Quest’estate Roger Federer ha dato un discorso di fine anno all’Università di Dartmouth, in New Hampshire, che sui social ha avuto molto successo. La parte che più è stata tagliata e ricondivisa è quella che lui, nel suo discorso, definisce la seconda lezione: «È solo un punto». «Che percentuale di punti ho vinto secondo voi in tutta la mia carriera?», chiede Federer alla sua platea «Solo il 54%: in altre parole, persino i tennisti di più alto livello vincono appena metà dei punti che giocano. E quando perdi un punto su due, in media, impari a non rimuginare su ogni tiro. Ti insegni a pensare: ok, ho fatto doppio fallo. Ma è solo un punto. Ok, sono andato a rete e il mio avversario mi ha passato di nuovo. Ma è solo un punto. Anche un gran colpo, uno smash di veronica che finisce nella top ten di ESPN: anche quello è solo un punto. Questo è ciò che vi sto dicendo: quando giochi un punto è la cosa più importante del mondo. Ma quando è passato, è passato».
Se fossi il mental coach di Nikola Krstovic, oggi forse dovrei fargli vedere questo discorso. Ok, era il 92esimo, mancavano tre minuti alla fine della partita ed eravate sopra di due gol, ma è solo un errore. Ok, invece di approfittare dell’uscita a mezza altezza di Suzuki hai provato ad aggirarlo con la più prevedibile delle finte, ma è solo un errore. Ok, il Parma è sembrato rigenerato dall’essere rimasto aggrappato con l’ultimo dito delle proprie mani al precipizio e nei tre minuti rimanenti si è risollevato segnando due gol, ma è solo un errore. Oggi questo errore ti sembrerà la cosa più importante del mondo ma adesso è il passato.
Mi chiedo se questo discorso avrebbe davvero senso, se Krstovic se lo sta chiedendo o se anche solo porre la questione, per un calciatore, sia rimuginare troppo sul passato, come Federer ammonisce di non fare. Alla fine Federer era un tennista e nel tennis, finito un punto, effettivamente ne hai subito un altro, e mi chiedo se la sua metafora abbia davvero un valore universale, come lo avrebbe voluto avere in quel discorso a degli appena laureati che stanno per entrare nella propria “confortevole, prosperosa, rispettabile vita adulta”, come la chiamava David Foster Wallace in un altro celebre discorso universitario, o se fuori dal campo da tennis non sia altro che manipolazione (non è questo, forse, il lavoro dei mental coach?).
Il calcio non è il tennis e questo apre subito una piccola crepa nella forza del linguaggio, nella sua pretesa di universalità. Un attaccante, e in particolare un attaccante del Lecce, dopo aver fallito un gol a tu per tu col portiere non ha un altro punto in cui può resettare mentalmente, ma può passare minuti interi, a volte partite intere, a correre dietro una palla con il solo scopo di rimuginare su ciò che è successo. Questo, credo, rende il calcio più simile alla vita adulta di gran parte di noi di quanto non sia il tennis. E chi lo dice poi che il pensiero di quell’errore se ne andrà davvero? E se si depositasse nel fondo della memoria muscolare, e se si rifacesse vivo nel momento in cui si ripresenterà l’occasione rovinando un altro di quei momenti che sono momenti e nient’altro? Giuseppe Tomasi di Lampedusa, nel Gattopardo, parla - certo non in relazione ad errori come quelli Krstovic, ma la figura mi sembra comunque appropriata in questa sede - di “sedimento di lutto”, ma sono sicuro che ci sarà qualche termine più scientificamente appropriato per parlare di tutto questo.
D’altra parte, il calcio è immerso nella retorica dei bivi, della sliding door. Singoli momenti - per l’appunto - diversi dagli altri. Crepacci che si aprono nel terreno in grado di inghiottirti nella terra o di portarti in un’altra dimensione, come i tubi verdi di Super Mario che ti teletrasportavano in un altro livello. Se siete andati allo stadio, o se avete amici tifosi, avrete sicuramente sentito parlare di un giocatore che chissà dove sarebbe arrivato se non avesse sbagliato quel gol, se non fosse stato espulso in quella partita, di una squadra che chissà quante coppe avrebbe vinto se non avesse perso quella singola partita, o se non avesse subito un gol in quell’altra. C’è chi è convinto che se Del Piero avesse segnato a tu per tu con Bartez nella finale degli Europei del 2000 alla fine l’Italia avrebbe vinto, che se Totti non avesse segnato il celebre rigore contro l’Australia, nel 2006, l’Italia non avrebbe vinto il Mondiale.
Allo stesso modo è facile pensare che se Krstovic avesse segnato quel gol al 92esimo il Lecce avrebbe sicuramente vinto. Ma se ci pensate anche di questo, in fondo, non possiamo essere sicuri. D’altra parte chi avrebbe scommesso sulla rimonta del Parma anche dopo l’errore di Kristovic? Quante altre volte è successo che una squadra, in 10, rimontasse uno svantaggio di due gol negli ultimi tre minuti di partita? Ieri, alla fine del derby di Milano, Okafor ha sbagliato un gol clamoroso all'ultima azione e chi ce lo dice che, se l'arbitro avesse deciso di allungare la partita di altri secondi, l'Inter non sarebbe riuscita a pareggiare? Non so se c'è un fondo di verità in questa retorica o se anche queste, come quelle di Federer, sono solo parole, “flussi d’aria complicati” come a un certo punto si sminuiscono in Succession. D’altra parte anche nel tennis esiste la convinzione che non tutti i punti siano uguali, e Federer, che ha perso un’edizione di Wimbledon vedendosi annullati due match point dopo una partita in cui aveva fatto complessivamente più punti del suo avversario, dovrebbe saperlo meglio di chiunque altro.
Krstovic è arrivato in Italia quasi esattamente un anno fa e da quel momento è sempre rimasto in bilico al centro esatto dello spettro degli acquisti di Pantaleo Corvino. Uno spettro che va da Morten Hjulmand, acquistato dall’Admira Wacker e diventato a Lecce uno dei migliori centrocampisti difensivi d’Europa, a Daniel Samek, l’acquisto più oneroso della sessione estiva di mercato 2022 del Lecce, tornato mestamente in Repubblica Ceca quest’anno dopo non aver mai esordito in prima squadra. Krstovic, in un certo senso, è però più acquisto di Corvino degli altri. È balcanico, come Vucinic o Bojinov, è un attaccante che sembra poter avere molti gol nei piedi, ha dei momenti di esaltazione tecnica pura che ti fanno pensare al genio di chi ha deciso di prelevarlo in Montenegro, dal Dunajska Streda, per nemmeno quattro milioni di euro. È l’esemplificazione di ciò che rende irresistibili le sessioni di mercato di un dirigente come Corvino, come irresistibili sono i mercatini delle pulci. La convinzione che sotto quella montagna di cianfrusaglie ci sia davvero un Modigliani autentico, se solo si ha l’occhio per andarlo a cercare.
Dentro la scorsa stagione, a volte anche dentro alle singole partite, Krstovic fa vedere cose che potrebbero farlo ricadere da entrambe le parti dello spettro. Un attaccante che lavora moltissimo per la squadra e che per questo a volte arriva annebbiato in area avversaria, che alterna un gioco spalle alla porta di alto livello a momenti in cui sembra inciampare nel pallone come se fosse un gradino imprevisto. Forse non un giocatore propriamente fumoso, ma il tipo di attaccante che spesso ha idee megalomani - le stesse che hanno i grandi attaccanti - che lascia intravedere la possibilità di avere la sensibilità tecnica per sostenerle, ma che quando non ci riesce restituisce un’area di desolazione da imbucato, da parvenu. Krstovic la scorsa stagione ha tirato moltissimo (3.14 tiri per 90 minuti; tra i giocatori con almeno 600 minuti di gioco solo nove hanno tirato di più), ma tra gli attaccanti che hanno tirato così tanto è uno di quelli ad aver avuto il tasso di conversione e di accuratezza peggiori (rispettivamente 7 e 24%). Questi numeri sono il segno di un limite o del fatto che in fondo manca poco alla sua esplosione? Alla luce di questi dati, e del fatto che gioca in una squadra di bassa classifica come il Lecce che comunque di occasioni per segnare non ne ha molte, non è facile dire se gli otto gol segnati la scorsa stagione siano tanti o pochi. E forse il fatto che accanto ad alcuni gol molto belli, persino da attaccante vero come si dice, abbia continuato ad affiancare errori pacchiani ha convinto squadre di più alto livello che il bivio giusto non l’avesse ancora imboccato.
Ma è davvero così? Siamo sicuri che ciò che manca a Krstovic è un momento diverso da tutti gli altri che gli permetterà di salire di livello? Di sbloccarsi, come si dice abitualmente, come se alcuni di noi rimanessero tutta la vita incastrati in un livello dell’esistenza che non capiscono come finire?
La cosa ironica è che Krstovic aveva vissuto una partita simile a quest’ultima, contro il Cagliari, quando aveva segnato il suo gol d’esordio in questa stagione di Serie A. Al settimo minuto Yerry Mina non si era accorto di lui e gli aveva di fatto recapitato il pallone da solo davanti a Scuffet provandolo a raggiungere con un retropassaggio. Anche in questo caso Krstovic, invece di tirare, si era avvicinato al portiere avversario con l’intenzione di dribblarlo, e anche in questo caso si era spostato il pallone sull’esterno in maniera troppo lenta e prevedibile, finendo per inciampare su Scuffet e calciare a porta vuota addosso a Luperto, che nel frattempo era riuscito a piazzarsi miracolosamente sulla traiettoria del tiro. Una manciata di minuti dopo, però, Krstovic aveva segnato il gol del vantaggio, deviando una torre di Gaspar in rete con la suola, e altrettanto miracolosamente, con l’aiuto di almeno tre parate prodigiose di Vladimiro Falcone e di un inspiegabile traversa di Viola dai limiti dell’area piccola negli ultimi secondi di partita, quel gol aveva tenuto fino al novantesimo, nonostante il Lecce fosse rimasto in dieci per tutto il secondo tempo. Grazie a questa serie di piccoli miracoli quel gol era sparito dalla memoria collettiva, indistinguibile rispetto alla miriade di momenti apparentemente identici che attraversano il flusso delle nostre giornate.
Dico apparentemente perché non ho nessuna certezza anche io, sia chiaro. Non escludo che la certezza con cui il calcio crede nei bivi o nei momenti finisca per avere un peso lo stesso, anche se teoricamente non esiste, come in American Gods di Neil Gaiman in cui gli dei nuovi e antichi diventano più o meno reali a seconda di quanto le persone ci credono.
Luca Gotti dopo la partita con il Parma ha detto che Krstovic «avrebbe dovuto passare la palla a Pierotti», l’ha chiamata «testardaggine da attaccante che si spende per la squadra», aggiungendo che questa rimonta del Parma se la ricorderà «per tanto tempo». Non sarà l’unico: quanti tifosi, se il Lecce non dovesse salvarsi a fine stagione, faranno lo stesso e ricondurranno tutta la stagione a questo singolo momento, a questo errore molto specifico di una partita giocata alla fine di settembre? Quanto ci rimuginerà lo stesso Krstovic? E pensare che il 2-0 l’aveva segnato proprio l’attaccante montenegrino, con una punizione tirata con la stessa sicurezza tronfia che aveva proprio Mirko Vucinic, la sicurezza degli attaccanti che pensano che segnare da lì, nonostante la barriera, sia persino troppo semplice. Non era anche quello, in fondo, un bivio?
Forse invece del discorso motivazionale di Federer, per Krstovic sarebbe più adatto il dialogo paradossale tra il serial killer impersonato da Javier Bardem, Anton Chigurh, e un povero benzinaio che va in scena in Non è un Paese per Vecchi. È una scena senza musica, estenuante, in cui siamo convinti a pensare per i cinque lunghissimi minuti che il primo voglia uccidere il secondo, e che tutto venga deciso da un banale testa o croce. Il benzinaio protesta dicendo che non si è giocato niente, ma Chigurh risponde di sì invece: «Te lo stai giocando da quando sei nato, solo che non lo sapevi». Alla fine il benzinaio è costretto a scegliere un lato di una moneta - una moneta che «ha viaggiato 22 anni prima di arrivare qui: e adesso è qui, ed è testa o croce». Ed è fortunato abbastanza da azzeccare il lato giusto, ma quando fa per prendersela e tirare un sospiro di sollievo, Chigurh lo ammonisce. «Non la mettere in tasca. Dovunque ma non in tasca. Si mescolerebbe con le altre e diventerebbe una moneta qualunque. E di fatto lo è».