmar Everton Cardaña” (in “Puro Fútbol”), Planeta
  5. Milton Fernández, “Sua Maestà il Calcio”, Rayuela Edizioni
  6. Juan Carlos Luzuriaga, “El football del novecientos”, Taurus
  7. Franklin Morales, “Fútbol: mito y realidad”, Nuestra Tierra
  8. Andreas Campomar, “Golazo!: The Complete History of How Soccer shaped Latin America”, Penguin
  9. Luis Prats, “Montevideo: la ciudad del fútbol”, Fin de Siglo
  10. Fabio Stassi, “È finito il nostro carnevale”, Minimum Fax
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