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Dove sta andando la Serie A
22 set 2017
22 set 2017
7 grandi domande sullo stato del campionato italiano.
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L’introduzione dei VAR, dopo un’inevitabile fase di digestione iniziale, probabilmente porterà ad una diminuzione delle polemiche, ma non per i motivi che di solito si adducono, e cioè che porti effettivamente ad una riduzione degli errori arbitrali. In realtà, già considerarli errori significa nella maggior parte dei casi partire da una base logica erronea. La cosa da tenere bene a mente quando si parla dei VAR, infatti, è che non stiamo parlando di un computer che può calcolare la correttezza delle chiamate dell’arbitro (il calcio è uno sport con un sistema di falli poco codificato e le decisioni possono cambiare molto da arbitro a arbitro, senza essere per questo sbagliate), ma di due persone - due arbitri - che rivedono gli episodi più controversi in video.

 

I VAR, quindi, possono sbagliare o prendere decisioni su cui lo spettatore non è d’accordo tanto quanto l’arbitro (l’abbiamo già visto con l’intervento di Skriniar in Roma-Inter o il rigore su Galabinov in fuorigioco in Genoa-Juventus) e in realtà portano ad una reale miglioramento dell’occhio arbitrale in una frazione di episodi molto più limitata di quanto non si pensi: i gol segnati o i rigori assegnati in fuorigioco netto, i casi di mistaken identity (quando l’arbitro ammonisce o espelle il giocatore sbagliato) o quelli di violenza a palla lontana. In tutti gli altri casi, che per nostra sfortuna sono anche i più controversi (assegnazione o meno di un rigore, annullamento o meno di un gol per fallo, alcuni casi di espulsione diretta), i VAR non possono fare altro che proporre il proprio punto di vista soggettivo all’arbitro, che poi decide se accettarlo o meno.

 

La riduzione delle polemiche, secondo me, verrà come conseguenza del fatto che i VAR formano le proprie decisioni sulle stesse immagini televisive con cui l’opinione pubblica decide se fare polemica o meno, e sotto questa spada di Damocle gli arbitri tenderanno sempre di più ad abdicare al proprio potere decisionale in favore dei VAR e quindi, indirettamente, del pubblico. Anche se il campione statistico è ancora limitatissimo, è interessante notare che già in queste prime giornate tutte le volte in cui un mancato fischio è stato messo in discussione dai VAR, l’arbitro ha sempre deciso di cambiare la propria decisione. È paradossale, perché si spinge l’arbitro a fidarsi di più di un’immagine zoomata e rallentata che dei suoi occhi a pochi metri dall’azione, ma in questo modo si dà al pubblico l’illusione che un errore sia stato corretto.

 


Uno degli aspetti più interessanti dell’introduzione del VAR è la sua sfaccettatura culturale: come nella trama di un romanzo sci-fi di Asimov dagli esiti ribaltati, la tecnologia, anziché trasformarsi in una minaccia potenzialmente distruttiva, viene investita del compito di restituire all’essere umano la serenità perduta. Rizzoli, che ha illustrato a ogni singolo uomo coinvolto nei processi decisionali degli arbitri in campo il funzionamento del VAR in un tour pedagogico prima dell’inizio del campionato, ha raccontato di aver riscontrato come «giocatori, allenatori, dirigenti e pubblico hanno accettato il cambio di alcune decisioni con grande serenità». È un concetto fondante della nuova Serie A, la serenità, o almeno uno spunto promozionale, perché potrebbe permette di gettare le basi di un nuovo inizio. A quella stessa pacatezza d’animo ha accennato anche Buffon, che anziché effetto l’ha individuata come causa in mancanza della quale il cambiamento è stato percepito come necessario: davvero ci voleva un’innovazione di questa portata per tornare a mettere, al centro del villaggio, il campanile della meritocrazia, della libertà di giudizio del valore di tutte le parti coinvolte?

 

Se ci aspettavamo grosse rivoluzioni, forse quattro giornate non sono sufficienti per darcene prova: alla fine i rigori assegnati sono stati esattamente quelli dell’anno scorso. Cambia però la percezione del pubblico che a goderne, o a subirli, non siano stati gli stessi attori che, tradizionalmente, in virtù di una legacy costruita negli anni più nell’immaginario che nella realtà, li hanno sempre subiti o ne hanno goduto. Questo, soprattutto in partenza (perché poi la bilancia cosmica finirà per tornare in equilibrio, inevitabilmente) è sembrato il successo più grande del VAR: lo sgretolamento, o l’idea che se ne stesse compiendo uno, dei falsi miti, dei pregiudizi, delle nomee.

 


Oltre all’impatto culturale sul pubblico, che ha già sviscerato Fabrizio, bisogna infine parlare dell’effetto che i VAR hanno e avranno sul gioco, aspetto in cui mi sembrano si annidino i problemi principali. La criticità maggiore mi sembra ci sia sui calci di rigore e sui falli in area che portano all’annullamento di un gol. L’immagine televisiva non è imparziale e neutra come sembra, e un giudizio su un episodio di questo tipo può cambiare radicalmente a seconda dell’inquadratura e della velocità a cui è portata l’immagine - lo slow motion, in particolare, tende a dare l’impressione che un contatto sia stato molto più duro di quanto non sia stato dal vivo. In questi casi, quindi, ci potrebbe essere il pericolo che l’arbitro venga confuso più che aiutato. Pensiamo anche ai casi di espulsione diretta per gomitata, che rivisti rallentati al replay possono sembrare molto più gravi di quanto non siano stati in realtà (c’è stato un episodio di questo tipo abbastanza controverso

, ad esempio).

 

Poi c’è il problema dei tempi di gioco. Al di là della semplice quantità dei minuti di recupero, che mi sembra più un pretesto degli allenatori e dei tifosi per contestare l’operato dell’arbitro, c’è più che altro la questione dell’interruzione del flusso di gioco, che a volte oltrepassa i confini della “naturalità” (cioè di quello a cui eravamo abituati finora) fermando l’azione per troppi minuti. Questa è una preoccupazione reale dell’IFAB (l’organo che decide sulle regole del gioco) che nelle sue linee guida, però, afferma chiaramente che l’accuratezza della revisione dei VAR è più importante della velocità a cui si arriva alla decisione finale. Soprattutto nelle partite più tese e combattute, i VAR rischiano quindi di spezzare il filo emotivo della partita. La soluzione di cui si parla più al momento, e cioè il tempo effettivo, magari solo per gli ultimi (10? 20?) minuti di partita, potrebbe peggiorare ulteriormente il problema, allungando il tempo di gioco indefinitamente e rendendo i finali di partita, che basano il loro pathos proprio sull’esaurimento del tempo, più noiosi di quanto non siano attualmente. Forse sarebbe meglio prendere spunto da altri sport e impostare un numero di chiamate della revisione dei VAR limitato per ogni allenatore (magari 2), come succede già nel tennis e nel football americano. In questo modo, si limiterebbe l’invadenza dei VAR nel flusso di gioco e si darebbe anche l’impressione agli allenatori, ai giocatori e ai tifosi di avere un’arma contro i presunti torti arbitrali.

 



 



 


Anche se non sono amante delle opposizioni troppo nette vorrei difendere l’argomento della “conservazione” come possibile alternativa a quello della “rivoluzione” che mi sembra essere diventata la quotidianità di molte squadre non di prima fascia. Anzitutto perché tenere i propri giocatori migliori dovrebbe essere considerato come parte del mercato: sui giocatori in rosa è stato già fatto un lavoro tecnico, tattico e di ambientamento, che andrebbe calcolato come investimento per ogni nuovo acquisto (ovviamente non parlo di squadre che possono comprare Neymar). È un “costo” intangibile, difficile da misurare e comunque fuori dai bilanci, per questo si può tranquillamente non tenerne conto finché l’eventuale nuovo acquisto avrà deluso di brutto le aspettative: anche a quel punto, però, si parlerà del giocatore con cui sostituirlo, facendo ricominciare la giostra da capo. Non converrebbe aumentare gli investimenti quotidiani sulla squadra, su tutte quelle cose che possono migliorare le condizioni in cui vive e lavora, che possono ulteriormente professionalizzare il gruppo già a disposizione, piuttosto che su risorse esterne?

 

Dico questo perché, oltretutto, sono dell’idea che escludendo il 5% composto dai migliori giocatori del pianeta la differenza tecnica non sia così marcata da giustificare da sola un nuovo acquisto. Mi sembra che moltissimi scambi siano a somma zero dal punto di vista strettamente tecnico (tattico e atletico) e che poi la differenza tra le prestazioni di un giocatore o di un altro dipendano in gran parte dalle connessioni con i compagni (difficili da anticipare e comunque non molto considerate quando si parla di fanta-mercato), dall’adattabilità alle richieste dell’allenatore (e quindi dalla coordinazione tra allenatore e DS), dallo stato mentale e fisico del giocatore stesso (anche questo difficile da prevedere). Anziché lavorare su altre variabili con cui si può migliorare una squadra per un periodo anche lungo, si tenta sempre la strada più breve: l’acquisto che può svoltarti una stagione, o anche un paio, e che magari al momento della rivendita possa finanziarti altri acquisti con cui mandare avanti la giostra.

 

Un'alternativa sarebbe quella in cui un allenatore lavora sulle proprie idee con un gruppo di giocatori collaudati, tenendo, anche con dei sacrifici, i migliori, con la possibilità che magari i dirigenti si concentrino su tutti quegli altri dettagli che mandano avanti un club ogni giorno, senza la pressione di dover portare un nome che sazi la piazza ogni sei-dieci mesi. Ci sarà una ragione se certi giocatori, diciamo così, “normali” in alcune squadre diventano “qualcosa di più che normali”, mentre certi altri con un talento naturale evidente appassiscono come cactus in una cantina buia?

 

Quest’anno ci sono alcune squadre che si sono dette che difficilmente sarebbero riuscite ad alzare il proprio livello tecnico e che non per questo saranno meno competitive, anche se su differenti livelli. Il Napoli su tutte, ma anche l’Inter (pur cambiando allenatore il gioco e i giocatori sono in decisa continuità con alcuni princìpi dello scorso anno), il Chievo, il Bologna (mentre uscendo dall’Italia l’esempio principale è

). Adesso, non sempre a questo tipo di mercato, o di non-mercato, si accompagnano dei cambiamenti strutturali o un tipo di gioco che richiede apprendimento lento e profondo, ma sono curioso di vedere se in alcuni casi non basterà semplicemente lasciare che i giocatori giochino per due anni di seguito insieme ad alzare le prestazioni della squadra.

 


If it ain’t broke, don’t fix it è sempre una valida strategia di mercato, d’altra parte mi rendo conto che la maggior parte dei direttori sportivi si trovi di fronte al problema opposto: ritrovare la credibilità per tornare a vincere dopo anni di sconfitte. È banale dirlo oggi, ma la nuova dirigenza milanista non avrebbe mai ricevuto lo stesso credito, dalle banche, dalla stampa e dai tifosi, se avesse insistito sul centrocampo Sosa-Poli-Kucka-Bertolacci per risalire la china del calcio mondiale.

 



 

Alle condizioni attuali, programmare il futuro di una società di calcio significa tenere in conto fattori come le dimensioni del mercato e la solidità del brand. Soltanto una società con un forte bacino economico e di tifosi alle spalle può permettersi di assorbire senza contraccolpi il fallimento sportivo, come ha fatto il Manchester United dopo Moyes e Van Gaal. In questo senso è più utile inquadrare la rivoluzione come una strategia comunicativa, piuttosto che una strategia di mercato: il Milan ha scelto (perché poteva permetterselo) di restituire da subito l’immagine di una grande società, per poterci costruire sopra con il tempo una grande squadra.

 

Presumo che il mercato aggressivo sottintendesse una precisa priorità, trascendente da valutazioni tecniche: recuperare il prima possibile quella fetta di pubblico che negli ultimi anni si era allontanata dal club. Il dato degli abbonamenti sottoscritti negli ultimi anni segnalava vertiginose vette di disaffezione, fino al paradosso per cui il Verona di quest’anno, costruito per salvarsi a forza di preghiere, ha registrato più abbonati del Milan della passata stagione. Impressionante, se pensiamo ai vent’anni di vittorie in Italia e in Europa, anni in cui la maggior parte dei tifosi di calcio contemporanei cresceva e formava la propria cultura calcistica.

 

Certo, per inseguire questa visione i dirigenti hanno dovuto accontentarsi di strappare ogni opportunità disponibile, lasciando a Montella una rosa non perfettamente funzionale, senza le istruzioni per l’assemblaggio. Eppure questo travolgente calciomercato, capace di sollevare l’asticella delle aspettative settimana dopo settimana come una serie tv ben costruita, ha portato 65mila persone allo stadio per un preliminare di Europa League contro il CSU Craiova, una partita che sotto una luce diversa sarebbe stata la metafora perfetta per descrivere la caduta dell’impero.

 

In un campionato che

sul piano della ricerca tattica, e che pure fatica a tenere il passo della competizione in termini di stadi pieni e appeal commerciale, ho apprezzato particolarmente la forza del messaggio: la rivoluzione è servita, venite già mangiati.

 





 


Fino a pochissime stagioni fa, la difesa a 3 dominava incontrastata in Serie A: Conte, Montella, Gasperini, Mazzarri, Ventura lo usavano costantemente, mentre molti altri, da Guidolin a Donadoni, da Mandorlini a Reja, ne facevano un uso moderato. Lentamente, abbiamo esportato l’importanza della difesa a tre nel difendere i mezzi spazi e consolidare l’inizio azione in Premier League, dove Conte ha praticamente costretto tutti gli altri ad adeguarsi (persino Wenger!); ma nel frattempo, in Serie A, cominciava a perdere peso, in favore della classica linea difensiva a 4. Nella nuova Serie A, di convinti assertori della trinità difensiva abbiamo solo Gasperini e il suo discepolo Juric, con un’applicazione però molto specifica di marcature a uomo in tutte le zone del campo, e Semplici. Ad usarla spesso ci sono poi Simone Inzaghi alla Lazio, Montella al Milan (che però è ancora un po’ titubante), e adesso anche Bucchi al Sassuolo (ma potrebbe essere una soluzione temporanea).

 

Il temporaneo offuscamento della linea a 3 (la celebreremo ancora, vedrete, magari anche durante questa stagione) potrebbe essere dovuto a varie motivazioni, tra cui una generale diffusione del tridente offensivo (si va in parità numerica con l’attacco avversario), la scarsa necessità di consolidare il possesso iniziale (sia per una generale mancanza di pressione alta, sia perché quasi nessuno segue principi posizionali), e le necessità di non perdere un uomo a centrocampo (nella versione a cui siamo più abituati, gli esterni si abbassano a comporre una difesa a 5: ma per Cruyff, invece, giocare a 3 significava liberare un uomo in zone avanzate di campo. Anche per i moduli, todo depende).

 

Questa esigenza si interseca pienamente con le motivazioni dell’eterno ritorno della difesa a 4: mi sembra che in molti stiano facendo attenzione a sistemare gli uomini tra le linee, sulla trequarti, ed è lì che per la Serie A conta davvero la superiorità posizionale. E oltre a concederti un uomo in più per la trequarti, la difesa a 4 consente anche di creare superiorità numerica sulle fasce, con l’utilizzo dei terzini come vere e proprie armi offensive. Il Real Madrid di Zidane insegna (ma anche la nuova versione del City di Guardiola): attaccare in ampiezza con i terzini è rischioso ma può pagare altissimi dividendi, perché permette alle ali di occupare gli spazi di mezzo e crea un enigma quasi irrisolvibile per la difesa avversaria. E infatti anche in Serie A le squadre di vertice cercano elementi sempre più di spinta: oltre ad Alex Sandro, ci sono a Karsdorp e Kolarov (e sta per tornare Emerson), Conti e Rodriguez, Dalbert e Cancelo (talmente offensivi che per ora Spalletti non li fa giocare), e poi Romulo, Lirola, Masina, Gaspar e via dicendo. Insomma, il trend è usare le fasce per sorprendere gli avversari in ampiezza: con gli esterni a tutto campo richiesti in un 3-5-2 è molto più complicato, ad eccezione dei rombi di fascia gasperiniani. E mentre gli altri ancora elaborano le contromosse del 3-5-2, la Serie A prova a decollare sulle fasce, in attesa di un nuovo trend da decriptare, consolidare ed esportare.

 


Due anni fa Emiliano Battazzi scriveva un pezzo intitolato

, dove si definitiva la Serie A una riserva di numeri 10, tutti differenti fra loro. Trequartista, peraltro, è una parola esclusivamente italiana, a testimonianza quindi della visione tattica peculiare che si trascina dietro.

 

Due anni dopo questa tendenza, che in quel momento sembrava un relitto nostalgico del nostro campionato si è rivelata all’avanguardia e i trequartisti hanno iniziato a proliferare, sotto diverse forme, anche nel resto dei campionati europei. In Premier League, ad esempio, diverse squadre (Tottenham, Manchester City, Bournemouth, Everton) giocano con un 3-4-1-2 o con un 3-4-2-1 che ha lo scopo di difendere e attaccare al meglio negli spazi di mezzo.

 

Le ricezioni tra le linee sono storicamente prerogativa dei trequartisti, e nel calcio attuale stanno diventando sempre più importanti, semplicemente perché consentono di ricevere nelle zone più sensibili del campo: centrali e vicine alla porta. Anche senza il pallone la posizione dei trequartisti è importante, perché permette un buon scaglionamento posizionale per facilitare la riconquista alta, specie nella fase di riaggressione.

 

Ora bisogna dire che in Serie A l’uso del trequartista rimane comunque peculiare, vista la diffusione dei sistemi a rombo, in cui il trequartista funziona da vertice alto. Da ormai tre anni il 4-3-1-2 è uno dei moduli più utilizzati in Serie A: Chievo, Sampdoria e Cagliari ne fanno uso questa stagione. Meno squadre rispetto al passato - pesa l’assenza dell’Empoli, che ha fondato su questo modulo di matrice “sarriana” la propria identità tattica - ma comunque più che in qualsiasi altro campionato, in cui questo modulo è assente.

 

Il vertice alto del rombo deve preoccuparsi di offrire una traccia verticale nel corridoio centrale. Il possesso avanza sia con la regola di “un tocco avanti, un tocco indietro”, che direttamente verso la porta se c’è lo spazio. Ecco un esempio di Joao Pedro che

. Ma al trequartista del rombo anche il compito di allargarsi e creare superiorità numerica sulle catene laterali (ecco sempre Joao Pedro). Nel Chievo il trequartista raccoglie il tracce diagonali del terzino o della mezzala abbassatasi momentaneamente, come in

. Specie nel Cagliari, Joao Pedro deve poi attaccare la profondità aperta dai movimenti ad allargarsi delle punte. È richiesta abilità nel gioco spalle alla porta, un ottimo primo controllo e capacità di rifinitura e definizione.

 

Accanto a questo trademark della Serie A, ci sono giocatori che non sono trequartisti solo nominalmente, ma che del trequartista ricoprono le funzioni più classiche: occupare i mezzi spazi, rifinire, attaccare l’area con inserimenti da dietro. Un esempio di trequartista mascherato è Kurtic, che nell’Atalanta riceve nei mezzi spazi e crea delle catene laterali a destra, ma poi resta molto vicino alla punta al centro e si preoccupa di attaccare l’area quando (spesso) arrivano i cross dal lato forte di Gomez. Per questo la “Dea” quest’anno ha comprato per quel ruolo un giocatore ancora più offensivo come Ilicic. Amato Ciciretti gioca invece largo a destra in un 4-4-2, ma la sua creatività è fondamentale per regalare un po’ di verticalità e qualità di rifinitura all’attacco del Benevento.

 

Nel 4-2-3-1 di Spalletti Joao Mario funge principalmente da moltiplicatore di linee di passaggio, muovendosi ai fianchi dei centrocampisti avversari per far avanzare il possesso. Nella Fiorentina la linea dei trequartisti è totalmente fluida: se in fase di non possesso Benassi si mette al centro per guastare il gioco avversario, col pallone è Thereau a girare alle spalle di Simeone.

 

La Lazio, nel suo 3-4-2-1, schiera addirittura due trequartisti, anche se con funzioni opposte. Milinkovic-Savic ha un’influenza enorme sul gioco della squadra: si offre sempre

, alleggerendo i difensori da un’impostazione bassa e pulita. Il serbo è uno dei rari giocatori in grado di dominare fisicamente il gioco fra le linee senza scendere neanche un minimo di precisione tecnica. Accanto a lui però in questo inizio di stagione ha giocato anche un trequartista più classico come Luis Alberto, che si abbassa molto per aiutare la costruzione bassa e sfruttare il suo talento associativo.

 

Molte delle strategie delle squadra da calcio di oggi consistono nel cercare di prendere la zona profonda e centrale del campo, quella abitata dai trequartisti, soprattutto attraverso una buona occupazione degli spazi di mezzo. La Serie A si conferma anche quest'anno una confortevole riserva per i numeri dieci.

 





 



 



 



 



 



 



 



 


Ora che i soldi in Italia sono finiti, che le squadre si reggono esclusivamente sui soldi dei diritti tv, il player trading (il gioco delle plusvalenze per intenderci) per le medio-piccole spesso non è una scelta, ma l’unico modo con cui possono sopravvivere. Il rovescio della medaglia di questa strategia è talmente evidente da rendere la domanda fatta quasi retorica. La ricerca compulsiva della plusvalenza va a discapito proprio del progetto tecnico, che il più delle volte è solo un modo per mettere in mostra giocatori da poter poi vendere il prima possibile. Il player trading abbassa terribilmente il tetto di sviluppo di un progetto perché lo porta a morire prima di vederne il compimento, l’esempio più importante che mi viene in mente è quello della Sampdoria che ha portato Giampaolo allo sfogo la scorsa stagione: «Non si può mai programmare nulla, così vale anche per il prossimo anno. Ma è sempre il club che decide». Ma gli stessi rivali diretti del Genoa fanno la stessa cosa da anni, arrivando a gennaio e vendendo già lì un paio di giocatori che si sono messi in luce.

 

Vorrei però sottolineare che ci sono squadre che vanno controcorrente. Il Chievo ad esempio è uscito dal sistema per costruire un progetto tecnico di lungo periodo. Invece di rincorrere nomi giovani da vendere per avere nuovi nomi giovani ha lavorato sui giocatori ormai non più ricercati dal mercato perché scartati dalle big o troppo “anziani”. In un certo senso si è estromesso dalla catena alimentare perché nessuno vuole andargli a comprare i giocatori, cosa che ha permesso la costruzione di uno dei progetti tecnici più interessanti e peculiari del campionato italiano, con una squadra che gioca a memoria. Al Chievo può arrivare la cessione di Inglese per 10mln, ma viene vista come una piacevole plusvalenza, non come la necessaria cessione per poter comprare un giocatore nello stesso ruolo da poter poi vendere a 12mln la prossima estate. C’è vita, insomma, fuori dal player trading, basta avere la volontà di cercarla.

 



Bisogna sottolineare ancora il punto fondamentale di questo discorso: in Serie A è praticamente impossibile costruire dei ricavi strutturali, soprattutto a causa dell’assenza di stadi di proprietà e di un’iniqua distribuzione dei diritti tv. Il player trading diventa così una strategia di sopravvivenza fondamentale. In un

si può leggere come tra i 10 club europei che hanno cambiato più giocatori nell'ultimo lustro 7 su 10 siano italiani.

 

Non sono d’accordo però sul fatto che il player trading sia nocivo, di per sé, ai progetti tecnici. In fondo il principio di funzionamento del player trading è la creazione di un contesto tecnico virtuoso, che permetta ai giocatori di mettersi in mostra. È vero che alcune squadre funzionano quasi solo da "vetrine", ma a volte sono davvero belle vetrine. Se guardiamo ai club che negli ultimi anni hanno giocato di più col player trading - Sassuolo, Genoa, Sampdoria, Atalanta - sono anche quelli che hanno puntato di più sulla continuità tattica. Un sistema che potesse mettere a proprio agio i giovani per esprimere il proprio calcio, facendo in modo anche che le loro caratteristiche risaltassero dentro un certo contesto tattico. Player trading e progettualità tecnica non sono quindi princìpi contraddittori nel nostro campionato e anzi: Sassuolo, Atalanta, Genoa e Sampdoria, ad esempio, hanno deciso di puntare su un modello tattico ben preciso e coerente proprio per oliare il meccanismo di player trading. La rivoluzione permanente di uomini viene comunque attenuata dalla continuità dei princìpi di fondo. I risultati anche sono stati più o meno positivi, a patto di rispettare un minimo il ciclo vitale stagionale del calcio e non stravolgere la squadra a stagione in corso come ha fatto il Genoa di Preziosi negli ultimi anni. C’è player trading e player trading, insomma.

 

Naturalmente il discorso cambia se vediamo nel player trading uno strumento per aumentare la competitività sul lungo periodo e aiutare le squadre a scalare le gerarchie del campionato. Vendere ogni anno i propri pezzi migliori e sostituirli con delle scommesse può, nel migliore dei casi, garanti

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