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Emanuele Atturo
Endrick ha scritto il primo capitolo della sua storia
13 dic 2023
13 dic 2023
Ancora minorenne ha trascinato il Palmeiras al titolo.
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Emanuele Atturo
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In Brasile è stata la partita dell’anno. Al minuto 48 il Botafogo è in vantaggio di tre gol sul Palmeiras campione in carica del Brasilerao. Fino quel momento la squadra di Rio sta dominando il campionato brasiliano. Ha vinto 15 delle prime 19 partite e nonostante un piccolo rallentamento, un paio di pareggi, quel 3-0 sembra sancire la sua superiorità sulla seconda squadra più accreditata a contestare un titolo che in quel momento sembra incontestabile.

Finché un giovane prodigio del calcio brasiliano non decide di cambiare le cose.

Endrick riceve palla sulla trequarti centrale. Ha il brutto primo controllo di chi non si aspetta che gli possa arrivare palla, ma è abbastanza veloce da recuperare il suo errore, e a rimettere il campo in una prospettiva scivolosa per i difensori. Quando riesce a vedere la porta, comunque, la difesa del Botafogo è interamente schierata. Davanti a sé ci sono almeno 6 difensori, gli spazi sono stretti e non è chiaro in che modo possa passare. Arrivano in due a chiuderlo, ma finiscono per creare il cunicolo che gli permette di infilarsi e sgusciare. Di nuovo la palla pare troppo lunga. Endrick ha una velocità tale che arriva prima che gli avversari possano pensare a una contromossa. Sembrano fermi, svagati, sotto incantesimo: la parodia di un campionato poco competitivo e storicamente distinteressato a difendere. Ma non è chiaro qual è il confine, tra il lassismo dei difensori e la rapidità di Endrick, che entra in area e tira forte e riapre la partita.

Da quella ricezione pigra, fino a quella corsa solitaria, a quel gol creato dal nulla - come una scultura monumentale fatta raccogliendo fango a terra - pare scattare qualcosa in Endrick, 17 anni, nuovo fenomeno del calcio brasiliano, nuovo acquisto del Real Madrid, erede naturale di Pelè, Romario, Ronaldo, Neymar, di quelli che portano la torcia del grande genio del calcio brasiliano. Scatta un rifiuto della sconfitta che anima solo i grandi animali da competizione; e la consapevolezza di poter rigirare da solo gli intricati schemi collettivi di una partita di calcio.

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Endrick comincia ad abbattersi sulla difesa del Botafogo come un elemento naturale. Nel tentativo di placarlo, sulla trequarti, la difesa nera e bianca si scombina, e il prosieguo dell’azione genera il gol del 2-3. Il gol però viene annullato per fuorigioco, e la partita assume una piega ancor più surreale. All’82’, sul risultato dell’1-3 il Botafogo ottiene un calcio di rigore. Dal dischetto si presenta il fantasma di Diego Costa - vecchio sicario del calcio europeo, personaggio da fumetto, concentrato di cattiveria e ruvidezza. Diego Costa apre il piatto e si fa parare il rigore. È forse in quel momento che scatta nel Botafogo quel pensiero auto-distruttivo, quella pulsione di morte. L’idea, cioè, che possono perdere tutto.

Un minuto dopo succede il sublime, l’irreparabile. Un calcio di punizione viene buttato nell’area del Botafogo. Un colpo di testa lo manda verso Endrick, che guarda la palla davanti a sé, mentre fa due passi all’indietro. Ha un difensore addosso, molto vicino. Allora carica il suo piede mancino come per provare un tiro, ma poi ha un guizzo che chissà da dove arriva, per inventare un gesto tecnico che ancora non si era mai visto. Controlla palla fintando il tiro, ma non lo fa usando il piede ma il ginocchio, e non usa il ginocchio palleggiando verso l’alto - cosa che gli avrebbe fatto perdere un paio di tempi di gioco - ma schiacciando la palla verso il basso. A quel punto la velocità con cui tira è ridicola, di collo, rapidissimamente, un tiro dritto e filante sul primo palo. Quel controllo di ginocchio, espandendolo con zoom e ralenti, sembra nascere da un pensiero così estremo da essere implausibile. C’è il pensiero, ma c’è anche una sensibilità tecnica che fuoriesce dal piede e si estende a tutto il corpo - e che rimanda a quel tipo di rapporto gravitazionale, anti-fisico, che si intuisce guardando Maradona palleggiare, come se la palla dovesse obbedire al potere attrattivo di un corpo setoso, morbido, della stessa materia del pallone. Come un pendolo di Newton. È un gol che ha fatto il giro dei social perché il suo autore non è un brasiliano random, ma colui che è considerato, non da ora, l’eletto. Colui che qualcuno reclamava già nel Brasile allo scorso Mondiale, colui la cui venuta porterà in dote la sesta Coppa del Mondo della storia del calcio brasiliano. E allora quello è più di un gol, è il segno di una discesa dal cielo, una manifestazione divina.

Cinque minuti da un cross di Endrick nasce il gol del 3-3, col Botafogo ormai al collasso emotivo. Dentro questa deriva, al nono minuto di recupero, arriva pure il 4-3, che i tifosi bianconeri guardano come chi osserva un incidente stradale.

È il 2 novembre e poco più di un mese dopo il Palmeiras vince il titolo, mentre il Botafogo arranca al quinto posto, che non gli dà nemmeno diritto alla qualificazione della Libertadores. È riuscito a vincere solo 3 delle ultime 15 partite, dilapidando un vantaggio che non ha precedenti nella storia dei drammi sportivi, dei titoli vinti proprio quando non sembra possibile. Quella incredibile catena d’eventi è stata scatenata da quel ragazzino di 17 anni che gioca già come nessuno al mondo, e che dopo la conquista del titolo si è presentato ai microfoni con gli occhiali da sole; e pare uno di quei neonati con gli occhiali degli artwork trash.

Ha già imparato a scansare i riflettori per dare spazio alla retorica più vuota: «I miei amici dicevano che avrei potuto essere una stella del campionato, vincere premi individuali, ma per me il protagonismo non esiste». Ancora minorenne, ha vinto il suo quarto titolo in un anno. È diventato il primo giocatore del Palmeiras campione in tutte le categorie del club: Under 11, Under 13, Under 15, Under 17, Under 20 e professionistico. Dirà che è merito della squadra, ma se guardiamo i suoi numeri, insomma, viene da pensare che abbia fatto da solo. Il suo passaggio tra le categorie giovanili brasiliane è stato così devastante da sfiorare i confini dell’illegalità. Sono stati registrate 165 reti in 169 partite. Tra i professionisti, con 11 gol segnati è il primo minorenne ad andare in doppia cifra in Brasile dal 2009 (Neymar).

Il suo aspetto fanciullesco, e la comunicazione da professionista consumato, creano uno strano cortocircuito. Ha già una sua mini-azienda di procuratori e staff vario al seguito, la sua massa grassa è già sotto controllo, le sue dichiarazioni sono già insignificanti, sembra già giocare come in preda a un ego trip ingestibile, che lo porta a forzare i limiti dell’impossibile. Rilascia già interviste al Guardian in cui tiene le dita sulla testa come i pensatori alla Gianni Vattimo. Possiede, già, tutto un repertorio di esultanze viscide codificate destinate a triggerare il moralismo europeo.

Più si guarda Endrick più si ha una sensazione sinistra; che un filtro di TikTok col talento di Pelè, e l’ego di Cristiano Ronaldo sia stato sovrapposto sulla realtà di un bambino brasiliano. C’è una patina di irrealtà che lo circonda, come se un’idea troppo precisa avesse preso vita. Stiamo sognando, mentre guardiamo Endrick? Nella foto sottostante Endrick viene portato in trionfo dai suoi compagni di squadra dopo la vittoria del Mondiale Under-16, come fatto con Pelè ai Mondiali del 1970. Agita le braccia, fiero, statuario: metà santo, metà eroe rivoluzionario. È un’immagine reale o è stato qualche software diabolico a generarla?

La sua, però, è una storia autentica, con tutti i tropi della fiaba calcistica brasiliana. La famiglia povera, il padre che dormiva per le strade di San Paolo, la salvezza attraverso il calcio. Ora la missione di diventare una star globale anche per dare una voce agli ultimi: «Ho fissato un obiettivo per me stesso, che devo imparare cinque lingue. Una di queste sarà diversa perché sarà molto importante per me. Voglio imparare la lingua dei segni. Voglio entrare in contatto con tutti. Voglio parlare ai non udenti». E pure se non si può discutere la verità della sua storia, la nobiltà dei suoi intenti, c’è ancora qualcosa di eccessivo. Come quando guardiamo quelle immagini di Midjourney che ci sembrano false e di origine inumana per qualche piccolo dettaglio fuori posto: dei colori troppo accesi, delle forme troppo spinte, una ricerca di realismo così audace da produrre l’effetto opposto.

Come altri grandi fenomeni generazionali, le leggende lo hanno preceduto. Si parla di Endrick da quando ha 14 anni. Il Real Madrid ha aspettato appena 7 partite tra i professionisti, quando di anni ne aveva 16, per convincersi che il ragazzo avesse qualcosa di speciale, e a metterlo sotto contratto. Per riuscirci, a dire il vero, ha dovuto superare la concorrenza dei maggiori club europei. Si può dire, anzi, che è stato Endrick a scegliere la sua squadra, e non il contrario. E chi sceglie la propria squadra, oggi, è difficile non scelga il Real Madrid. Specie se è brasiliano e lì c’è già una colonia di calciatori della Seleçao.

Forse nell’hype che circonda Endrick c’entra la nostra attesa del calcio brasiliano. L’idea, più o meno accettata, che circa ogni 10 anni dal Brasile possa arrivare un nuovo profeta del gioco, in grado di portare il verbo - e cioè di dire cose prima sconosciute. Endrick calza troppo perfettamente su questa aspettativa. Non ha senso, oggi, metterlo a paragone con gli altri grandi talenti del calcio internazionale, ma vi sfido a trovare un talento così unico e dal potenziale così eccitante. Per molti aspetti, superiore - o almeno più profondo, più speciale - di quello dei connazionali Rodrygo e Vinicius Jr. Magari Endrick avrà una riuscita peggiore della loro, ma qualcosa a quel punto dovrà andare molto storto.

Insomma, la sua carriera è nata rapidamente, con un ritmo più da secolo scorso, quando l’ecosistema del talento era meno fitto, e se uno era un prodigio non aveva bisogno di alcun apprendistato. Per Endrick non c’è stata nessuna battuta d’arresto, nessuna incertezza. Ha ribaltato i campionati giovanili, e poi fatto il fenomeno in quelli professionistici. Nell’ultimo mese ci ha mostrato un livello che forse non immaginavamo potesse arrivare così presto. Ha giocato col fuoco dentro, per la vittoria, rendendo costante ciò che prima era estemporaneo, finalizzando all’obiettivo ciò che prima era contingente. Non è ancora maggiorenne e il suo livello è così fuori scala per il Brasile da aver vinto un campionato da trascinatore. È già destinato al Real Madrid; non ci sono zone d’ombra nella sua storia.

Tutti i tocchi della sua partita col Botafogo. Vi aiuta a darvi l’idea - o meglio, la sensazione fisica - di quanto Endrick riesca a mandare a fuoco i campi brasiliani.

Nella storia di Endrick non c’è il mistero che ha circondato la precocità di Vinicius o Rodrygo, che il Madrid ha razziato nella culla. Non ci sono gli allunaggi periferici di Romario e Ronaldo, la cui campagna di dominio è partita dall’Olanda. Non c’è il lungo e confortevole apprendistato di Neymar al Santos. La sua carriera è una linea retta, ha la perfezione delle merci.

Eppure è difficile non emozionarsi vedendo giocare Endrick. La sicurezza che mostra fuori dal campo la traduce in un gioco sempre creativo, stupefacente, pure con in testa sempre il gol. In quest’azione potrete rendervi conto della sua velocità assolutamente fuori scala, che è la premessa del suo gioco. Come altri fenomeni generazionali, Endrick fa le cose a una velocità diversa. Sui primi passi è fulminante, ma poi prende ancora più velocità, nonostante le leve corte (è meno di un metro e 75). Va così veloce che in Brasile, il più delle volte, soprattutto quando può correre in transizione, non ha nemmeno bisogno di dribblare gli avversari. Il fatto è che non riescono proprio ad avvicinarglisi. La forza delle sue gambe è semplicemente ridicola. I quadricipiti faticano a stargli dentro i pantaloncini («Endrick ha le gambe di Pelè» si sussurra in Brasile da qualche anno).

Questa velocità coinvolge anche certe giocate tecniche, che fioccano inattese, dal nulla, nelle sue partite. Pensa da centravanti, e quando è nei dintorni nell’area ha una pericolosità da rettile nel cercare la conclusione. La preparazione al tiro è la sua migliore qualità; il movimento improvviso, con cui si apre lo spazio per la conclusione - quello dei grandi centravanti brevilinei, come il “Kun” Aguero. Abbiamo visto il gol al Botafogo in cui prepara la conclusione col ginocchio. Nel gol all’America, in una situazione simile, non ha bisogno di un gesto tecnico così complesso, ma il suo tiro sembra di nuovo piovere dal cielo. Non sorprende che dice di ispirarsi a Mbappé, se non altro per quella chiara ossessione a cercare giocate risolutive. Mentalmente è già un rullo compressore. Se una giocata non gli riesce, ci riprova nell’azione successiva. Non è pura efficienza, ha il gusto brasiliano di giocare per il pubblico e per sé stesso; «Posso divertirmi in campo. Mi diverto davvero. Mi diverto a giocare a calcio. Questo è quello che voglio fare nella vita. Perché se non sono felice, non funzionerà niente».

La forza nelle gambe è ciò che gli permette di non soffrire la pressione degli avversari più prestanti. Anche se la capacità di reggere il duello corpo a corpo rimane il dubbio più grande, nel suo prossimo adattamento al calcio europeo. Nel primo allenamento col Brasile ha circolato molto il video di Gabriel Magalhanes che lo fa volare via in un contrasto.

La potenza della sua progressione è ciò che in questo momento gli permette di fare la differenza, e che lo rende diverso da Neymar, con la sua leggerezza mercuriale, i suoi dribbling fatti di sbuffi d’aria. Endrick è pura potenza - da qui il paragone con Ronaldo (a cui è stato paragonato anche l’altro talento, più normale, del calcio brasiliano, Vitor Roque). Il suo fisico è più simile a quello di Vinicius, meno massiccio, ma con ancora più frequenza di passo. Ama giocare in zone più centrali, negli inframezzi del campo. Nei piccoli tocchi, nelle associazioni in spazi stretti, arriva sempre prima dei suoi avversari. Daniele V. Morrone, come altri, preferiscono il paragone con Romario, per il suo baricentro basso, il piede mancino, la tecnica, la creatività negli ultimi metri; un paragone certamente sensato, sebbene Romario possedeva una sensualità ipnotica nel gioco, mentre Endrick gioca su un motorino

Endrick rappresenta l’idea che il talento calcistico può continuamente rigenerarsi, nonostante siamo spesso circondati dai discorsi scettici, sulla fine delle cose. E anche in un calcio sempre più globale, in cui le scuole calcistiche di successo sono in aumento, è romantico che il talento si manifesti ancora nei luoghi in cui il calcio si è sempre espresso nella sua forma più pura, quella di un ragazzino più veloce e più tecnico di tutti gli altri, che può far affiorare sulla superficie di una partita piccole bolle di bellezza inattesa. Endrick non ha ancora fatto niente rispetto a Pelè, Romario, Ronaldo, Ronaldinho o Neymar, ma porta la loro torcia. In lui un paese vede ancora una possibilità di realizzazione e gioia attraverso il calcio.

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