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Speak up and dribble
28 ago 2018
Perché Donald Trump ha scelto proprio questo momento per attaccare LeBron James e cosa c’entra Michael Jordan?
(articolo)
14 min
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26 giugno 2003. Poco più di due mesi dopo l’ultimo e definitivo ritiro del 40enne Michael Jordan, la NBA sta per entrare ufficialmente nell’era di The Chosen One. Sin dal sorteggio della Draft Lottery qualche mese prima, era chiaro a tutto il mondo che LeBron James from Akron, Ohio sarebbe diventato un giocatore dei Cleveland Cavaliers con la prima scelta assoluta.

Quando David Stern pronuncia il nome del prodotto di St. Vincent and St. Mary High School nessuno dei presenti al Madison Square Garden è sorpreso: tutti sono consapevoli di trovarsi ad una festa annunciata. Tra le più ricercate quella sera c’è un’orgogliosa mamma Gloria, che a un certo punto si ritrova davanti uno degli uomini più conosciuti d’America, il cui iconico volto televisivo ne anticipa sempre la parlantina pronta, in compagnia della sua nuova fiamma, qualche anno dopo la fine del suo secondo matrimonio con Marla Maples.

Se il 26 giugno 2003 è la prima volta in cui gli universi di Donald John Trump e LeBron Raymone James si sono incontrati - o almeno, la prima di cui ci è dato sapere - le 23:37, ora della East Coast, del 3 agosto 2018 è stata l’ultima. In 15 anni a cambiare non è stata solo l’ammirazione del 45° Presidente degli Stati Uniti d’America verso l’atleta più iconico della sua generazione, ma anche il rapporto stesso tra sport e politica.

Un rapporto condizionato anche dalle parole, scritte sui social o pronunciate in televisione di Trump e James, ma anche di quel personaggio di cui James ha idealmente raccolto il testimone 15 anni fa e citato dallo stesso Trump nel tweet che tanto clamore ha destato qualche settimana fa.

Il tweet di Trump è immediatamente seguente alla messa in onda di un’intervista realizzata da Don Lemon della CNN a LeBron James a margine dell’apertura della scuola “I Promise”. Nel corso dell’intervista LBJ non si è astenuto dal lanciare qualche frecciata al POTUS.

Per chiedersi il perché di questa faida aperta e senza precedenti - anche se non in assoluto -, bisogna fare un passo indietro nel tempo, così da capire meglio anche la ratio di certi comportamenti. Di Trump, di James e di Jordan in primis, ma anche di chi gravita attorno a un rapporto, quello tra sport e politica, che oggi quasi naturalmente richiede uno schieramento verso una parte. E non solo negli Stati Uniti, ma anche nel nostro paese.

“He’s a great guy”

I mondi di Trump e James si toccano nuovamente quando, nell’estate 2010, l’odierno POTUS partecipa attivamente alla campagna di recruitment dei New York Knicks per ottenere i servigi del giocatore in uscita da Cleveland; il tycoon avrà poi occasione di manifestare più volte il suo tifo per il nativo di Akron, in particolare durante le Finals 2012 e congratulandosi anche dopo il titolo dell’anno successivo e il successo agli ESPYs come Atleta dell’Anno.

In quegli anni Trump era mediaticamente sulla ribalta, oltre che per la sua intensa attività su Twitter, anche per il suo attivismo nel promuovere la teoria del complotto sulle origini di Barack Obama. Dal lato suo, James non ha mai dimostrato una particolare propensione a ricambiare gli apprezzamenti del protagonista di The Apprentice, concentrandosi più sul basket giocato e sul riabilitare la sua immagine pubblica dopo The Decision.

Quelli sono gli anni del primo LeBron attivista e sensibile ai temi sociali attorno a lui: l’hoodie indossato per ricordare e solidarizzare Trayvon Martin; la maglia I can’t breathe per protestare e porre luce sul caso di Eric Garner; le attività benefiche con la sua LeBron James Family Foundation, giusto per citare gli episodi più famosi.

I due mondi, però, continuavano a viaggiare su rette parallele: qualche settimana prima della famosa discesa della scala mobile per annunciare la sua candidatura a Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump elogia LeBron James su Twitter come «a great competitor» dopo il game winner dei playoff 2015 contro i Chicago Bulls.

Ma ad eccezione di quel momento, non c’era davvero nulla che potesse lasciare presagire che quelle rette potessero finalmente incontrarsi. Nulla che potesse lasciare immaginare tutto ciò che sarebbe successo a partire dall’anno dopo, il 2016.

“U bum”

Le due rette parallele di Trump e James, nell’anno dello storico titolo dei Cleveland Cavaliers, non si incrociano soltanto tramite dichiarazioni e attualità, ma anche per coincidenze fortuite: dopo una campagna elettorale lunghissima e interminabile, con ben 17 candidati, Donald John Trump viene ufficialmente nominato dal Partito Repubblicano come candidato Presidente durante la convention di Cleveland, nemmeno un mese dopo la parata trionfale di LeBron e compagni.

È proprio alla Quicken Loans Arena, la casa di LBJ, che Trump pronuncia il suo primo discorso da nominated. Ma il momento in cui i due mondi entreranno definitivamente in rotta di collisione, quella collisione che continua ancora oggi, avverrà soltanto tre mesi dopo, in quell’incredibile mese di ottobre che inizia con un endorsement di peso.

L’entrata in campo del numero 23 dei Cavs in quella che è la campagna elettorale più mediatica e ruvida probabilmente dell’intera storia elettorale americana non può, e non passa, sotto traccia. Trump non risponde direttamente all’endorsement di James per Hillary Clinton in Ohio, lasciando semplicemente che possa giovare alla sua immagine di candidato contro tutto l’establishment e l’élite liberale e quella rappresentata dalle star dello sport.

Un altro punto di non ritorno è il famoso Access Hollywood Tape, il momento più difficile della campagna di Trump, quello in cui - a detta dei suoi stessi sostenitori, a leggere libri e cronache successive - la campagna del tycoon era veramente sul punto di crollare. Tra i personaggi pubblici che condannano pubblicamente il linguaggio di Trump in quel nastro c’è anche James, in quello che probabilmente è il primo vero scontro frontale del giocatore più forte del mondo contro l’allora candidato.

Ottobre scivola via, e con la campagna elettorale che continua a essere aspra e incerta anche nell’Ohio di LeBron, uno degli stati più in bilico nei sondaggi pre-elettorali. L’incertezza porta il giocatore dei Cavaliers a metterci la faccia in prima persona insieme al compagno J.R. Smith: entrambi si presentano a parlare a un comizio di Hillary Clinton proprio in Ohio, a poco più di 24 ore dall’apertura dei seggi.

L’elezione nominerà poi, come risaputo, Donald John Trump come 45° Presidente degli Stati Uniti d’America: la sconfitta della Clinton non placa però l’attivismo di James, che si spende prima per rassicurare e incoraggiare i delusi dal risultato, messaggi di fiducia che continuano anche dopo la visita alla Casa Bianca insieme ai Cavs due giorni dopo l’elezione del tycoon, con poi il “caso” del Trump Hotel di Manhattan in cui James - e altri giocatori dei Cavaliers - rifiutano di alloggiare in occasione della trasferta nella Grande Mela.

Il Presidente Eletto non risponderà mai a James, e i due mondi torneranno a collidere pesantemente quasi un anno dopo, quando Trump rescinde il tradizionale invito alla Casa Bianca per i campioni NBA dei Golden State Warriors scontrandosi con Stephen Curry. LeBron interviene in difesa del “rivale”, apostrofando Trump come “U bum” (“Sei un cog***ne”, per dirla fuori dai denti) e ricevendo sostegno anche da un altro ex-rivale sul campo come Kobe Bryant.

Una “unità d’intenti” tra giocatori non scontata, specialmente se si pensa al fatto che non sempre le principali icone dello sport americano hanno sfruttato la loro visibilità e ribalta per fini di attivismo sociale e politico.

“Republicans buy sneakers too”

Bill Russell, Oscar Robertson, Kareem Abdul-Jabbar, ma anche non cestisti come Jim Brown o Muhammad Ali: icone afro-americane che hanno sfruttato la loro visibilità per portare l’attenzione mediatica e sociale sui temi dei diritti civili, in tempi anche più difficili di quelli odierni.

Non sempre, però, c’è stata unità in tal senso: per un Ali o un Brown c’è un O.J. Simpson, costantemente accusato di essere piuttosto insensibile ai temi delle minoranze etniche. E poi c’è Michael Jordan, il terzo angolo del triangolo del tweet di Trump, è decisamente più accostabile a un Simpson che a un Ali quando si tratta di attivismo sociale e politico.

Non a caso, quando si pensa all’esistenza o meno di un lato “attivista” di Jordan, la prima frase che viene in mente è «Republicans buy sneakers too» (anche i repubblicani comprano le scarpe da basket), citazione attribuitagli - ma negata dal 6 volte campione NBA - che la dice lunga sullo scarso interventismo di MJ sui temi sociali.

È più facile pensare al suo abituale silenzio piuttosto che alla forte dichiarazione contro gli eccessi di forza della polizia contro le persone di colore e le cosiddette minorities: lo stesso Jordan aprì quella lettera, due anni fa, con «I can no longer stay silent», riconoscendo il suo silenzio precedente.

La leggenda dei Bulls fu molto più vocale qualche anno prima, quando non esitò a esprimere il suo sdegno per le dichiarazioni razziste di Donald Sterling: lì però entrò in scena anche il Jordan businessman, interessato a proteggere l’immagine e il decoro del contesto in cui operava.

Non è difficile sostenere che Michael Jordan impersonifichi il concetto di «stick to sports», precetto a cui però è difficilissimo aderire in tempi come quelli odierni, dove qualsiasi occasione di contrasto sociale e politico ha un effetto polarizzante e vi è quasi una continua ricerca di “divisione”.

Non è altrettanto difficile immaginare come la parte dell’interminabile dibattito su chi è migliore tra Michael Jordan e LeBron James che prende in considerazione l’attivismo e la legacy fuori dai parquet NBA possa essere sempre più rilevante nel modo in cui li ricorderemo in futuro.

Foto di Allison Farrand/Getty Images

“He’s fired”

La risposta di Jordan al tweet in cui Trump ha attaccato James, tirando in mezzo al discorso anche l’ex Bulls, mostra una volontà di Jordan di tirarsi fuori dal discorso, elogiando James per l’attivismo sociale ignorato da Trump, ma non esprimendosi sul concetto del tweet stesso.

Il dibattito sull’attivismo di Jordan e James e sulla loro disponibilità a mettersi in gioco anche fuori dal parquet è identificabile come un effetto riflesso della comunicazione di Trump, costantemente rivolta alla creazione e identificazione di un nemico, di un avversario.

Usare lo sport come in maniera divisiva, confermando quindi una delle principali critiche rivolte da James nel corso dell’intervista con la CNN, è una tattica che Trump porta avanti praticamente dall’inizio della sua presidenza: il discorso in cui critica i proprietari NFL per non prendere provvedimenti contro i giocatori che si inginocchiano durante l’esecuzione dell’inno nazionale è esemplificativo della durezza di “45” sul tema.

In particolare Trump non esita a farne una questione anche razziale: oggetto dei suoi rant su Twitter e strali durante vari rally sono gli afro-americani, atleti o meno, di cui sovente ne giudica anche il quoziente intellettivo. Non a caso, il tycoon non ha mai espresso opinioni sulle critiche continue rivoltegli da personalità come Steve Kerr o Gregg Popovich, per restare nell’ambito NBA. Critiche anche decisamente più dure e aspre di quelle di James.

Identificare il black athlete come nemico e avversario nella corsa al Making America Great Again ha un effetto aggregatore, canalizza un sentimento forse assopito ma manifestato anche in gusti e preferenze. La NBA è un ambiente indubbiamente più liberale e progressista delle altre leghe americane, e non è un caso che Trump nel revocare anche quest’anno l’invito alla Casa Bianca agli Warriors abbia citato l’invito rivolto a squadre provenienti da realtà e zone geografiche più di tendenza conservatrice.

Picking a side è un obiettivo mirato da parte della comunicazione trumpiana, e lo sport - per la sua capacità aggregatrice - può ovviamente giocare un ruolo di primo piano in tal senso. Scegliere una parte galvanizza i tuoi sostenitori e li fidelizza; creare divisioni in ambienti non omogenei genera confusione, un effetto gaslighting che sposta l’attenzione e il focus da temi di cui, chi crea la narrativa, non vuole discussione.

Giocatori e allenatori NBA, come anche Adam Silver, non hanno esitato a sostenere LeBron James, facendo quadrato attorno a lui e, in alcuni casi, non esitando a attaccare Trump, mentre il Re in prima persona non ha mai risposto al tweet in questione né direttamente né indirettamente.

Il timing per la generazione di questa polemica da parte di Trump è però sicuramente interessante. Come abbiamo visto in precedenza, in nessuna delle occasioni in cui il nativo di Akron si era espresso sul tycoon newyorchese quest’ultimo aveva deciso di rispondere. Può non essere un caso che “45” abbia deciso di fare schermaglie proprio nel momento in cui il James giocatore ha lasciato l’Ohio, stato battleground di ogni campagna elettorale, per trasferirsi in California, roccaforte democratica in cui Trump stesso sa di avere infinitesimali chances di successo (due anni fa la Clinton quasi doppiò Trump per numero di voti).

Può sembrare un ragionamento azzardato, ma non così assurdo nel momento in cui, mediaticamente, ogni figura del profilo come quello di LeBron James che si oppone a Trump viene citato come un possibile protagonista di una campagna elettorale: pensate all’eco mediatica avuta dal discorso di Oprah Winfrey ai Golden Globes.

Mesi fa la conduttrice di Fox News Laura Ingraham attaccò James (e Kevin Durant) con la famosa frase «Shut up and dribble», che tra l’altro darà il titolo a una serie di documentari - prodotti proprio da LeBron - sul ruolo degli atleti nella politica americana.

Tutto quello che è accaduto negli ultimi anni negli Stati Uniti, però, demolisce l’idea di una frase del genere così come il concetto di “stick to sports”. Se la politica nel 2018 viene fatta attivamente da personaggi che non sono “politici di professione”, perché uno sportivo - anche uno «pagato 100 milioni di dollari per palleggiare», per usare le parole della Ingraham - dovrebbe astenersi dall’esprimere le sue opinioni politiche?

Nella storia USA, l’incontro tra sport e politica non è così inconsueto: numerosi atleti, una volta appesi gli scarpini al chiodo, hanno intrapreso una carriera politica di successo. Mai nessuno di loro, però, è andato oltre un ruolo da Senatore, come l’ex Olimpia Milano Bill Bradley.

Negli ultimi anni, però, si è osservata una tendenza social a “candidare” alla presidenza qualsiasi personaggio pop opponibile a Trump, che ha decisamente cambiato le regole del gioco. Prima della sua discesa in campo era impensabile - anche perché non era mai successo - che un individuo fosse eletto Presidente degli Stati Uniti senza aver mai ricoperto, precedentemente, cariche pubbliche.

Oprah. Kanye West. The Rock. Chris Rock. Katy Perry. Persino, per tornare al mondo NBA, Gregg Popovich e Steve Kerr. Il cambio radicale nel raccontare e percepire la politica statunitense ha portato a dibattere seriamente delle possibilità presidenziali di persone totalmente avulse a questo mondo, e non casuale che lo stesso Don Lemon abbia interrogato James sulle sue eventuali aspirazioni presidenziali.

LeBron ha nicchiato, non smentendo l’idea con decisione e quindi destinando la stessa a speculazioni varie. Per quanto affascinante può essere il pensiero, è altamente improbabile che le possibili ambizioni presidenziali del nativo di Akron possano emergere in superficie prima del 2024. Per allora, lo scenario potrebbe essere radicalmente diverso da quello di oggi, perché si potrebbe essere verso la fine di un secondo mandato di un 78enne Trump o di un primo mandato altrui. In un paese che potrebbe essere diverso da quello odierno, più concentrato nelle grandi città con una maggiore diversità etnica e culturale della popolazione.

Quello che è possibile affermare, con pochissimi dubbi, è che per il 2024 l’interventismo degli sportivi nella res publica potrebbe essere maggiore di quello odierno. Sempre più atleti sono più LeBron James che Michael Jordan, quando si tratta di “esserci”. Contemporaneamente potrebbe acuirsi lo scontro razziale, mare in cui lo stesso Trump ha dimostrato di nuotare con piacere e interesse.

Sarà interessare osservare se il continuo “Us against-them” tra il Trumpismo e gli atleti, NBA o NFL o altri che siano, porterà a una messa in soffitta del “stick to sports”, con una tendenza sempre più acuita a un “Speak up and dribble” in risposta al “Shut up and dribble”. Nel momento in assolutopiù difficile per il 45° Presidente degli Stati Uniti d’America, ogni occasione può infatti essere buona per galvanizzare i propri sostenitori contro un nemico diverso, per far sì che questi possano essere pronti a una battaglia mediatica sui social.

Quanto la tendenza del “Speak up and dribble” possa polarizzare l’immagine e la percezione degli sportivi presso l’americano medio sarà interessante da osservare: soprattutto tenendo conto delle tradizionali differenze tra NBA e NFL quando si parla di politica. Ma è difficile che questa tendenza possa essere fermata: non si può fermare un fiume con le mani. Perché se è vero che «republicans buy sneakers too», è altrettanto vero che stare seduti in disparte è sempre più difficile di questi tempi.

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