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Roberto Scarcella
Due anime per il derby di Tunisi
24 feb 2022
24 feb 2022
Reportage dalla capitale tunisina, teatro del derby tra Esperance e Club Africain.
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Roberto Scarcella
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Ho visto un treno esultare. Non i passeggeri, proprio il treno. L’ho visto nella periferia di Tunisi dopo un derby di fine campionato che non aveva più nulla da dire, eppure - come ogni derby che si rispetti - per almeno una squadra significava tantissimo. A Tunisi, come in tutte le capitali che sembrano non finire mai, ci sono un sacco di squadre, ma quelle che contano davvero sono due: una è l’Espérance, tra le più famose e titolate d’Africa, il cui nome è conosciuto anche da chi non l’ha mai vista giocare, o da chi, con una mappa davanti, confonde la Tunisia col Marocco e l’Algeria.


 

L’Espérance ha vinto 18 degli ultimi 23 campionati, 15 coppe nazionali e 4 Champions League africane: l’ultima l’aveva vinta - contro il Wydad Casablanca - pochi giorni prima che atterrassi a Tunisi, ma mentre ero in città, la Federcalcio africana aveva chiesto di riconsegnare coppe e medaglie perché era tutto da rifare.


 

Quando, il 9 giugno, allo stadio Olimpico di Radés, vedo l’Espérance scendere in campo contro il Club Africain, la squadra che era stata campione continentale per una settimana, da quattro giorni non lo era più.


 

L’Espérance e il Club Africain sono due facce contrapposte di una città complessa, con due anime in un sacco di altre cose. Ti giri da una parte e sa di Mediterraneo, ti giri dall’altra e sa di deserto, e il mare sembra un miraggio. Entri nella Medina al mattino presto e senti chiacchierare solo in arabo e francese, arrivi all’ora di pranzo e li senti mescolati all’italiano, al tedesco e all’inglese.


 


Tifosi del Club Africain durante il derby del febbraio del 2018 (foto di FETHI BELAID/AFP via Getty Images)


 

Anche la cucina tipica è divisa con l’accetta, tanto quanto Espérance e Club Africain, forse di più: piatti ricchi ed elaborati - traboccanti di carne, spezie e verdure dai colori brillanti - che sembrano usciti dalle cucine reali del Bey (il sovrano della Tunisia fino agli anni ’50) convivono con una tradizione totalmente opposta, ma altrettanto presente, che sembra affidata al frigorifero dell’universitario fuorisede: tonno in scatola con le verdure, tonno in scatola nella pasta, tonno in scatola con i legumi, tonno in scatola con altro tonno in scatola, tonno in scatola nel brik, la sottile pasta sfoglia in cui si aggiungono uova, patate e capperi e poi si chiude come una crêpe.


 

Insomma, carretti e limousine, viali illuminati e trafficati accanto a strade buie e deserte, hammam seminascosti che sembrano usciti dal passato e SPA invadenti arrivate dal futuro, Tunisi, uguale a se stessa tra mille cambiamenti, sembra voler ricordare a chi la visita che tutto è provvisorio in superficie, eppure - in fondo - immutabile: il mercato ininterrotto della Medina, i pescatori de La Goulette, piena di cognomi italiani, le case bianche e blu, che sembrano costruite apposta per Instagram, di Sidi Bou Said, il lungomare dal sapore retrò de La Marsa, terra di expat e ricchi francesi in pensione in cerca di qualche mese di caldo extra. Così le lasci, così le ritrovi. Immutabile da oltre vent’anni a questa parte è anche il rapporto di forza tra Espérance e Club Africain, il cui incontro è ininfluente per la classifica: i primi - nonostante abbiano ancora un paio di partite da recuperare - sono già campioni da un mese, i secondi galleggiano nella metà alta della classifica.


 

Comprare i biglietti è la prima esperienza esotica di un lungo percorso che si allarga ben oltre i 90 minuti di gioco. Non si possono acquistare online, né nei negozi - tutto sommato centrali - delle due squadre. Bisogna andare allo stadio: non quello dove si gioca, un altro. Si chiama El Menzah ed è l’edificio più appariscente di un grande centro sportivo che sembra sia stato calato dall’alto in mezzo a un reticolo di strade esagerato per il numero di auto che lo attraversa. È mattina, arrivo a piedi e per chilometri non incrocio nessuno, ma quando mi avvicino allo stadio vedo un capannello di persone indistinguibili intorno a una specie di chiosco. Non faccio in tempo a capire che quel chiosco è la biglietteria, che il capannello, compatto come fosse uno sciame d’api, si dirige verso di me. Ognuno di loro - a suo modo - mi chiede i soldi per un biglietto. Non ne avrei abbastanza per tutti nemmeno se volessi. Si avvicina un uomo in divisa: non capisco se è un poliziotto, un militare, una guardia giurata o uno che va in giro in divisa senza un vero motivo. Dice di lasciarmi stare: quasi tutti lo fanno, qualcuno no. Mi dirigo verso il chiosco, prendo il biglietto e mi sento tutti gli occhi addosso. Un bambino, pur di convincermi, quasi sale sul tram con me. Non erano aggressivi, né veramente molesti, ma erano troppi, quello sì.


 

Ho abbastanza tempo per visitare i negozi di entrambe le squadre: quello dell’Espérance è in una zona più centrale e in tutto e per tutto somiglia a un qualsiasi negozio di una squadra di medio livello europea, tanti oggetti, tante taglie, commesse con la divisa giallorossa della squadra e prezzi, anche quelli, quasi europei. C’è tanta gente, anche qualche turista.


 

L’autoproclamato “megastore” del Club Africain invece non è per niente mega e tutto sommato anche poco store: almeno metà degli scaffali e degli appendini sono vuoti, il resto è una caccia al tesoro dove ogni fila di maglie sembra impilata da qualcuno che aveva troppa fretta per fare le cose per bene. È forse l’unico negozio di abbigliamento al mondo dove potrei lavorare perfino io, che non ho mai imparato a piegare gli abiti come si deve. Ci sono un paio di ciabatte da doccia enormi, bianche e rosse, come i colori sociali, ma un piede così grosso non l’ho mai visto. E asciugamani che sembrano già stati al sole, divise che sembrano uguali, ma a guardar bene non lo sono. Il centro sportivo che lo ospita sembra una miniatura in scala di quello enorme dove al mattino ho comprato i biglietti. Dal negozio del Club Africain al centro sono pochi minuti se hai il coraggio di attraversare a piedi due strade a scorrimento veloce con troppe corsie, oppure molti di più se fai il percorso che ti indica Google Maps.


 

Se non hai un’auto, il modo più rapido per raggiungere lo stadio Olimpico di Radés - dove gioca la Nazionale e dove i club di Tunisi giocano i derby e le partite più importanti - è il treno che parte dalla stazione centrale. È un viaggio di mezz’ora scarsa in vagoni strapieni di gente che va da qualche parte, ma non allo stadio: alla stazione di Radés Meliane ci sono 41 gradi, eppure sembra di respirare rispetto al treno. Raggiungere lo stadio a piedi, con due tappe per comprare l’acqua, ti fa, se non capire, almeno immaginare cosa voglia dire giocare in quelle condizioni.


 


L'Esperance esulta dopo un gol nel derby del novembre del 2010 (foto di FETHI BELAID/AFP via Getty Images).


 

Mi fermo a guardare una vecchia auto di una marca mai vista prima, la carrozzeria è un’enorme bandiera tunisina pitturata con estrema cura. Poco più avanti c’è un minareto, dietro di me c’è invece una signora che mi fa capire - col solo tono della voce - che devo stare lontano dall’auto patriottica. Scatto una foto di straforo e riparto.


 

Nel viale accanto allo stadio ci sono cinque o sei piccoli chioschi che vendono cibo di strada, tutti strapieni. C’è anche un bar enorme con sul soffitto tanti ventilatori stanchi, alcuni sono così sdentati da sembrare margherite a cui qualcuno s’è divertito a strappare i petali. In tv c’è la finale del Roland Garros: quasi tutti bevono tè alla menta, quasi nessuno guarda il tennis.


 

Lo stadio Olimpico di Radés, come ogni cosa in Tunisia, è stato oggetto di polemiche quando il capo del governo, Elyas Fakhfakh, decise di rinominarlo Hammadi Agrebi senza seguire l’iter burocratico. Agrebi, eroe calcistico locale e stella della Nazionale che nel 1978 giocò i Mondiali in Argentina, era appena morto. Il governo si affrettò a mettere una targa col suo nome nonostante il comune di Radés fosse contrario. Agrebi giocava e viveva a Sfax, non a Tunisi, inoltre - per legge - dovrebbero passare almeno tre anni dalla morte: non erano passate tre settimane. È finita che il governo locale ha fatto causa a quello nazionale e che oggi ognuno chiama lo stadio come gli pare.


 

A prescindere dal nome, lo stadio può contenere fino a 60mila spettatori, ma sugli spalti siamo in meno di 20mila: in compenso, chi c’è fa il triplo del rumore. Il Club Africain, più motivato di chi ha appena giocato una finale di Champions senza sapere se l’ha vinta o no, attacca per quasi tutto il primo tempo. L’eroe del giorno è il numero 17 Yassine Chamakhi: è lui a segnare il gol dell’1-0 con un diagonale destro a fil di palo, è ancora lui a rimettere definitivamente davanti il Club Africain con un dribbling in area e un cross di sinistro che praticamente colpisce un compagno e rimbalza in porta. In mezzo c’era stato l’1-1 dell’Espérance, segnato da Saad Bguir: un tiro rasoterra su cui il portiere si tuffa in ritardo. C’è stato spazio anche per un paio di accenni di rissa, un’espulsione, un tiro da metà campo che quasi fa 2-2, l’intervento dei poliziotti, che - a fine primo tempo - scortano con gli scudi alcuni giocatori per evitare una pioggia di bottigliette sulle loro teste.


 

Quando la partita finisce, iniziano canti e balli sfrenati dei tifosi del Club Africain: un entusiasmo figlio di anni difficili: l’ultima (e unica) Champions africana dei biancorossi è del 1991. Tra il 1998 e il 2007 non sono mai riusciti a vincere un derby, perdendone 14 e pareggiandone sei. E che la partita sia finita con due squadre in campo è già una notizia. Il derby di Tunisi, così come la finale di Champions League africana che tiene appeso l’Espérance, ha una lunga tradizione di gare non terminate per abbandono di una delle due squadre. Il primo derby, giocato nel 1924, è finito 3-0 per il Club Africain, mentre il primo nella Tunisia indipendente è del 13 novembre 1955: a cinque minuti dalla fine, sul risultato di 2-0 per il Club Africain, l’Espérance abbandona il campo. Accadrà ancora nel 1969, con i giallorossi che se ne vanno per protestare contro un corner non assegnato dall’arbitro: il risultato era di 1-0, e la federazione ordinò la ripetizione dell’incontro, vinto ancora 1-0 dal Club Africain.


 

La Champions a cui l’Espérance è rimasto appeso mesi ha a che fare con qualcosa di simile, in chiave moderna: l’attrezzatura per il VAR non è mai arrivata a destinazione per disguidi organizzativi, ma la Federazione africana non l’ha detto a nessuno e ha fatto comunque giocare i tunisini e il Wydad Casablanca. Quando, però, uno dei due assistenti segnala un fuorigioco inesistente di metri e nessuno interviene, si scopre che il VAR non era in funzione perché un pezzo era ancora all’aeroporto di Madrid. I marocchini abbandonano il campo e inizia il balletto della coppa prima assegnata e poi tolta all’Espérance. L’idea di ripetere la partita a stagione conclusa diventa irrealizzabile quando l’Espérance fa notare che ha già venduto mezza squadra e la rosa è cambiata. Il titolo, alla fine, va a loro, tra mille dubbi, solo perché non si può (e non si vuole) fare altrimenti e la nuova stagione deve cominciare. I tifosi festeggeranno a rate, ma festeggeranno.


 



Intanto, quel 9 giugno sono quelli del Club Africain a suonare i clacson e a cantare nel corteo che riporta alla stazione, mostrando bandiere e sciarpe ai treni che passano. Passano però tutti in direzione opposta rispetto alla capitale: bisogna sedersi e aspettare. A un certo punto, arriva un treno che si mette a suonare al ritmo della canzone che i tifosi cantano quasi ininterrottamente dal gol del 2-1: quale sia la fede calcistica del macchinista è scontato. Tutt’altro che scontata è - una volta rientrato a Tunisi - la risposta che ricevo in un locale a pochi passi dalla stazione. Ho sete, chiedo una birra e il barista mi risponde: “Qui non vendiamo birra”. Intorno a me c’è pieno di gente, anzi pieno di uomini, tutti hanno una bottiglia in mano: è la Celtia, la birra locale. Alla mia sinistra ci sono tre frigoriferi enormi stracolmi di birra: in quel locale sembra che non ci sia altro. Il barista mi ripete: “Ti ho detto che non vendiamo birra”. Esco, cerco e trovo un ristorante alla buona: ordino un brik col tonno, il cameriere elenca le bevande, fa una pausa e aggiunge “c’è anche la birra, ma te la diamo solo se ti siedi al piano di sopra”.


 

Come per le due squadre di calcio, per le due cucine, a Tunisi ci sono due anime e un modo semplice di farle convivere: una al pianterreno e una al piano di sopra.


 

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