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L'ultima ossessione di Novak Djokovic
05 ago 2024
Erano 16 anni che aspettava questo momento.
(articolo)
12 min
(copertina)
IMAGO / Starface
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Novak Djokovic indossa una maglia più larga del solito ma per il resto è pressoché identico a oggi: i capelli colorati col pennarello, il naso lungo, la calma con cui si asciuga la faccia e poi compie i suoi palleggi preparatori al servizio. Solo i personaggi disegnati dei cartoni animati sono sempre così uguali a sé stessi.

È il 2008 e Rafael Nadal è invece tutto diverso. Ha l’outfit da bucaniere: la bandana che regge i capelli bagnati, la maglia smanicata dentro cui il suo corpo esplode di muscoli ed energia. Lo sguardo deve ancora assumere quella piega dolente che gli donerà il tempo.

Siamo a Pechino ed è la semifinale del torneo olimpico di tennis. Sul punteggio di un set pari Novak Djokovic serve per rimanere nel match: la peggiore situazione possibile se dall’altra parte del campo Rafael Nadal vede avvicinarsi la finale. Per di più una finale comoda contro Gonzalez. Djokovic annulla il primo match point con uno scambio volitivo, poi respira, cerca di restare calmo e concentrato. La superficie è rapidissima e quindi a lui favorevole; vince un altro punto scendendo a rete. Ha la palla per andare sul 5-5 e un attacco di dritto comodo a metà campo. Nadal, però, lo aspetta lì, e gli tira un passante di rovescio tesissimo che tiene in vita il game. È uno di quei game che solo Nadal può resuscitare, e ti fanno pensare che non puoi niente, contro una persona che vuole vincere così tanto. Dopo arriva una risposta di rovescio fulminante e poi uno scambio terribile, che Djokovic ricorderà per tutta la vita.

Dopo una prima robusta, si mette a comandare da fondo. Nadal è svariati metri oltre la riga, a opporre una resistenza che sembra vana, puramente psicologica. In quel momento storico, però, l’agonismo dello spagnolo entra sotto pelle a tutti, persino a Novak Djokovic. Nadal alza le traiettorie dei recuperi, sempre di più, pregando per un errore nello smash: un punto debole storico del serbo. L’errore, infine, arriva, sullo smash più semplice, con la pancia quasi sulla rete - e la palla va fuori di metri, è un’implosione spettacolare. Mentre Nadal è steso sul cemento di Pechino festante, Djokovic ha tutto il tempo per consumare la propria delusione a rete. Per diversi secondi ha lo sguardo basso, pietrificato, di chi è perso nei propri rimpianti, ed è solo l’arrivo di Nadal a scuoterlo. Fissate questa immagine, perché è da qui che inizia la lunga rincorsa di Novak Djokovic all’oro olimpico.

A Londra, ai Giochi del 2012, perderà nettamente in semifinale da Murray, e poi perderà anche il bronzo con Del Potro, che lo eliminerà inaspettatamente anche a Rio. A Tokyo, poi, la terribile sconfitta contro Zverev, quando era arrivato stremato dalla pressione per il calendar slam. Dopo quella partita la sensazione era che le sue possibilità fossero terminate. La storia di Djokovic, però, è quella di un uomo che si prende le sue rivincite, e qualche vendetta, e ricuce ferite e traumi, e che non vuole lasciare nulla in sospeso nella propria carriera. Un uomo che brucia nel conflitto, che preferisce una rivincita a una vittoria comoda e senza storia. Un uomo che invece appassisce nella pace.

Sedici anni dopo ritroviamo la faccia di Djokovic sepolta nell’asciugamano. Il corpo tremante e squassato dalle lacrime. Ha appena vinto l’oro in finale contro Carlos Alcaraz, che nel 2008 aveva cinque anni. Si lascia andare a un pianto sfrenato, devastante, quasi doloroso, in un’emorragia di tutta la tensione accumulata in questi lunghi anni. Alcaraz gli lancia uno sguardo preoccupato. Poi all’improvviso si alza, Djokovic, e stende la bandiera serba in cui spicca l’aquila bifronte: una testa guarda al regno dei cieli, l’altra al regno della terra.

Se proviamo a guardare la scena da fuori può sembrarci grottesca: il tennista più vincente della storia ridotto a uno straccio zuppo di emozioni per l’ennesimo traguardo - non si è stufato? Può provare ancora quel tipo di gioia? Dov'è il limite tra motivazione e ossessione? Probabilmente Djokovic avrebbe barattato qualcuno dei suoi Slam in cambio di questa medaglia d’oro, per tutto quello che significa per lui rappresentare la Serbia, il paese dolente e bombardato in cui è nato. Non avergli ancora donato una medaglia d’oro olimpica era per lui un’onta. Il sollievo, la fierezza, è stata ancora più intensa di quanto immaginasse: «Non conoscevo questo sentimento fino a oggi, vincere una medaglia d’oro per il proprio paese».

Già nel 2016 diceva che l’oro olimpico sarebbe stato il traguardo più importante della propria carriera. Nel 2020, prima del fallimento di Tokyo, aveva confessato ad Andy Murray che se avesse potuto tornare indietro nel tempo e cambiare il risultato di una partita, beh, quella sarebbe stata la semifinale con lui a Londra, o quella con Nadal a Beijing.

Il cerimoniale pretende che tutto sia accelerato. Allora Djokovic posa la bandiera e corre subito verso gli spalti, e viene inghiottito dal suo clan. La moglie Jelena, la figlia Tara tenuta in braccio, e poi Viktor Troicki, la mamma Dijana, che la prima volta che tornò da Wimbledon col Prize money di suo figlio venne fermata all’aeroporto e sospettata di traffici illeciti: «Mi avevano chiesto se volevo un assegno o contanti. “Ma quale assegno?!” Gli ho risposto». Un episodio curioso che descrive però la distanza di classe che c’è sempre stata tra il mondo da cui proviene Djokovic e quello dell’establishment tennistica. Un mondo di sacrifici, in cui ci si sporca, forgiato nella guerra e nel conflitto, e che teme di sembrare fuori posto, tra etichette e convenzioni borghesi e occidentali. Un mondo che ha bisogno di pensarsi in modo comunitario, o clanico, per trovare forza e senso. Per questo quando si esce dalla logica individualistica Djokovic sente una responsabilità particolare. Un conto è fallire per sé stessi, un altro è farlo per la propria patria, che ha versato il sangue del rosso sulla bandiera per permettergli di competere nel tennis professionistico. Si può fallire per sé stessi, ma non si può fallire per la propria patria, o per la propria famiglia, che ora guarda dagli spalti benestante e serena, ma un tempo si è indebitata per permettere al proprio figlio di competere nel tennis professionistico. E le ferite di certi periodi della vita non si rimarginano davvero mai del tutto.

La telecamera lo segue, mentre torna indietro aprendosi un rivolo nella folla, in una di quelle scene collettive alla Francis Ford Coppola. Stacco e vediamo Carlos Alcaraz crollare. Mentre parla con Alex Corretja - incanutito e irriconoscibile - prova a strapparsi via le lacrime dagli occhi, mentre al polso gli balla molle l’orologio d’oro dello sponsor, ma poi è costretto ad allontanarsi.

Djokovic rientra e ha un’espressione totalmente, interamente, completamente felice, che non gli abbiamo mai visto addosso, o forse non la ricordiamo più, un’epoca in cui riusciva in cose che non sembravano essere alla sua portata.

Carlos Alcaraz è il giocatore più forte al mondo, oggi, di sicuro il più in forma del circuito. Ha vinto gli ultimi due Slam e sconfitto Djokovic a Wimbledon per la seconda volta in due anni. Una partita che pareva marchiare in modo definitivo questa paradossale rivalità - tra due giocatori di epoche differenti che si ritrovano antagonisti per un incrocio di precocità e longevità. Sembrava una buca troppo profonda, quella in cui era finito Djokovic, a 37 anni e migliaia di partite nelle ossa e un ginocchio malandato e operato. Dopo la sconfitta a Londra Djokovic aveva ammesso, con brutale onestà, di non sentirsi più al livello di Alcaraz e Sinner. Aveva detto che in questi casi lui conosce solo una strada: rimboccarsi le maniche e lavorare, e superare le difficoltà. Stavolta però non sembrava convinto nemmeno lui, nella sua voce c’era un filo di rassegnazione. Non gli abbiamo creduto, per l’ennesima volta. E forse Djokovic lo ha percepito, che nessuno credeva in lui, in questi Giochi Olimpici, e non c’è sensazione che lo possa rinvigorire di più, avere i pronostici contrari.

È stata una finale dura, giocata punto a punto, retta su un equilibrio assoluto: senza break, senza strappi, senza cambi di ritmo e discontinuità. Carlos Alcaraz e Novak Djokovic come due titani che si fronteggiano in un corpo a corpo che li fa rimanere stranamente immobili. Nel primo set Alcaraz però sembra giocare con una velocità supplementare rispetto alla realtà: si muove in anticipo, arriva prima, e poi colpisce più forte, più veloce, più profondo. Djokovic fa un miracolo ad assorbire la sua furia, la gloriosa leggerezza con cui bombarda il campo, e poi decelera bruscamente, e inchioda tutta quella verticalità in una palla corta che muore di poco di là dalla rete. C’è uno schema che sembra mandare ai matti il serbo. Alcaraz cerca una traiettoria carica e profonda sul lato sinistro di Djokovic, e aspetta che gli ritorni una palla da spingere: allora strappa con un dritto incrociato stretto che spezza le gambe di Nole.

È un primo set con tante occasioni mancate, palle break sciupate, ma in cui l’energia di Alcaraz sembra debordare fuori dal campo. Non è chiaro come Djokovic sia riuscito a reggere quell’impatto, a restare nel punteggio come un acrobata sul cornicione. È stata una prova di tenuta psico-fisica inimmaginabile per un tennista della sua età. Alcaraz ha commesso l’errore di farsi trascinare al tiebreak, dove Djokovic si sente a 7 punti dal set e segue un istinto vincente che gli appartiene più di chiunque altro.

Per tutto il primo set Djokovic è sembrato in ritardo sui cambi di ritmo lungolinea di dritto di Alcaraz ma poi, proprio nel tiebreak, arriva su uno di questi e restituisce un dritto che schizza incrociato a una velocità inattesa. È uno strappo decisivo.

Come già avevamo visto a Cincinnati, i due set su tre hanno aumentato l’intensità dello spettacolo. La partita ha contenuto una particolare urgenza; Djokovic sapeva di non potersi permettere di perdere il primo set, o comunque di farsi trascinare al terzo. All’inizio del secondo Djokovic sembra in controllo, perde pochi punti al servizio e Alcaraz sembra giocare nel modo peggiore per lui: animato dal dubbio. Pian piano, però, torna in partita, ma di nuovo non riesce a togliere il servizio al suo avversario, e di nuovo al tiebreak ha la peggio contro l’astuzia competitiva, l’intelligenza agonistica, il pragmatismo tattico di Novak Djokovic. È di nuovo un’accelerazione improvvisa incrociata di dritto a marcare le distanze. «L’anima e il cuore» che Djokovic dice di aver messo in campo brillano in questi colpi, che sembrano risuonare di una forza speciale e non del tutto razionale. Sembrano viaggiare carichi di un’energia intangibile che si mostra solo raramente nello sport. Ieri Djokovic ce l’ha mostrata, in quei dritti e in qualche altra occasione, come la difesa ostinata nel tiebreak del secondo, quando ha alzato un lob di rovescio ricaduto sulla riga di fondo. Più Djokovic acquisiva sicurezza, più riusciva a risolvere i problemi tattici: ha iniziato a leggere in anticipo le palle corte di Alcaraz, e a rispondere meglio alle traiettorie alte e profonde. Disinnescata questa strategia, lo spagnolo è andato in cortocircuito.

Guardando la partita con attenzione si aveva la netta sensazione che Alcaraz avesse molto più tennis di Djokovic. Era più in forma, tirava più forte, si muoveva meglio e più velocemente. Per questo, guardandola, avevamo la sensazione che Djokovic si stesse aggrappando a un punteggio che alla fine comunque non lo avrebbe premiato. Il tennis, però, sa essere una faccenda complicata, che contiene contesti troppo diversi a cui adattarsi. Alcaraz era superiore a Djokovic nelle ampie distanze dei game, ma era inferiore a lui nelle corte distanze del tiebreak.

Se non è riuscito a sfruttare prima la sua superiorità è per la straordinaria tenuta di Djokovic, ma anche per il proprio disastro tattico. Dopo un inizio lucido, Alcaraz ha progressivamente accettato una partita di scambi brevi, mentre aveva tutto l’interesse a manovrare di più e a far muovere di più Djokovic. Soprattutto, però, non ha mai trovato la distanza per rispondere al servizio. Da qualche mese ha scelto una posizione molto lontana dalla riga che gli concede più tempo, ma ieri non ha funzionato. Ha sofferto in particolare i servizi centrali e corti di Nole. A un certo punto ha provato a fare qualche passo in avanti, ma è andata ancora peggio. Tra un grido e l’altro verso il proprio angolo, non ha mai trovato le misure. In alcuni momenti è stato imbarazzante. È difficile trovare un giocatore di quel livello così impreparato nella lettura del gioco, ma è un difetto che Alcaraz si porta dietro da quando ha fatto irruzione nel circuito, e che oggi è l’unico margine di possibilità che concede ai suoi avversari. A Wimbledon sembrava aver fatto qualche passo in avanti, ieri ne ha fatti diversi all’indietro. È probabilmente parte del processo di crescita, ma a questo punto nutrire qualche dubbio sulla sua intelligenza tennistica è lecito. La buona notizia per Alcaraz è che nessuno, però, lo metterà di fronte alla complessità del tennis come ha fatto ieri Novak Djokovic. Per Alcaraz è stata una sconfitta tremenda, ma può essere benedetta, se Alcaraz ne ricaverà una lezione.

Il suo torneo olimpico era cominciato con una resa dei conti. Al secondo turno il sorteggio gli aveva messo di fronte Rafael Nadal, verso cui il tempo è stato meno clemente che con lui. Se Djokovic sembra identico a 16 anni prima, il dolore fisico e mentale ha scavato Nadal come una roccia calcarea. Djokovic lo ha stritolato, asfissiato, gli ha fatto sentire tutto il peso del tempo che passa e rende il corpo più lento, meno capace di reagire agli stimoli esterni, più vicino alla morte sportiva.

L’oro di Djokovic è stato soprattutto una grande impresa di auto-conservazione, e di consapevolezza quasi religiosa delle proprie possibilità. Espressione di un allineamento psico-fisico in cui l’uomo sembra davvero, per una volta, un essere perfetto.

Qualcuno si aspettava che dopo la vittoria Djokovic avrebbe annunciato il ritiro. In una prospettiva da videogame, Nole a questo punto ha completato il tennis, vincendo ogni singolo torneo e titolo importante, molti dei quali ripetutamente. A pochi sportivi, abbiamo pensato, è concessa una possibilità così romantica di ritirarsi: dopo aver vinto una finale olimpica, a 37 anni, contro il tennista più forte al mondo, 16 anni più giovane. Ma questo pensiero, che immagina le carriere degli sportivi come una storia ben scritta, deve suonare contro-natura a un agonista nato come Djokovic. I segnali della sua fine, a essere onesti, sono molti, a volerli ascoltare. Eppure c’è oggi una nuova realtà: ha appena vinto il torneo olimpico senza aver perso un set, dopo aver battuto due set a zero il suo nuovo rivale Carlos Alcaraz. Cosa dovrebbe fargli pensare che non può vincere ancora, che non può provare più queste stesse sensazioni? Ai microfoni ha detto che punta ad arrivare a Los Angeles nel 2028. Avrà 41 anni.

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