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Gianni Montieri
Le cose che mi ricordano Edinson Cavani
13 apr 2021
13 apr 2021
Racconto della nostalgia di uno dei più forti attaccanti passati per il nostro campionato.
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Gianni Montieri
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Cavani deve venire da un posto lontano, e non intendo il suo paese d’origine: l’Uruguay. Che poi perfino l’Uruguay è distante rispetto a cosa? Sì, abbastanza distante dall’Europa, ma dirimpettaio dell’Argentina. No, non è questo, Cavani viene da un posto lontano, dove il tempo e lo spazio non hanno lo stesso significato che normalmente gli attribuiamo. Edinson Cavani sembrerebbe a suo agio se dovesse disputare la finale dei Mondiali del 1930, giocata proprio a Montevideo nello stadio del Centenario. L’attaccante del Manchester United potrebbe essere uno dei marcatori che in quel giorno lontano consentirono all’Uruguay di battere l’Argentina per 4-2; segnare lui al posto di Cea o di Castro, sembrando già moderno allora. Non avrebbe avuto difficoltà a orientarsi con i due palloni scelti dall’arbitro Langenus. Per ragioni politiche, per fondati timori, l’arbitro belga quel giorno scelse due palloni. In un tempo si giocò con quello dei padroni di casa, nell’altro con quello portato dagli argentini. E come se fosse uscito da un videogame, spinto da una sorta di fiammella che accompagna ogni movimento dettato dal joystick, Cavani lo potremmo immaginare, senza alcun problema, in una finale di Champions League che dovesse giocarsi tra una cinquantina d’anni.


 

Accanto a Cavani vanno definizioni come moderno, quali viene dal futuro, o irreale. È come se fosse figlio di una grande idea, di un’intuizione. Ogni tanto succede: qualcuno inventa un oggetto, modifica un design già esistente, e quel momento di creatività, che dapprima non pare niente, è destinato cambiare le nostre vite. Cavani non cambia, né ha cambiato le nostre vite, ha regalato però alcuni istanti di gioia, di stupore puro, che non si possono dimenticare e che, per un appassionato, valgono quanto per gran parte della gente è valsa l’invenzione della moka, la creazione di un lettering, l’intuizione che ha portato alla comparsa della prima macchina da scrivere. Il professor Remo Bodei ha scritto che si può percepire un oggetto in maniera diversa a seconda del mutare della nostra percezione del vedere, così noi abbiamo potuto ammirare tanti Cavani: lo stesso giocatore, ma ogni volta diverso, eppure sempre imprendibile. Ci siamo orientati a osservare il suo modo di giocare in maniera differente di stagione in stagione, e lui stesso lo ha mutato; è stato di volta in volta più attento, più veloce, più astuto, più scattante, più determinato.


 

Uno dei libri che più mi ha interessato negli ultimi mesi è Tante care cose di Chiara Alessi (Longanesi, 2021). Alessi si occupa di cultura materiale e di design; l’anno scorso durante il primo lockdown ha lanciato su Twitter la rubrica #designinpigiama, un appuntamento di grande successo, creando una comunità attorno al racconto degli oggetti, del design, del gusto, dell’intuizione. Elementi che uniti vanno a formare il concetto di «cosa» intesa come trasformatrice di vita, icona affettiva, dispensatrice di calore e di gioia, cosa tattile o visiva, cosa che rimanda alle nostre radici e che ci predispone (o che ci ha predisposti) a visualizzare (e a meglio accogliere) il futuro. Alessi nell’introduzione al testo fa una riflessione sui collegamenti che esistono tra passato e futuro – a volte sono proprio le cose a garantire il transito da un periodo all’altro della memoria individuale, familiare e collettiva – e scrive: «[..] il passato è un lusso, come una casa, a cui fare ritorno e in cui rifugiarsi ma anche da cui guardare fuori, spostarsi, evolvere e, a un certo punto, da abbandonare. Solo chi ha un passato cresce». Questo passaggio scritto da Chiara Alessi che traccia una linea che va da Sartre a Carlo Levi («Il futuro ha un cuore antico») è sintetizzata nell’immagine di me che ogni volta che mi siedo al computer vedo la Olivetti di mio padre e, dovete crederci, vedo Cavani che segna il primo gol (in campionato) con la maglia del Napoli.


 


 

Un gol non gol segnato alla Fiorentina, il 29 agosto del 2010, con uno splendido colpo di testa in anticipo. Gol non gol perché la palla sbatte sulla traversa alle spalle di Frey e poi finisce sulla linea? Oltre la linea? In ogni caso è gol. E quel giorno, è la prima giornata di campionato, quel calciatore nuovo che conoscevamo come di prospettiva ma non sapevamo ancora quanto fosse forte, fa un movimento che è come quello che fa la cosa che ci migliora la vita. Arriva alla velocità del suono, non si sa bene da dove, stacca di testa sovrastando il difensore viola e impatta la palla in maniera potente e precisa. Chi tifava Napoli, quella sera, così come l’osservatore più attento, capì che quello stacco rappresentava un transito simbolico: la squadra usciva da un recente passato poco luminoso, da giovane attaccante promettente, Cavani faceva il primo balzo verso lo status di centravanti tra i migliori al mondo. Da quel giorno Cavani, in moltissimi suoi gol è comparso come la luce della lampada che abbiamo sul tavolo, e che, quando fa buio e la accendiamo, ci accoglie nel suo cono di luce e ci salva dall’oscurità e, metaforicamente, dal peso della giornata. Quel gol è la prima cara cosa che mi ha regalato l’attaccante uruguaiano, è stato il primo istante in cui abbiamo visto sul campo qualcuno che ci stava trasportando dal passato al futuro, anzi, non potevamo ancora saperlo, ma ce lo stava garantendo, quando il Napoli lo vendette poté acquistare in un solo colpo Higuain, Albiol e Callejón. Quel colpo di testa è Sartre, è Carlo Levi, è mio padre che cambia il nastro alla sua Olivetti, è Cavani che accende la lampada, è Chiara Alessi che ce lo racconta.


 

Eppure, a saper guardare, avremmo colto il lampo, l’eccezionalità, già dal primo gol in Serie A. Cavani anche stavolta lo segna alla Fiorentina, la stagione è quella del 2006/2007; un difensore dei "Viola" libera con un colpo di testa, dopo un cross, la palla va verso il vertice destro dell’area di rigore, il pericolo sembrerebbe scampato, senonché, dal nulla, avvolto in una nuvola rosa, spunta Cavani, la maglia numero 7, arrivato col mercato di gennaio, nessuno sa ancora bene chi sia, spunta e calcia un missile perfetto, un tiro potente, preciso e imparabile, la palla si alza e poi scende a regola d’arte alle spalle di Frey. Un gol bellissimo che reca con sé molto di quello che sarà nel futuro l’attaccante nato a Salto. Un misto di tecnica, agilità, potenza, istinto, capacità d’improvvisare. A saper guardare, non ci saremmo fermati a commentare la bellezza del gol ma avremmo capito che quel calciatore era la cosa che non c’era. Nel primo capitolo di Tante care cose si legge di Ettore Sottsass, che, rispondendo al quesito della rivista Domus, di indicare il suo oggetto preferito (di cui non conoscesse l’inventore) rispose la palla da biliardo. La sua risposta si accompagnava allo schizzo della palla nera, la numero 8, naturalmente. «L’ultima che deve andare in buca», ricorda Alessi. Dopo quel primo gol non sapevamo niente, chi aveva inventato Cavani? Chi era? Cos’era? A saper guardare avremmo risposto come Sottsass, cambiando numero: è la numero 7, quella (l’ultima) che deve andare in buca.


 

Lo sapete che Cavani è una cerniera? No? Adesso vi spiego perché. È una cerniera perché quando i compagni sono esposti al vento sa arrivare a proteggere. Cavani, da sempre, ha saputo occupare universalmente il campo, grazie anche alle naturali capacità di recupero del suo fisico. Cavani/cerniera cento, mille volte, lo abbiamo visto arrivare fino alla sua area di rigore e poi, come se fosse un Maldini, uno Zambrotta, entrare pulito in scivolata e portare via il pallone a chi sta per calciare in porta o per crossare. Eccezionale. Cavani irrompe come il disegno riuscito di un fumettista e zip chiude, poi riparte, in cinque secondi è già dall’altra parte. La cerniera si chiude e si apre, e quando il compagno che porta palla, senza evidenti opzioni di gioco, alza la testa vede Cavani tagliare dietro un difensore, sbucare tra due avversari e puntare verso la porta. Zip, s’apre. Non ci facciamo caso ma non saremmo niente senza cerniera. Zip nei fumetti indica la velocità, come scrive Chiara Alessi, fu inventata nel 1904, con l’idea di fissare la cerniera su due nastri di stoffa, fa la sua strada dagli stivali dei soldati alla moda per bambini. La zip nei fumetti vale anche per indicare i piccoli fulmini. Cavani, non lo sapevamo, è la chiusura lampo. Zip.


 

Cavani è forte di destro, di sinistro, di testa, in acrobazia, sa calciare da lontano e da vicino. Se fosse un oggetto, sarebbe la cosa che ti seguirebbe in tutti i traslochi, starebbe con te di casa in casa. La cosa, dopo (o insieme) ai libri, alla quale non saprei rinunciare, è la moka – anzi le moka, conserviamo quasi tutte quelle che abbiamo usato da quando io e mia moglie ci conosciamo, stanno lì a fare odore e segnale di tempo buono passato. Cavani è la moka, perciò è idealmente stato inventato da Alfonso Bialetti nel 1933 e perfezionato dal figlio Renato negli anni ’50, ma per Cavani non possiamo parlare solo di tecnica e di miglioramenti, per Cavani dobbiamo pensare all’aroma. Bialetti deve averlo capito subito che l’odore sarebbe arrivato prima della bevanda, l’aroma conta quanto il sapore. L’aroma Cavani, quello che mi ha fatto pensare a qualcosa che mi avrebbe accompagnato per sempre, è quello di una moka a tre tazze e ognuna è un colpo di testa. Tutte tre, senza zucchero, sono state servite in una partita vinta dal Napoli allenato da Mazzarri contro la Juventus.


 


 

Il primo colpo di testa, la tazzina di precisione, Cavani la serve su cross di Maggio dalla destra, l’aroma si diffonde infilandosi al fil di palo. La seconda tazzina è imperiosa, stacco ad anticipare Traoré ed è gol, imparabile, Storari è battuto per la seconda volta. Nel secondo tempo dal vassoio di Hamsik parte il passaggio per il terzo gol, stavolta di testa in tuffo - arriva il numero 7 - e segna. Un repertorio completo, fatto di agilità, tempismo e precisione. Quella sera, Cavani è diventato la mia cara cosa e lo è tuttora, una moka non si butta mai via nemmeno quando la sostituisci, la si conserva, la si guarda, la moka è affetto, mattine e pomeriggi di gesti ripetuti, di colpi di testa imparabili.


 

Si dice che a volte il boato dopo un gol a Fuorigrotta faccia vibrare la città intera, e che scenda da un lato verso la zona flegrea e dall’altro, passando sotto viale Augusto, fino al lungomare e al centro storico. Un boato intenso come una scossa di terremoto, quel boato avvertito dopo il secondo gol di Cavani al Manchester City nel novembre del 2011. Quella sera Cavani realizzò una doppietta, il primo gol con uno splendido colpo di testa in anticipo, il secondo con un tiro preciso da dentro l’area, intervallati da un gol di Mario Balotelli. La cara cosa di quella sera è la spillatrice Zenith, una cosa minima «con quel tipico profilo che ricorda una balena» che serve a unire, a tenere insieme. Cavani quella sera ci ha uniti, autorizzandoci a sperare, eravamo un plico di fogli azzurri tenuti insieme da due spillate una nella parte alta (colpo di testa), una in quella bassa (rasoterra). Da quando la spillatrice è stata inventata sono passati ottant’anni, non è stata sostituita. Dopo Cavani, in Champions League, non abbiamo mai sognato meglio di quegli anni.


 

Le care cose le amiamo anche se le lasciamo in case che non abitiamo più. Le abbiamo avute con noi per molto tempo, ci hanno guidato e tenuto compagnia, hanno saputo confortarci e ricordarci, giorno dopo giorno, dove ci trovassimo, dove stessimo andando. Le scritte della metropolitana di Milano rappresentano per me il concentrato di calore che ti offre un giubbotto in pieno inverno, solo leggerle seduto sulla banchina in attesa che arrivasse il treno mi riempiva di felicità. Ho cambiato città ma non lettering, quel carattere, i nomi delle fermate, sono una cara cosa. Quando Cavani è andato a Parigi è rimasto un legame importante quanto le scritte Bisceglie o Affori centro o Duomo. La grafica che accompagna le lettere, i nomi delle fermate, la loro posizione, è opera di Bob Noorda, e da quel 4 dicembre del 1964 sappiamo che quella M significa Milano più di molte altre cose. La grafica di Cavani sono i colpi di testa, i tiri da lontano o di rapina, gli scatti, le rovesciate, ovunque sia andato a giocare ci è bastato guardare un filmato di 15 secondi per riconoscere il marchio. Siamo cresciuti a cambi di città e di attaccanti, ma non abbiamo dimenticato niente.


 

A Parigi, Cavani è stato straordinario, ha fatto gol in ogni modo possibile, soffrendo con Ibra, imparando da Ibra, regalando qualcosa a Ibra. Due care cose che non erano nate per stare insieme, eppure, ogni tanto ci è parso di sì, nelle stagioni in cui hanno condiviso le aree di rigore avversarie sono state parecchie le volte in cui lo svedese ha servito di precisione (sfruttandone la capacità di tagliare dietro le difese) l’uruguaiano consentendogli di andare in gol. I parigini quando pensano a Cavani vanno con la mente alle consuetudini più piacevoli: le passeggiate lungo la Senna, la baguette sotto il braccio. Ha segnato di testa (moltissimo), di destro, di sinistro, da dentro l’area, da fuori area, su punizione, su rigore, di tacco, dopo aver scartato qualcuno. Non ha mai fatto niente che fosse superfluo, che non fosse propedeutico al gol. Il designer Richard Sapper progetta per Artemide la lampada Tizio, è il 1972. Sapper pensa a un oggetto che abbia una base molto piccola, in grado di occupare sul tavolo il meno spazio possibile, e che al contempo abbia il braccio con la gittata più ampia immaginabile, capace di illuminare anche gli angoli più remoti del tavolo. Leggendo Alessi che descrive Tizio penso a Cavani, base piccola, ovvero la capacità di sottrarsi alla vista, di non essere d’ingombro, braccio ampio e agile, capace di estendersi verso la porta, all’insaputa del buio, del difensore più vicino, del portiere.


 

C’è la cosa preziosa, quella che secondo lo scrittore Stephen King sarebbe in grado di farci fare qualunque cosa pur di possederla. Ecco, io entrerei in quel negozio di Castle Rock nel Maine e domanderei di avere la coordinazione perfetta di Cavani, che mi consenta di relazionarmi alla vita nel modo esatto in cui l’attaccante di Salto si relaziona allo spazio e al pallone nel marzo 2018 realizzando contro la Repubblica Ceca un gol in rovesciata che viene direttamente dai sogni di ogni bambino. Quel gol è forse il più bello di Cavani; in quel caso dimostra la propriocezione, la capacità di riconoscere la posizione del proprio corpo nello spazio e lo stato di contrazione dei muscoli senza il supporto della vista. Una sorta di sesto senso: sapere in che punto dell’area di rigore ci si trovi, dove stia la porta, quanto saltare, quanto forte calciare.


 


 

La cara cosa non ci abbandona e torna con forza al centro della nostra memoria, succede adesso che Cavani è al Manchester United, è successo quando lo abbiamo visto segnare due gol di testa bellissimi. In una partita di Premier League, lo United sta perdendo 2-0 con il Southampton, Cavani entra nel secondo tempo, prima serve un assist a Bruno Fernandes e poi realizza la doppietta decisiva. Il primo colpo di testa è in tuffo, lo si vede spuntare alle spalle dei difensori e schiacciare la palla in rete. Il secondo lo realizza abbassandosi un po’ come uno che passa da lì per caso, così che non se ne accorgano. Ricordo che stavo guardando quella partita e di aver twittato: «Intanto sulla Premier League si è abbattuto Cavani». Quei gol mi hanno illuminato il pomeriggio, come quando riapri un vecchio libro che hai amato molto; è stato come se una delle vecchie moka fosse scesa dal mobile rendendosi di nuovo disponibile all’uso. Ho riconosciuto quel vecchio aroma.


 

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