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Una questione di dettagli, intervista a Emerson Palmieri
07 nov 2017
07 nov 2017
Abbiamo incontrato il terzino della Roma e abbiamo parlato di tutti i bivi che ha dovuto superare.
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Il 28 maggio del 2017 allo stadio Olimpico ci sono più di 70mila persone. I biglietti sono finiti in poche ore, a un ritmo simile a quello di Roma-Parma, la partita dello scudetto del 2001. È l’ultima giornata di campionato, la squadra si gioca la qualificazione in Champions League, ma non è certo per quello che è una delle partite più importanti della storia della Roma. Le 70mila persone sono lì soprattutto per salutare Francesco Totti. A fine partita i tifosi giallorossi si sono lasciati andare alle lacrime del distacco, mentre Totti faceva il suo ultimo, giustamente lentissimo, giro di campo.

 

Mentre il resto della squadra è allineato per applaudire Totti aspettando di salutarlo di persona, Emerson Palmieri è con gli altri, ma con le stampelle. Al tredicesimo del primo tempo era uscito in barella, lasciando subito immaginare il peggio (che in questi casi vuol dire “rottura del legamento crociato”) ma nel contesto di una partita che vale la Champions League, e che il Genoa ha tenuto in bilico fino all’ultimo, e dell’addio del giocatore più importante della storia giallorossa, gli spettatori avevano quasi finito per dimenticarsi di lui.

 

Totti passa davanti ai suoi compagni e si ferma solo davanti ad Emerson, qualche secondo, gli prende la testa tra le mani, gli dice qualcosa. Emerson ha l’aria di un reduce ricevuto con onore dal Presidente della Repubblica alla fine di una guerra.«Era un giorno bellissimo. Il giorno dell’addio di Totti, io avevo ricevuto la convocazione in Nazionale e avevo già la mia roba negli spogliatoio per andare a Coverciano», quando racconta quel giorno, Emerson alza leggermente gli occhi. Non era scontato decidere di rientrare in campo, con le stampelle e il ginocchio rotto, lui dice che doveva stare lì, “per una questione di rispetto”.

 

Non riesco a trattenermi dal chiedergli cosa gli ha detto, Totti, quando gli ha preso la testa tra le mani. «Sei giovane, sei forte. Hai il futuro davanti». E aggiunge: «Il momento in cui Totti si ferma a parlare con me lo porto nel mio cuore. È una di quelle cose che potrò raccontare ai miei figli e ai miei nipoti: la fortuna di aver giocato con Totti e di aver trascorso quel giorno con lui».

 


 

 



 



Otto mesi prima, ad agosto 2016, la Roma si giocava già tutto nella seconda partita ufficiale della stagione. Dopo aver pareggiato in modo sfortunato contro il Porto in trasferta le serviva una vittoria, o anche solo un buon pareggio, per qualificarsi alla Champions League. La partita però si è complicata subito e a fine primo tempo la squadra era sotto di due gol e con un uomo in meno. Emerson Palmieri è entrato all’inizio del secondo tempo, con la squadra freneticamente in attacco, ed è riuscito a rimediare un’espulsione in appena 5 minuti, entrando in ritardo col piede a martello su un avversario. Veniva da una stagione anonima e aveva un curriculum praticamente nullo: era alla Roma da un anno e mezzo e i suoi critici più severi non capivano per quale motivo, a un certo punto, qualcuno aveva deciso che poteva giocare a questi livelli.

 

Emerson definisce l’infortunio «il momento più difficile della mia carriera,

la partita con il Porto». Un dettaglio che dà la dimensione del buco in cui era finito e da dove si è risollevato Emerson Palmieri. perché nel mezzo, fra l’espulsione a inizio stagione e l’infortunio alla fine, Emerson Palmieri è stato uno dei migliori terzini sinistri del campionato, o il migliore, a seconda dei gusti, e si è guadagnato una convocazione in Nazionale. A rivederla da fuori, con uno sguardo freddo, la sua stagione è la rappresentazione più credibile del luogo comune secondo cui le cose nel calcio cambiano estremamente in fretta.

 

Ho incontrato Emerson Palmieri in una delle salette degli uffici di Trigoria. La parete accanto a noi è coperta da un collage di vecchie glorie della Roma immortalate in ritagli di giornale che sfumano l’uno nell’altro. Emerson, come tutti i calciatori, è ben rasato e ha il taglio di capelli fresco di massimo qualche giorno. Quando entra, mi saluta e si siede lo fa in modo estremamente calmo, come avesse una cura particolare nel muovere un corpo che è soprattutto il suo strumento di lavoro. Ha appena finito la seduta d’allenamento della mattina. È tornato in panchina la scorsa domenica, in campo si prevede che rientrerà per fine mese, più o meno. Il suo nome tra i convocati restituisce un minimo di serenità ai tifosi giallorossi, che hanno visto un altro terzino rompersi i legamenti appena un paio di settimane fa.

 

Karsdorp si è rotto il ginocchio probabilmente durante la partita contro il Crotone, eppure ha continuato a giocare come non si fosse accorto di niente. L’esperienza che mi racconta Emerson Palmieri è completamente diversa: «Quando ho fatto il contrasto ho sentito un dolore che non so neanche spiegare» mi dice in modo enfatico. «Mi sono reso subito conto che era grave. Appena ho fatto quel movimento».

 

Al termine di una stagione così positiva, che gli ha permesso l’accesso all’unanimità tra i migliori giocatori del campionato, anche un infortunio così grave si può affrontare senza troppe preoccupazioni. Fosse capitato prima, nei due anni in cui nessuno conosceva il suo potenziale, Emerson Palmieri avrebbe probabilmente fatto presto a scivolare nella palude del calcio minore. Il successo della carriera di un calciatore passa attraverso dettagli intangibili, che nessuno può davvero controllare.

 



Emerson Palmieri dice di aver capito che il calcio sarebbe potuto diventare il suo lavoro quando ha giocato il Mondiale e il Sudamericano U-17 col Brasile. Era in squadra con giocatori come Marquinhos e Lucas Piazon e al termine di quei tornei è stato eletto “miglior terzino” di entrambe le competizioni. «Quando arrivi in Nazionale cominci a vederti come un calciatore. In quei tornei ho giocato titolare, ho segnato, sono stato premiato. Ho cominciato a vedere le cose da un angolo diverso».

 

In quel momento Emerson Palmieri non immaginava forse quanto ancora sarebbe stato difficile. Al Santos, la squadra che tifa e in cui si è formato, ha giocato una trentina di partite in quattro anni e non è quasi mai stato titolare. «Arrivato in squadra il terzino titolare era Leo, un idolo della tifoseria e del club. Dopo Leo avevo iniziato a giocare titolare però è arrivato un altro terzino, Mena, un cileno che doveva andare al Mondiale e aveva bisogno di giocare titolare». Ma mi racconta queste cose senza neanche una vena di delusione: «Il Santos è una grande squadra e ha bisogno di giocatori pronti e d’esperienza. Io giocavo una partita titolare, poi le altre dieci restavo in panchina. Non avevo regolarità».

 

In quel periodo ha la fortuna di giocare qualche partita insieme a Neymar, sulla stessa fascia: «Un’altra cosa che potrò raccontare ai miei nipoti». Lo descrive come il giocatore più forte con cui abbia mai giocato e quando deve descrivere

e

è così forte gli viene da ridere come di fronte alle cose troppo belle per essere rese a parole: «In allenamento col pallone fa delle cose che tu neanche ti immagini. Marcarlo è impossibile, non sai se andrà a destra, a sinistra, o se proverà a farti un tunnel».

 

Nonostante Palmieri non avesse dimostrato praticamente ancora niente, nel 2014 il Palermo decide di comprarlo dal Santos, confermando l’intangibilità di certe dinamiche di mercato: «Non me lo aspettavo. Avevo da poco rinnovato il contratto, sembrava che la società volesse puntare su di me, contavo sul fatto che col tempo sarei diventato titolare». A 20 anni, con pochissime presenze tra i professionisti, Emerson Palmieri arriva in Europa. Non conosce nessuno ed è in un campionato d’alto livello, in una squadra poco attrezzata per rimanere in Serie A. «Più che a livello tecnico è stato difficile a livello umano: uno spogliatoio diverso, cultura diversa, senza brasiliani. Sono diventato amico dell’unico portoghese in squadra, Joao Silva, che mi ha aiutato. Però è stato davvero pesante».

 

Con la maglia rosanero, Emerson ha giocato 9 partite, nessuna da titolare e non si è fatto notare in nessun modo. Fino all’ultima giornata di quel campionato di Serie A. Il Palermo gioca all’Olimpico contro la Roma, Emerson Palmieri entra all’inizio del secondo tempo, ha una cresta alla Balotelli e mette in mostra un repertorio da esterno sinistro sudamericano di alto livello tecnico. Conduce palla a piccoli passetti, tenendola appiccicata all’esterno sinistro, e minaccia di continuo il giocatore che ha davanti, Florenzi o Uçan. A un certo punto viene pressato in alto da Nainggolan, che gli entra in scivolata con quello stile gommoso che di solito annienta gli avversari, ma Palmieri lo salta con uno scavetto di sinistro. È una giocata abbastanza ininfluente, ma dà l’idea della padronanza con cui Palmieri - che in fondo aveva giocato solo ritagli di partite - stava in un contesto di livello così alto.

 

Quando gli ricordo quella partita, Palmieri ne riconosce l’importanza in modo fatalista: «Senza quella partita a quest’ora non sarei qui». Ma poi mi racconta tutto quello che ha preceduto quei minuti di gioco, che dà un tono persino favolistico al tutto: «Nessuno lo sa ma prima di quella partita ho passato tante cose. Mi sono fatto male alla caviglia e sono rimasto fuori due mesi e e mezzo. Tutti mi dicevano che non sarei riuscito a giocare quella partita. Ma volevo giocare a tutti i costi e ho fatto delle infiltrazioni per esserci e ho fatto bene perché quella partita ha cambiato tutto».

 

Quando Sabatini ha commentato il suo acquisto ha detto solo vagamente: «mi piaceva come si muoveva», distruggendo con una frase tutto quel processo freddo, lungo e professionale con cui immaginiamo che i calciatori vengano acquistati. Quando gli leggo la citazione dell’ex direttore della Roma, Palmieri riconosce che «è stata questione di dettagli».

 



La stagione dopo, ha giocato solo qualche spezzone di partita con la maglia della Roma, e quasi sempre in contesti difficili e molto negativi, come la paradossale eliminazione dalla Coppa Italia contro Lo Spezia. I più sensibili definivano Palmieri “un oggetto misterioso”, i più maligni “un giocatore inadeguato alla Roma”.

 

Le cose hanno cominciato a migliorare quando a febbraio Spalletti si è seduto in panchina, e ha progressivamente inserito Emerson Palmieri nelle rotazioni. La stagione 2015/16 della Roma si chiude a San Siro, contro il Milan, con un suo gol che sembra promettere una svolta. Ma all’inizio dell’anno successivo, la partita con il Porto lo riporta indietro. «Ho commesso un errore grave: è importante che lo riconosca» mi dice Palmieri, mostrandomi i palmi delle mani per sottolineare il tono auto-critico. «In quel momento tutti mi dicevano che non potevo giocare nella Roma, così mi sono seduto con Spalletti per decidere il mio futuro. Il mercato era aperto e magari potevo andare in prestito da qualche parte. Ma col mister abbiamo deciso che sarei rimasto per dimostrare il mio valore».

 

Una serie di coincidenze - l’infortunio al crociato di Mario Rui, i problemi fisici di Vermaelen, lo scarso rendimento di Bruno Peres a sinistra - costringono Spalletti a schierare Emerson titolare fra lo scetticismo generale. Le cose iniziano a cambiare: «Quando cominci a giocare, prendi fiducia, ne giochi 5-6 di fila, è normale che le cose iniziano a uscire» dice Emerson senza falsa modestia. Quello è stato praticamente il primo momento in cui Emerson ha iniziato a giocare titolare con continuità in tutta la sua carriera. La nostra idea su di lui, fino a quel momento, era costruita su una manciata di spezzoni giocati fra Brasile e Italia. Eppure, il nostro giudizio era già estremamente formato e netto.

 

Al termine di quella striscia di presenze da titolare arriva la prima grande prestazione di Emerson Palmieri, di quelle che definiscono il livello di un giocatore, in un derby contro la Lazio vinto dalla Roma 2 a 0. In quella partita dimostra di non essere soltanto un terzino che

, ma un terzino che

nella Roma. «È stata una delle mie migliori partite. Marcavo Felipe Anderson che conosco da tanto tempo, abbiamo fatto le giovanili del Santos insieme e sono riuscito a marcarlo bene». Di quella partita c’è un’immagine significativa: dopo il fischio finale, Emerson Palmieri inginocchiato a terra, con gli occhi e le mani al cielo. Dopo quella partita,

, gli chiederanno un pensiero sulla Chapecoense. Lui risponde che «è difficile per tutti», poi si ferma per la commozione, si strofina gli occhi, «Per me specialmente, avevo due amici lì».

 




 

Mi dice che è stata la miglior partita giocata con la Roma, insieme a quella contro la Fiorentina e quella in Europa League contro il Villareal, quando ha segnato un gol pazzesco che paradossalmente è stato anche l’unico ad impreziosire una grande stagione. «Sono avanzato, avevo la palla sul destro ma non avevo nessuno a cui passarla quindi ho tirato» come se fosse stato costretto dagli eventi. È un tiro complicato, eseguito con l’interno del piede debole verso l’incrocio dei pali opposto, ma non è il più difficile provato da Emerson Palmieri: «Contro il Sassuolo era più difficile. Era un cross di Radja e la palla rimbalzava, dovevo tirare ma pensavo di mandare la palla fra i tifosi, e invece appena ho calciato ho sentito che mi era uscita bene, ho pensato “mamma mia che gol”, e invece ho preso la traversa».

 

A proposito di dettagli, nello spiegare l’impennata del suo rendimento in campo, Emerson cita, fra le altre cose, un cambiamento di dieta: «Ho eliminato la coca-cola e il cibo da fast food che mi concedevo dopo le partite. Ho cominciato a pensare che la preparazione della partita della domenica comincia il lunedì».

 



Spalletti è un allenatore restio a puntare sui giovani, che piuttosto ama insistere sui giocatori di cui sa che può fidarsi, eppure con Emerson Palmieri non ha mai avuto esitazioni: «Si è fidato di me nel momento in cui tutti avevano perso fiducia. Se oggi sono considerato un giocatore importante lo devo a lui». Quando parla del suo addio lo fa con sincera amarezza: «Quando è andato via sono stato triste, è normale. Quando una persona che ti vuole bene va via ovviamente ti rende triste ma il mondo del calcio è così, ora siamo avversari».

 

Alla Roma, però, è arrivato un allenatore che si affida molto alla capacità tecnica degli esterni bassi di costruire il gioco, arricchendone anche l’importanza rispetto a Spalletti. Gli faccio notare che Kolarov è quasi il regista occulto della Roma: «Sì, è vero, il mister insiste molto per giocare sugli esterni. Quando abbiamo giocato contro il suo Sassuolo era difficile difendere sulle fasce. Lui mi è molto vicino, mi aiuta e mi spiega cosa vuole da me». Quando deve citare le cose che Di Francesco gli chiede più spesso dice «Dare ampiezza, offrire sempre un’opzione in più in attacco, ma senza perdere di vista la fase difensiva».

 

La Roma adesso si trova stretta nel paradosso di avere come terzino sinistro uno dei giocatori più influenti della squadra e forse del campionato, ovvero Kolarov, mentre a destra dopo l’infortunio di Karsdorp l’unica alternativa a un giocatore offensivo come Bruno Peres è Florenzi, che nel ruolo di terzino è sacrificato. Chiedo a Emerson se eventualmente sarebbe disponibile anche per giocare a destra: «A destra mi trovo bene. Ho giocato lì contro Palermo, Empoli e Milan, e mi sono sentito bene, penso di aver giocato bene». In realtà, ad Empoli, Palmieri ha giocato largo a destra in un 3-5-2, in una posizione così alta che sembrava quasi un’ala. Col sinistro riceveva palla largo e puntava dentro al campo, minacciando sempre il cross morbido oltre la linea difensiva. In una di queste azioni ha offerto una palla splendida per la testa di Dzeko, che ha costretto Skorupski a un miracolo.

 

I movimenti, in fondo, non sarebbero così dissimili da quelli che Di Francesco chiede ai suoi esterni offensivi, e gli chiedo quindi se la sua duttilità lo spingerebbe anche a giocare lì. La sua risposta descrive, di riflesso, anche le sue caratteristiche tecniche: «Lì forse sarei in difficoltà perché dovrei giocare troppo spalle alla porta, mentre a me piace giocare con tutto il campo davanti, guardando la partita».

 



 



 



Emerson Palmieri ha giocato a calcio a 5 fino ai 14 anni, e questo ne ha condizionato la formazione: «Mi ha aiutato moltissimo a giocare veloce, a uno o due tocchi, e liberarmi bene negli spazi stretti». Il suo è un gioco semplice, essenziale, gli piace associarsi col compagno vicino rapidamente: «A me piace giocare semplice, veloce, leggero. Dare la palla, muovermi, sempre a uno o due tocchi», caratteristiche che lo hanno incontrato il gusto del vecchio tecnico della Roma: «A Spalletti non piacevano i giocatori che portavano palla, e la cosa mi ha aiutato». Ma quando ha la possibilità di mangiarsi lo spazio davanti a lui, rompendo le linee di pressione in dribbling, Palmieri non si fa pregare: «Il dribbling è la mia caratteristica migliore. Specie dopo aver dribblato il primo giocatore sento di aver preso velocità e mi sento bene, sento di essere difficile da fermare».

 

Il suo stile di gioco sembra diviso tra il piacere del controllo negli spazi stretti e il senso di liberazione nel romperli e guadagnare campo, attraverso gli scambi palla a terra o allungandosi direttamente in dribbling. A seconda del compagno di fascia che ha davanti, deve poi adattarsi e giocare diversamente: «Ad El Shaarawy piace scambiare la palla, fare uno-due. Mentre quando gioca Perotti non devi fare sempre la sovrapposizione e a volte è meglio lasciare lui da solo a fare uno-contro-uno».

 

Una delle cose che più si rimprovera sulla scorsa stagione è di aver avuto a volte poco coraggio in fase offensiva: «Mi dicevo sempre che dovevo provarci di più» ma per lui è stato importante dimostrare soprattutto affidabilità in fase difensiva: «Per me la cosa più importante è che la squadra non prenda gol per colpa mia. Per questo do il 100% in difesa, e poi in attacco devo pensare a fare sempre qualcosa di diverso dagli altri. Non posso limitarmi a fare cose scolastiche, tanto per farle».

 

La fase difensiva è ciò che ha migliorato di più, ma mi dice che la presunta svagatezza dei terzini brasiliani è solo un pregiudizio: «È solo una questione di lavoro. In Brasile si lavora meno sulla fase difensiva, ma in Europa si può imparare velocemente». Gli chiedo qual è il tipo di giocatore che lo mette più in difficoltà, se il tipo tecnico che ama dribblare, o quello più veloce e fisico, oppure invece uno che si muove molto senza palla. Non ha dubbi: «Quelli fisici non tanto. Mi possono mettere in difficoltà quelli che si muovono in profondità, ma che vengono anche in mezzo tra le linee. Non sai mai se uscire oppure tenere la linea. Quelli che ti mettono il dubbio sono quelli che mi mettono più in difficoltà, ma non credo solo a me, credo a tutti i difensori».

 

Quando però gli chiedo qual è l’avversario che in Serie A lo ha messo in difficoltà va in crisi: sbuffa, aggrotta le labbra, guarda il soffitto, ci pensa intensamente, poi mi risponde: «Nessuno».

 



 



 



Emerson Palmieri parla di sé con leggerezza, in un italiano molto migliore di come poteva sembrare nelle precedenti interviste. Appare molto consapevole del proprio talento calcistico, ma quando parla del suo infortunio lo fa stando attento a mantenere i piedi per terra. Quando gli chiedo di dirmi cosa, nel suo gioco, sente di poter ancora migliorare mi dice che ora che rientra deve quasi ricominciare da capo: «Devo pensare a tornare al 100%, e solo dopo posso pensare a cosa migliorare».

 

Da fuori non possiamo sapere qual è, per un calciatore di quel livello, l’aspetto più difficile da recuperare quando si smette di giocare per 5 mesi, perdendo il ritmo degli allenamenti, la forma fisica, il contatto col pallone, la concentrazione mentale sul gioco. «La precisione tecnica col pallone non mi preoccupa, non ho sentito nessuna differenza al rientro. Fisicamente è ovvio che non sono ancora al 100%, mi sembra di andare a cinquanta mentre gli altri vanno a mille. Però è normale. L’unica cosa è che sento ancora un po’ di timore quando vado nei contrasti, ma anche quello è normale».

 

L’infortunio è arrivato proprio nel momento in cui Emerson Palmieri stava rispondendo alla sua prima convocazione in Nazionale. Una decisione che a dire il vero non è stata presa così a cuor leggero: «Ci ho pensato tanto, quattro mesi». Un periodo nel quale era forse diviso tra la Nazionale brasiliana e quella italiana. Non avendo ancora esordito con la maglia azzurra, teoricamente Emerson potrebbe ancora essere convocato per il Brasile, ma nella sua testa questa non è più una possibilità: «Ora penso solo alla Nazionale italiana. Penso che un uomo deve avere solo una parola. Ci ho pensato tanto a questa decisione, quattro mesi, e quando ho detto che avrei voluto giocare per la Nazionale italiana ho dato la mia parola, e voglio arrivare fino alla fine con questa parola».

 

In una squadra in cui l’infortunio al crociato è purtroppo piuttosto comune, Emerson ha potuto chiedere consigli a giocatori come Florenzi o Strootman, che ci sono passati prima di lui: «Mi dicono di non fare le cose di fretta e di tornare quando mi sento bene». Ma a stargli vicino in questo periodo è stato soprattutto il fratello, Giovanni, anche lui calciatore, con cui Emerson ha un rapporto speciale.

 

Giovanni Palmieri ha 29 anni, gioca terzino come il fratello e anche lui ha subito due rotture del legamento crociato del ginocchio. Ora gioca nell’America Mineiro, nella seconda categoria brasiliana, ma la sua carriera avrebbe forse potuto prendere una piega migliore. «Parliamo spesso, anche lui era un terzino sinistro, ci diamo consigli su come migliorare, guardiamo le partite assieme. Era triste per il mio infortunio, sa cosa sto passando perché lui stesso si è rotto il crociato due volte e mi chiede sempre come sto. È importantissimo per me».

 

La differenza di carriera tra i fratelli Palmieri è un buon esempio di come, nel percorso di un calciatore, il successo o l’insuccesso passa attraverso dettagli finissimi. Mettere male la gamba a un certo punto del proprio percorso o in un altro. La differenza tra un calciatore che si esprime ad alti livelli - come Emerson Palmieri - ed uno che gioca in squadre meno importanti - come Giovanni Palmieri - non è sempre di talento, ma spesso di fortuna, dettagli, episodi. «Giovanni qualche anno fa doveva venire in Europa, ma appena prima si è rotto il legamento crociato. Qualche tempo dopo ha avuto un’altra possibilità per un trasferimento importante, ma si è rotto di nuovo il crociato. Allora ti accorgi quanto conta la fortuna o gli episodi, perché secondo me non c’è tanta differenza di talento. Ma nella vita di un calciatore cose così cambiano tutto».

 

Gli chiedo se si sente una persona fortunata: « Sì, sento che Dio si sta prendendo cura di me, ha un piano, niente succede per caso».

 

 

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