Il torneo che si giocherà in Australia e Nuova Zelanda sarà un’altra pietra miliare dello sviluppo del calcio femminile, che negli ultimi anni ha conosciuto una crescita enorme, anche in Italia. Questo grazie alle atlete che fanno grande il movimento, e agli investimenti di sponsor come Nike, che fin dall’inizio supporta il calcio femminile. Con i kit disegnati sul corpo delle donne e la tecnologia che le aiuta nelle performance.
Abbiamo intervistato quattro grandi calciatrici italiane, parlando con loro del momento del calcio femminile e di quanto Nike sia importante in questa crescita.
La prima è il capitano della Roma Elisa Bartoli, intervistata da Daniele Manusia e ritratta dalle foto di Giuseppe Romano.
Immaginate di fondare la squadra di calcio della città in cui siete nati e, cinque anni dopo, vincere il primo scudetto della sua storia con la fascia da capitano al braccio. Immaginate, anche, di cominciare a giocare senza neanche pensare che un giorno quello potrà essere il vostro lavoro e di ritrovarvi, a trentadue anni, di fronte a quarantamila persone per giocare un quarto di finale della massima competizione europea contro la squadra più forte al mondo. Elisa Bartoli tutte queste cose non le ha immaginate ma vissute con la sua Roma.
«Per questo io dico sempre alle ragazze di inseguire i propri sogni». È un caldo pomeriggio di inizio estate e siamo su un campo da calcio della periferia romana, mentre Elisa Bartoli parla le sfilano dietro delle bambine non ancora adolescenti in tenuta da calcio di una squadra locale, che il caso ha voluto si allenassero proprio il giorno in cui erano previsti shooting e intervista. «Dico loro di andare contro quelle parole che anche io in passato ho subito. Quelle chiacchiere secondo cui il calcio non è adatto a una donna. Io dico: non è vero, non c’è niente di impossibile. Non c’è niente di vietato, tutto è concesso».
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Questa è la filosofia di vita di una calciatrice che ha visto il movimento femminile crescere insieme a lei. Quando Elisa Bartoli ha cominciato a giocare era l’unica ragazza in una squadra maschile di Ponte Milvio, a Roma nord. «Non conoscevo nemmeno l’esistenza del calcio femminile, non sapevo che ci fossero squadre di ragazze». Non c’è calciatrice italiana che più di lei possa dire di essere riuscita a realizzare i propri sogni senza suonare retorica, il che non significa che la sua strada sia stata in discesa.
«Io sono testarda», dice quando ricorda le persone che hanno provato a ostacolarla. «Sai quante volte ho sentito cose tipo: eh ma sei un maschiaccio… Oppure quando andavo a giocare e gli avversari vedevano che c’era una ragazza magari si mettevano a ridere. Prima della partita ridevano, dopo piangevano. Quindi va bene così».
Anche quando a diciassette anni (nel 2006) ha raggiunto il massimo livello nazionale, con quella che era la Roma CF, comunque giocare a calcio per una donna, in Italia, non era un lavoro. «Io lo facevo perché lo amavo. La cosa più bella è stata, a diciassette anni, giocare con calciatrici più grandi, le più forti di quel periodo. A quell’età arrivare subito ai massimi livelli, confrontarti con quelle giocatrici e prendere magari anche sette gol a partita, perché è successo anche quello, ti dà tanto a livello caratteriale, ti dà la forza di continuare nonostante tutto».
Poi, quando di anni ne aveva venti, la sua squadra è prima retrocessa e poi ha rinunciato alla A2 per iscriversi in Serie C Lazio. Da poche certezze a nessuna certezza. Fino a un mese dalla ripresa della stagione nessun’altra squadra l’aveva chiamata. «Io mi dicevo: va bene Elisa, non ti chiama nessuno, smetti». Non sapeva cosa avrebbe fatto, non è il tipo di persona che fa progetti ma si sarebbe arresa di fronte all’evidenza. Invece l’ha chiamata la Torres, la squadra più titolata d’Italia, e all’improvviso si è ritrovata a fare ragionamenti opposti: «Sei all’altezza di una squadra del genere? Perché ero appena retrocessa». Ma si chiedeva anche: ce la farai a lasciare Roma? «La prima notte ho pianto. Ho chiamato mia sorella alle tre di notte dicendole che volevo tornare a casa. Mi ha risposto: non ti azzardare. Alla fine non sono più tornata e in tre anni mi sono innamorata anche della Sardegna».
Con la Torres ha vinto il suo primo scudetto, ne avrebbe poi vinto un altro con la maglia della Fiorentina, prima di ricevere la chiamata della Roma: una squadra che andava fondata da zero. Il paesaggio cambiava intorno a Elisa Bartoli ed Elisa Bartoli cambiava per adattarsi a un calcio femminile sempre più professionale in cui le veniva chiesto di avere un ruolo da protagonista. «L’anno in cui mi ha chiamato la Roma ci sarebbe stato il grande torneo internazionale, quindi mi sono chiesta se era il caso di rischiare. Le giocatrici più forti erano in altre squadre, noi dovevamo puntare sulle giovani e lavorarci non era facile. Voglio dire, potevamo pure retrocedere. Però mi sono detta: io su questo treno ci voglio stare dall’inizio. Voglio cercare veramente di portare Roma in alto».
Appunto, dicevamo: immaginare di vincere il campionato appena cinque stagioni dopo. «Non è facile vincere il campionato con tre squadre diverse», dice lei quando riflette sulla differenza tra questo suo ultimo successo e quelli passati, «Però questo l’ho proprio cercato. Vincere a Roma è qualcosa di unico e speciale, solo chi vince a Roma può capirlo. È anche difficile, e noi ci siamo riuscite alla grande». La Roma campione d’Italia 2022/23 è anche quella che in Europa è arrivata a giocarsi un posto in semifinale con il Barcellona, che poi quella coppa l’avrebbe vinta. Segnando il record di spettatori italiano, per una partita di calcio femminile.
Ed è stato proprio in quel momento che Elisa Bartoli ha capito di aver realizzato i propri sogni. Lei lo racconta come un cambio di prospettiva: «Da tifoso vedi questo stadio pienissimo, grandissimo, e pensi a cosa può significare stare lì dentro. Quando ci sono entrata e ho cominciato a giocare invece vedevo i tifosi vicini, come se fosse piccolo».
I suoi primi ricordi risalgono ai tempi in cui allo stadio Olimpico era usanza aprire le porte gratuitamente per l’ultimo quarto d’ora di partita. Elisa aveva cinque o sei anni e il padre la portò a vedere un Roma-Lecce con lo stadio interamente giallorosso. Sua sorella, molto tifosa, la portava invece a vedere gli allenamenti: «Un giorno non avevo voglia di andare a scuola, ero alle elementari, e mia sorella mi fa: dai, ti porto a Trigoria. Ci siamo arrampicate su un muro per vedere Batistuta, Totti, Montella… Abbiamo anche aspettato i giocatori fuori dal cancello per un autografo, poi siamo tornate a casa in orario perfetto, senza che nessuno si accorgesse di niente».
Elisa Bartoli è diventata la prima capitana romana della storia romanista. Nella tradizione di Totti, De Rossi e oggi Lorenzo Pellegrini. «Io mi sento parte di questa tradizione perché sono i tifosi a farmi sentire così. Mi ci sento grazie al pubblico. La prima volta che mi hanno detto di fare il capitano della Roma non ho dormito. Non mi sentivo pronta perché ero una ragazza chiusa, che dimostrava quello che doveva in campo, con i fatti. Non mi piaceva molto il contorno, le interviste… Non avrei saputo stimolare una persona parlando. Potevo essere di ispirazione con gli allenamenti, con la fatica». Anche questo aspetto della sua vita, insieme al resto, è cambiato. «Adesso sono pronta. Cerco di trasmettere i valori che ho. Cosa significa Roma per me. E cerco di essere me stessa nel bene e nel male. Perché sbaglio anche io, a volte esagero e magari ha ragione chi mi dice che sono troppo testarda e così non si va lontano nella vita. Magari non andrò tanto lontano, ma mi piace espormi al cento per cento. Anche la mia fragilità mi ha reso la persona che sono per le mie compagne».
Certo, quella di avere capitani nati e cresciuti a Roma è una tradizione difficile da replicare nel femminile. «Siamo poche romane in questo momento, ma ci sono anche altre ragazze che sono qui da tanti anni e si vede che si sentono a casa propria. Le sento che muoiono per Roma».
Elisa Bartoli è consapevole del ruolo che hanno avuto le calciatrici che, per tutta la loro carriera, hanno fatto gli stessi sacrifici che all’inizio ha dovuto fare anche lei. Ricorda Gioia Masia, Betty Bavagnoli, Carolina Morace, Patrizia Panico: «Tutte persone che hanno fatto veramente tanto per portare il calcio femminile italiano dove oggi è». È consapevole, più in generale, della difficoltà che devono fare le donne per imporsi in qualsiasi ambito della vita. E dice, tra l’altro, di ispirarsi ai discorsi di Michelle Obama, che le danno grande energia: «Mi dico: pensa a quanto è stata dura per lei, a tutto quello che ha vissuto e sta vivendo».
Il calcio femminile è entrato in una nuova era. Anche grazie all’aiuto di brand come Nike che hanno deciso di investire sulle atlete e sulla creazione di materiale tecnico specifico per lo sport femminile. Materiale che, ovviamente, quando Bartoli ha iniziato a giocare, non esisteva. «No, infatti io indosso Nike anche al di fuori del campo e le usa anche mia sorella che fa tanto sport. E poi è importante per la visibilità che dà al calcio femminile e alle donne nello sport: sta aiutando molto a far capire che non c’è solo una parte di persone che può fare sport».
Dopo lo scorso Europeo le calciatrici dell’Inghilterra avevano fatto notare che con i pantaloncini bianchi il periodo del ciclo mestruale può rappresentare un problema per le atlete. Nike offre Leak Protection è una fodera ultrasottile e assorbente che aiuta a proteggere le atlete dal ciclo mestruale.
C’è ancora molto da fare, per far crescere il movimento femminile. Quest’anno, per esempio, la Roma ha dovuto giocare la gran parte delle partite interne in Europa (tranne appunto il quarto con il Barcellona) a Latina, per avere uno stadio che rispettasse le richieste Uefa. Più di cento chilometri, per giocare in casa. «Io gioco da qualche anno a livello internazionale e all’estero sono partiti prima e per questo gli stadi sono più pieni. La differenza più grande, è a livello di strutture e organizzazione. Comunque secondo me l’Italia ci sta arrivando».
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La crescita del calcio femminile, oltre che nel livello delle giocatrici, che finalmente possono dedicarsi interamente alla loro professione, sta avvenendo soprattutto sul piano dell’affetto del pubblico. «La cosa più bella è vedere la passione e l’amore che hanno verso di noi i tifosi», sottolinea Bartoli. «Vedo proprio l’emozione che riusciamo a trasmettere. E che loro ci restituiscono. Vedo una partecipazione completa di persone di tutte le età e i generi. Dal bambino al signore più grande. E ovviamente anche le bambine. Lo vedo quando mi fermano per strada e mi chiedono una foto, vedo proprio che mi vogliono bene. E spero di poter essere un punto di riferimento positivo per loro».
Elisa Bartoli prende seriamente il suo ruolo di capitana. Va a vedere la Primavera e anche il resto del settore giovanile. Regala, pantaloncini, magliette, lascia dei video-messaggi per motivarle quando arrivano alle fase finali. Qualche mese fa il padre di una bambina ha organizzato una cena con le più piccoline, un evento privato a cui nessuno la costringeva a partecipare, ma Elisa ci è andata. «Cerco di rendermi utile come posso», dice lei. E poi conclude: «Io l’unica cosa che ho fatto è stata cercare di essere me stessa».
Foto: Giuseppe Romano
Assistente fotografia: Andrés Juan Suarez
Hair Stylist: Martina De Paolis x RiccioCapriccio
Make Up: Giulia Sbarzella
Stylist: Camilla Carè