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Daniele V. Morrone
Dritti per la loro strada
13 giu 2017
13 giu 2017
Come i Golden State Warriors hanno vinto gara-5 e conquistato il titolo NBA.
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Daniele V. Morrone
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I Playoff 2017 sono finiti. La stagione NBA è terminata. La serie più attesa degli ultimi anni non ha deluso le enormi aspettative per il livello di gioco visto in campo. Gli Warriors si sono presi la loro rivincita, Kevin Durant si è preso il suo anello, LeBron James ha dimostrato pur nella sconfitta di essere ancora il Boss finale di questa lega.

 

Ci sarà tempo per le macro-analisi delle narrative di questa serie, ma limitandoci al solo

è finito tutto come sembrava essere scritto, in una partita che ha risposto anche ai due macro-temi della vigilia: il modo in cui Steve Kerr avrebbe provato a chiuderla dopo aver tergiversato a lungo coi quintetti

in gara-4 e la risposta di Tyronn Lue con le spalle al muro in trasferta dopo una prestazione offensiva irripetibile.

 

Era veramente difficile prevedere la risposta degli Warriors, dato che l’ultima sconfitta era arrivata due mesi fa e con il “Fantasma Del 3-1 Passato” che aleggiava sopra Oakland. I primi minuti poi non hanno aiutato l’analisi, dato che le due squadra sono sembrate respirare profondamente prima di buttarsi giù per la discesa, tanto che la Oracle Arena stessa non si è accesa se non dopo due minuti di partita, con la tripla piedi-per-terra di Draymond Green. È il tiro che segna l’inizio della fase tattica partita, perché è un tiro che Cleveland lascia volentieri e un tiro che Green deve mettere, soprattutto perché ha fatto fatica ad avere percentuali accettabili in queste Finali.

 

Non siamo però davanti soltanto a un lavoro tecnico e fisico, ma anche al picco possibile della capacità

che hanno le due squadre di giocare il proprio basket con tutte le pressioni del mondo addosso: non appena un rimbalzo perso in modo distratto da Tristan Thompson permette a Zaza Pachulia di servire la tripla di Klay Thompson, ecco che immediatamente arriva LeBron James a rimettere in riga i suoi attaccando il canestro a testa bassa e propiziando un 9-0 di parziale per Cleveland.

 



 

Chiudere la serie per gli Warriors significa prima di tutto arrestare la volontà di potenza del loro più grande avversario, che si iscrive alla partita con un controllo perfetto della situazione, alternando la scelta di entrata forte alla ricerca del post quando marcato da Klay Thompson: in neanche 6 minuti di gioco LeBron James è già a quota 12 punti con 5/6 dal campo. Non c’è un modo per mandarlo fuori dalla partita, ed è questa la testa di ponte cercata da coach Lue per tentare l’impresa alla Oracle: Cleveland è andata a Oakland per giocarsela senza alcun timore di togliere il piede dall’acceleratore e non si può dire che non ci sia riuscita. Un inizio deciso e 120 punti segnati con soltanto qualche passaggio a vuoto offensivo contro la miglior difesa della lega in una gara ad eliminazione diretta in trasferta sono qualcosa che deve rimanere ben scolpito nella memoria di tutti prima ancora di iniziare a ragionare sulla partita in sé. Perché già solo questo non è cosa da poco.

 

Poi possiamo parlare di tante cose che Cleveland avrebbe potuto fare meglio — come la gestione dei minuti finali di Tristan Thompson e di Kyle Korver, o la sparizione di quell’attenzione e impronta fisica debordante vista in casa, o anche il coinvolgimento offensivo di Kevin Love (che ha tirato comunque male con solo 6 punti in 30 minuti di impiego). Ma quanto fatto in gara-5 e in questa serie rimane comunque un risultato di squadra decisamente in linea con le aspettative di un grande attacco, guidato dal miglior giocatore del mondo ed in grado di lasciare il segno contro qualunque avversario, anche con le spalle al muro dopo una gara dalle percentuali irreali. Tutto questo deve comunque far pensare che, se c’è un bel modo di uscire da una serie contro una delle squadre più forti della storia del gioco, forse è questo: facendo affidamento sul proprio basket pur avendo davanti chi può permettersi il miglior attacco

la miglior difesa in campo della serie; forzando gli avversari a dimostrarsi più forti sul campo perché si è in grado di rispondere colpo su colpo; costringendo gli Warriors a reggere l’urto iniziale del Re aggrappati ai tiri liberi e ai rimbalzi d’attacco, dovendo fare i conti con una serie di palle perse iniziali che lievitano fino a quota 5 in neanche 10 minuti di gara.

 

Il modo in cui gli Warriors però riescono a tenere la situazione in mano è diretta conseguenza della scelta di Steve Kerr per la strategia offensiva. Dopo aver a lungo tergiversato, finalmente Kerr è andato dritto sulle due decisioni che da fin troppo tempo sembrava dovesse prendere: la scelta di sfruttare a piene mani il pick and roll tra Curry e Durant per contrastare l’aiuto sistematico del lungo di Cleveland sul portatore di palla e soprattutto la decisione di andare col quintetto piccolo per praticamente tutti i minuti fondamentali della gara.

 


Il tanto richiesto gioco a due con Curry portatore di palla e Durant bloccante limita la circolazione del pallone che tanto piace a Kerr, ma permette un controllo dei tipi di mismatch che può prendersi il numero 35 quando riceve — e la serie ha dimostrato che ogni accoppiamento, per lui, è un mismatch.



 

Salvo i primi minuti e qualche scampolo nel secondo tempo, Zaza Pachulia ha visto il campo meno di 10 minuti e McGee addirittura neanche un minuto: solo David West tra i lunghi ha mantenuto un minutaggio atteso (10 minuti in un eccellente secondo quarto), mentre per il resto tutti i minuti dei lunghi sono stati tagliati liberando spazio ai quintetti con Andre Iguodala (38 minuti in campo rispetto ai 21 di gara-4) facendo scalare Draymond Green centro. Il fatto che Green sia riuscito a rimanersi lucido per tutta la partita ha aiutato Kerr, ma va dato atto all’allenatore di avere finalmente il coraggio di dare sfogo a quello che è la vera natura dei suoi Warriors: quella del Death Lineup che ora è stato ribattezzato

.

 

In tutto questo, l’aggressività di Curry nel cercare le penetrazioni in area (ben 9 contro le 17 delle prime quattro partite messe assieme) e nel riuscire a segnare sui tentativi così profondi (7/8 nel pitturato) ha fatto tutta la differenza del mondo, tanto che per la prima volta Cleveland non è riuscita a impedirgli di fare quello che ha voluto. È stato forse il modo con cui Curry ha esorcizzato l’incapacità di segnare i canestri cercati fortemente la scorsa Finale a sbloccare Golden State, mentalmente ancor prima che tatticamente: nell’ennesima partita in cui Durant si è dimostrato di un’efficienza senza paragoni rispetto al volume di gioco — c’è chi parla delle Finali

— era importante per gli Warriors avere questa tipo di partita da parte del due volte MVP, che a differenza dello scorso anno ha lasciato spesso gli avversari nella polvere dopo le sue accelerazione.

 

Anche perché in una prevedibile serata con il fischietto sempre in bocca per gli arbitri (46 falli fischiati), i 15 tiri liberi procurati dal numero 30 hanno permesso di mettere a referto punti facili in un contesto in continuo cambiamento tra la palla che gira veloce, i cambi forzati dai falli che si sommavano e le tante perse da entrambe le parti. Un contesto che non è sembrato aiutare gli Warriors ad entrare in ritmo e ha permesso alla gara di rimanere in bilico: la seconda tripla a segno per gli Warriors arriva con Durant dopo 9 tentativi consecutivi andati a vuoto. Il lavoro di Cleveland ovviamente non va sottovalutato, eppure rimane l’impressione che gli Warriors siano riusciti a trovare i tiri preferiti ma che a lungo semplicemente questi non siano entrati, mentre dalle varie perse Cleveland è sempre riuscita a trovare punti facili. Una situazione da cui solo i fenomeni possono riuscire ad uscire indenni.

 


Poi certo: possiamo parlare di un attacco quanto vogliamo, ma se Durant segna da fermo da 9 metri marcato da James e Curry si ferma su una monetina per alzarsi e segnare da 3 anche lui, c’è veramente poco da aggiungere o da poter fare.







 

Metter canestri di questo tipo non può che uccidere qualsiasi velleità di tenere in piedi un vantaggio: gli Warriors, che erano sotto di 8 a inizio secondo quarto dopo una torreggiante schiacciata di James, si ritrovano quindi sopra di 5 senza neanche accorgersene. Da lì le difficoltà di Cleveland — con Irving che ha un ginocchio in disordine e rimane fuori più del normale nel secondo quarto, cosa che diminuisce di gran lunga la potenza di fuoco — si fanno mastodontiche a ogni attacco che non coinvolga LeBron James, mentre una volta sopra GSW non si guarda più indietro fino a realizzare un maxi parziale di 21-2 che indirizza la gara. I tiri che prima non entravano ora entrano (perfino Green mette la seconda tripla della serata), mentre le transizioni gestite da un Iguodala immenso sui due lati del campo rimangono un problema non arginabile per Cleveland. Una situazione che permette a Kerr anche di tenere dentro David West accanto a Green visto che Durant, Iguodala e Curry possono persino fare anche a meno di un Klay Thompson limitato dai falli.

 


Questi sono i Golden State Warriors 2016-17.



 

Potrebbe essere questa la fine della gara, con gli Warriors in pieno ritmo che toccano il massimo vantaggio sul +17 e riescono a stare dietro alla fisicità di Cleveland senza problemi.

esserlo, se non fosse che i Cavs possono disporre di un giocatore come Kyrie Irving. La giocata con cui va di puro sforzo fisico a cercare un pallone che sembrava saldo nelle mani di West è la scialuppa di salvataggio che Irving lancia a Cleveland: è una giocata di voglia e intensità per provare a risalire mentalmente nonostante il passivo, e viene premiato con il tecnico fischiato a West sul rimbalzo, cosa che blocca la partita e fa rifiatare tutti — e soprattutto fa abbassare il volume dell’arena. Dal giro di tecnici Cleveland ne esce con una palla a due vinta e una tripla di James per il -13 che forza il timeout immediato di Kerr.

 


Il salvagente lanciato da Irving in mare aperto viene raccolto da JR Smith, che si iscrive alla gara con due triple, di cui una assurda a 2 secondi dalla fine del primo tempo oltre i 9 metri per tenere a galla Cleveland all’intervallo sul -11.



 

Il problema di Cleveland però è che la ripresa si dimostra in linea con le tendenze della gara, con la panchina degli Warriors decisamente più incisiva — tolto l’enorme Iguodala, si erge su tutti un Patrick McCow incredibilmente presente dal punto di vista mentale, che con 6 punti di fatto quasi pareggiano i 7 di tutti i Cavs — e un attacco più fluido rispetto a quello di una squadra costretta a isolare continuamente James contro Durant per trovare punti. Da una parte Cleveland per due volte consecutive deve faticare le pene dell’inferno per arrivare a canestro con Love (la prima volta segna, mentre la seconda è costretto a ridarla fuori); dall’altra, con un blocco e un passaggio per cambiare lato del campo, un tiratore del calibro di Klay Thompson è libero per una tripla. La questione è semplice e ovviamente James capisce subito, tornando in difesa contrariato: gli Warriors riescono a mantenere la concentrazione e trovare un giocatore libero piedi per terra dopo pochi passaggi, potendosi permettere quindi di far tenere palla in mano a Curry quanto vuole prima di andare al tiro; mentre Cleveland, se vuole tenere il passo sul tabellone, è costretta ad andare in uno-contro-uno ogni singola volta. Poi certo, ne può uscire una tripla contestata di Smith, ma se quella entra non è certo per il lavoro

dell’attacco.

 

Per fortuna di Cleveland c’è Zaza Pachulia a giocare per loro, riuscendo a sbagliare la giocata sia in difesa che in attacco ridando vita a Cleveland e riducendo il passivo alla cifra singola. La partita rimane bella perché la posta in palio è massima, ma nonostante questo gli errori sono inferiori a quanto ci si possa aspettare: ad esempio Curry, che non è in giornata da tre (2/9 dall’arco), rimane lucido e in due azioni riesce prima a prendere in mezzo Love portandoselo a spasso e poi a procurarsi il fallo di Irving sull’entrata a canestro.



Il fatto che Cleveland riesca sempre a trovare una via d’uscita dal parziale tramortente è la cosa più encomiabile della loro prestazione, nonché quella che mantiene bella la partita: non appena la gara rischia di scivolare via dalle loro mani, ecco che una giocata difensiva di Cleveland o un canestro difficile segnato riesce a tamponare l’emorragia. Quello che non si può fare a meno di ammirare dei Cavs è l’incredibile forza mentale che tiene sempre in piedi questa squadra: ognuno dei giocatori mette qualcosa a modo suo, dalla Grandezza di James ai canestri di un J.R. Smith che si dimentica come si sbaglia una tripla (prime 6 tutte a segno, chiude con 7/8 per 25 punti), alle piccole

di un veteranissimo come Richard Jefferson, solo per fare tre nomi. La difficoltà incontrata da una delle squadre più forti della storia nel dare il colpo del K.O. in casa è più merito di Cleveland che demerito degli Warriors.

 


Tristan Thompson che non è certo facilitato dalla velocità della gara riesce anche lui a rimanere lucido e trovare il suo spazio sotto canestro.



 

La partita si trasforma in una battaglia colpo su colpo tra i due migliori attacchi della lega, tanto è vero che i due offensive rating delle squadre parlano di 126.1 punti su 100 possessi per Golden State e 118.7 per Cleveland. Ancora una volta le due squadre riescono ad esprimersi al meglio quando toccano il livello massimo del proprio potenziale offensivo, che è poi quello che abbiamo sempre voluto da questa serie al di là del risultato finale: vedere le due squadre tirare fuori tutto il loro meglio e scoprire quale è la migliore. La differenza è che per ogni errore al tiro dei Cavs nell’azione successiva arriva a canestro degli Warriors, un lusso che Cleveland — per quanto ci provi — semplicemente non può permettersi. Basta veramente poco per far accendere gli Warriors e questo è risaputo, ma vedere come ogni singolo mancato aiuto difensivo possa diventare la miccia è uno dei fattori che più di tutti tiene sotto pressione la difesa di Cleveland: non è tanto il canestro subito, ma il

che potrebbe essere quello decisivo per farli accendere e innescare lo strappo decisivo a preoccupare. Cleveland può quindi rischiare poco e questo porta a giocare sempre in una posizione di inferiorità.

 


Il canestro che spegne il cervello a Cleveland.



 

Per quanto James si prenda le proprie responsabilità offensive in modo perfetto e Irving inciti i compagni, i

di Cleveland alla lunga non riescono a rientrare in partita (13 punti complessivi da Love e panchina). Quando anche il cronometro inizia a fare la sua parte, la fretta dei Cavs li porta a sbagliare più del dovuto: agli Warriors basta aspettare il momento giusto per dare l’ultimo colpo e poter finalmente festeggiare il titolo.

 


La tripla che dà il via ai festeggiamenti per il titolo.



 

Se ve lo state chiedendo, ho volutamente lasciato in fondo l’analisi la prestazione di Kevin Durant. Non credo di essere in grado a caldo di spiegare l’impatto nella gara di un giocatore che non si è mai visto prima per efficienza: chiudere una gara decisiva con 39 punti e 14/20 dal campo non dovrebbe poter essere possibile per chi ha tutte le pressioni del mondo addosso, specialmente

in cui si è imbarcato in questa avventura. Il suo dominio sulla partita è stato talmente costante e continuo da risultare forse meno appariscente di altri, ma ripensandoci bene è sempre stato lui a segnalarsi nel realizzare i canestri decisivi, nelle scelte giuste con la palla, nei tempi di allontanamento dal pick and roll con Curry e nelle letture difensive dal lato debole.

 

Gara-5 è stata la partita in cui Green è riuscito a vendicare la squalifica di un anno fa, in cui Curry ha scacciato i demoni della scorsa stagione, in cui Thompson ha certificato il suo status come uno dei migliori difensori perimetrali della lega e in cui Iguodala ha giustificato il suo essere il miglior sesto uomo della lega con ampio margine sul secondo. Ma gara-5 è stata soprattutto la partita in cui Durant si è preso la gloria che il suo talento meritava da tanto tempo, e l’ha fatto da protagonista assoluto come il suo talento gli permette di essere. Gli sconfitti escono a testa alta, ma più in alto del loro sguardo arrivano le braccia con il titolo di MVP in mano di Kevin Durant.

 

 

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