
La mia prima volta allo stadio Del Duca di Ascoli Piceno è stata nella primavera del 1998, durante un Ascoli-Juve Stabia di un campionato della Serie C a due gironi. I sette anni di C dell’Ascoli, dalla stagione 1995/96 a quella 2001/02, per me che iniziavo a prendere confidenza con l’educazione sentimentale del calcio, erano un piccolo e seducente rito settimanale: la radio-sveglia in camera dei miei genitori con il display a numeri rossi quando l’Ascoli giocava in trasferta, e le corse lungo il parterre dello stadio, dove si vedeva la partita in piedi dietro alle panchine. L’attesa del TG regionale per vedere i gol immaginati ascoltando la radiocronaca o per analizzare rigori non dati che dal vivo sembravano limpidissimi, ma che le immagini della regia locale trasformavano in fotogrammi fantasma, meno reali del proprio ricordo.
Per mio padre e i suoi coetanei quegli anni sembravano invece una punizione che gli dei del calcio avevano deciso di infliggere a una delle provinciali terribili della Seria A degli anni Settanta e Ottanta. I racconti delle stagioni nel massimo campionato, di vittorie contro le grandi, di gol all’ultimo minuto e di prodezze balistiche, sfumavano molto facilmente dalla cronaca all’epica, sfilacciando i confini tra reale e fantastico, documentato e immaginato, ricordo personale e memoria collettiva.
Per la mia generazione, quelli nati tra gli anni Novanta fino ai Duemila, era impossibile costruire una mitologia all’altezza. L’Ascoli è stato soprattutto il leggendario Ascoli di Costantino Rozzi e Carletto Mazzone. Una squadra costruita nel ricordo di nonni e genitori, nei libri celebrativi delle promozioni e degli “anni dei record” e nelle immagini raccolte in VHS che uscivano con i giornali locali. È vero che l’Ascoli di Silva e Gianpaolo in Serie A è stata una bella storia di provincia, ma pure sempre storia: troppo razionale e documentata per finire nella leggenda. Molti coetanei, in fondo, restano più legati ai calciatori feticcio delle annate più buie e difficili, nelle serie minori.

È così per migliaia di tifosi dell’Ascoli. Ed è così, a trenta chilometri di distanza, per migliaia di tifosi della Sambenedettese, cresciuti lacerati tra i ricordi delle generazioni precedenti che raccontavano epiche stagioni in Serie B e la realtà fatta di fallimenti societari e militanza, strenua e fedele, nelle categorie più basse del calcio italiano.
Ascoli e Sambenedettese sono state in grado di arrivare, in questa stagione, a circa 12.000 abbonati totali in una provincia di 200.000 abitanti. C’è un punto in comune in cui collidono i ricordi di generazioni di tifosi, divisi tra quelli che li hanno vissuti e quelli che li hanno solo sentiti raccontare, in cui l’energia di due tifoserie brucia come nell’esplosione di una stella: il derby Ascoli-Sambenedettese.
Dopo 39 anni, un’era geologica calcisticamente parlando, domenica 26 ottobre in campionato e mercoledì 29 ottobre in Coppa Italia, questo derby si giocherà due volte in quattro giorni. Da ascolano sono rimasto colpito da quanto questa partita sia stata mediatizzata, tra video su Instagram e articoli dedicati dai quotidiani nazionali. Mai avrei pensato che il derby della mia piccola provincia, mai avrei pensato che la mia epica privata, potesse diventare un argomento dibattuto quotidianamente nella dieta mediatica di chi segue il calcio.
Nei profili Instagram che organizzano partite tra vecchie glorie e negli instant-article con le gallery, Ascoli-Samb viene raccontata come un derby da guerriglia, una partita da “alta tenzione” in cui sono in ballo la vita e la morte. Si cita Mazzone, quando intervistato prima di un Roma-Lazio disse che “chi ha giocato Ascoli Sambenedettese non ha paura di niente” (e infatti da calciatore ci rimise la tibia); la morte del portiere bianconero Strulli, colpito in un contrasto di gioco dall’attaccante avversario Caposciutti; l’assedio dei tifosi ascolani alla propria squadra rifugiata negli spogliatoi dopo uno zero a zero che aveva promosso l’Ascoli in A e aiutato la Sambenedettese nella lotta per non retrocedere, “Promossi e assediati” come titolò un giornale dell’epoca.
Agli amici che nelle chat del fantacalcio mi chiedono perché questa partita sia così sentita non so bene cosa rispondere: rivalità territoriali, questioni di campanile, differenze geografiche e culturali – gli ascolani pecorari e i sambenedettesi pesciari – ma nulla sembra giustificare l’attenzione rivolta a questa partita. In fondo, è una partita che si è giocata solo 36 volte in 100 anni, e solo sei volte in Serie B che ne è stato anche il palcoscenico più alto. Forse è proprio questa rarità ad accrescerne l’importanza; forse il suo fascino, più che nelle rivalità triviali, è proprio nella sua inafferrabilità. Nel suo ancoraggio alla memoria, a non avere una sua concretezza, a essere sotto-esposta in un’epoca in cui tutto è sovra-esposto.

Ancora per qualche ora i tifosi della mia generazione potranno mantenerne l’aura mitica. La partita che aspettiamo da quando abbiamo iniziato a seguire il calcio e che non abbiamo mai vissuto. Ascoli e Sambenedettese negli ultimi 39 anni si sono sempre sfiorate. Per qualche annata sembrava che l’Ascoli facesse un passo falso di troppo e che per la Sambenedettese fosse l’anno buono. Poi l’Ascoli nel 2023/24 è retrocessa in Serie C. L’anno successivo la Samb è stata promossa dalla D. Una storia di striscioni, sfottò, cori e meme, vissuta con l’ingenuità di chi forse, sotto sotto, pensava che a quell’appuntamento non si sarebbe mai presentato, per tenere ben distinta l’immaginazione dalla sua realizzazione. Come nell’amore, quando a una frenetica prima mossa si preferisce un placido rifugio nel desiderio. Il fascino leggero della fantasia contro il peso brutale della realtà.

Gli Anni ’80 che sono stati il periodo d’oro di queste due squadre, il giornalista Giorgio Manganelli, invitato in città da una rivista locale per un reportage, si chiese “Esiste Ascoli Piceno?”. La sua domanda è diventata un piccolo libro edito da Adelphi con le illustrazioni del pittore ascolano Tullio Pericoli: “Ricordo di averla visitata in una esistenza che, per molti indizi, dovrei considerare precedente; quello che non ho potuto stabilire è se Ascoli Piceno esiste ora. Rammento di aver bevuto l’anisetta in una piazza estremamente decorativa; ritengo improbabile che una piazza così fatta esista veramente; probabilmente è una allucinazione, come la parola « rua » per designare una strada, o le olive ripiene”. Forse l’Ascoli di Manganelli è come il derby con la Sambenedettese, qualcosa di “metafisicamente incompatibile” con la realtà, perché sappiamo che “nessun ricordo dà la certezza che qualcosa sia veramente accaduto”.
Tra poche ore Ascoli-Sambenedettese tornerà a essere solo cronaca: qualche highlights e un tabellino con cartellini e sostituzioni. Ci saranno recriminazioni per l’arbitraggio e si maledirà la sfortuna. Perderà, per un’intera generazione, il fascino di un fatto straordinario mai vissuto: andare a un concerto dei Doors, comprare un disco dei Beatles appena uscito, vedere al cinema Taxi Driver.
Se l’Ascoli di Rozzi e Mazzone, come la Samb di Zoboletti e Sonetti, sono per sempre relegate al mondo della memoria e continueranno a essere tramandate di generazione in generazione, il derby è tornato in modo prepotente nel mondo reale, disarcionando il meccanismo simbolico del ricordo. Non ci sono più eroi, non c’è più epica. Ascoli-Sambenedettese è tornata a essere solo una partita di pallone.