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Djokovic il mistico
25 giu 2020
25 giu 2020
Uno degli sportivi più influenti al mondo non ha un buon rapporto con la scienza.
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Alla fine, Novak Djokovic ce l’ha fatta: martedì è risultato positivo al test per il Covid-19.

 

È il quarto tennista dopo Grigor Dimitrov, Borna Coric e Victor Troicki, giocatori che hanno una cosa in comune: hanno tutti partecipato all’Adria Tour, il torneo di esibizione organizzato proprio da Djokovic a scopi benefici che ha fatto prima tappa a Belgrado e poi si è spostato a Zara, dove si è fermato prima di assegnare un vincitore, proprio per via del riscontro della prima positività, quella di Dimitrov. Di conseguenza, sono state annullate anche le tappe previste in Montenegro e Bosnia; al Tour hanno preso parte giocatori di primissimo livello, oltre ai già citati Coric e Dimitrov, c’era Rublev, un vincitore slam come Marin Cilic e due top-10 come Zverev e Thiem. Praticamente quasi tutti i migliori tennisti dell’est-europa.

 

Dopo l'evento di Zara tutti i giocatori coinvolti si sono sottoposti a tampone, nonostante non fossero obbligati: tutti tranne Djokovic, che inizialmente

, tornando sulla sua decisione solo in un secondo momento. 

Nole ha dato notizia della positività sua e della compagna Jelena e, con la coda tra le gambe, ha provato a spiegare le sue buone intenzioni: «Il nostro torneo era stato ideato per unire e per inviare un messaggio di solidarietà e compassione a tutta la regione. Il Tour è stato pensato per cercare di aiutare i giocatori del Sud Est Europa a ritrovare competitività nel tennis dopo lo stop imposto dal Covid-19. È nato come un'idea benefica, diretta a raccogliere fondi per le persone più bisognose e ha avuto una risposta favolosa da parte del pubblico. Abbiamo organizzato il torneo nel momento in cui il virus era in fase calante e credevamo che le condizioni per giocare fossero stato raggiunte».

 

Srdjan Djokovic, padre di Novak, invece è stato meno conciliante e ha dato la colpa a Dimitrov di aver portato e diffuso il virus nel balcani: «Non sappiamo dove l'abbia preso, ma l'ha trasmesso. Ha fatto molto male a Novak, alla Croazia, alla Serbia e alla mia famiglia. Avrebbe dovuto essere testato nel suo paese di origine». È dovuto

il manager di Dimitrov per precisare che il giocatore, prima del torneo, era stato in totale isolamento. Insomma, più passano le ore e più la vicenda assume proporzioni gigantesche.

 



Per capire le proporzioni della figuraccia di Djokovic va ricostruito il contesto. Va ricordato per esempio che il tennis

, da quando cioè l’ATP, dopo il rinvio del Roland Garros, aveva congelato i tornei fino a giugno. Poi, con l’aggravarsi della situazione sanitaria, era arrivata la cancellazione di Wimbledon e degli altri tornei su erba. Appena dieci giorni fa era arrivata una data ufficiale di ripresa, il 17 agosto al torneo di Cincinnati, che inaugurerebbe la stagione americana sul cemento culminante con gli US Open due settimane dopo.

 

Non tutti sono d’accordo, soprattutto sulle condizioni a cui saranno sottoposti. Lo slam di New York si disputerà a porte chiuse, grazie a ingenti misure di sicurezza ideate sul modello della

. I giocatori cioè potranno essere accompagnati da uno staff ridotto all’osso (dal solo coach), dovranno dormire nell’albergo dell’aeroporto, non avranno accesso a Manatthan e dovranno limitare al minimo i contatti, sia tra loro che col mondo esterno.

 

Condizioni che non piacciono a Djokovic, come non piacciono a Nadal, che avrebbe preferito ricominciare con la stagione su terra a settembre, in condizioni competitive per lui migliori e magari con il suo entourage al seguito. Come per gli altri sport, anche nel tennis l’emergenza sanitaria, e le decisioni da prendere, hanno portato a galla i conflitti politici interni all’organizzazione. Djokovic negli ultimi anni è stato uno dei giocatori più attivi fuori dal campo, provando una scalata ostile all’ATP in conflitto con le posizioni di Nadal e Federer. Negli ultimi mesi è andata in scena una lotta di classe, fra i grandi giocatori che potevano permettersi uno stop più lungo, e che hanno spinto per ottenere le migliori condizioni di ripresa possibile; e i tennisti di bassa classifica, per cui invece giocare era una semplice questione di sopravvivenza.

 

Salvatore Caruso, per esempio,

ha ricordato una cosa semplice: «Sono quattro mesi che non guadagniamo, dobbiamo tornare a giocare», poi ha accusato di indifferenza i giocatori più ricchi e celebri: «Mi dispiace vedere una schiera di tennisti che evidentemente non hanno troppo bisogno di tornare a guadagnare e sono disposti a tornare solo alle proprie condizioni, senza pensare che questo si ripercuote anche su noi altri».

 

È in questo scenario che Djokovic ha deciso di organizzare un torneo a porte aperte, con la presenza di pubblico quindi, che fosse anche il segnale di un ritorno alla normalità. È un modo per Djokovic di allargare le proprie attività imprenditoriali - la stessa operazione fatta da Federer con la Laver Cup - ma in questo contesto è difficile non interpretarlo anche come un gesto politico, attraverso cui da una parte dissentiva con le stringenti misure previste per gli US Open e dall’altra suggeriva che, tolti gli allarmismi, si sarebbe in fondo potuto riprendere a giocare in condizioni normali. Le uniche, cioè, che Nole sembra disposto ad accettare, visto che quelle pensate per gli US Open le aveva definite “estreme”. Per altro, un pensiero simile a quello espresso dalla numero uno del tennis femminile Ashley Barty.

 

Negli stessi giorni dell’Adria Tour si è giocato anche l’Ultimate Tennis Showdown, un torneo organizzato dal coach-guru Patrick Muratoglou, nello scenario godardiano della Cote d’Azur. Giocandosi a porte chiuse, alla fine il torneo ha fatto parlare di sé solo per le eccentriche modifiche di regolamento, così oscure e articolate che ci sarebbe bisogno di un articolo a parte. La mancanza di misure sanitarie dell’Adria Tour hanno invece, come potete immaginare, attirato subito violente critiche. Bruno Soares, membro del consiglio dei giocatori dell’ATP, ha definito il torneo “un horror show”: «È stato un atto di enorme irresponsabilità e grande immaturità. Se ne sono fregati ed è difficile anche trovare le parole».

 

Djokovic ha organizzato il Tour nei Balcani non per una questione di patriottismo, o almeno non solo - stiamo comunque parlando di un grande nostalgico della vecchia

- ma anche perché i governi serbi e croati erano gli unici a permettergli di organizzare degli eventi in presenza di pubblico. Per dire, una decina di giorni fa a Belgrado si è tranquillamente disputato, nella solita bolgia di pubblico, il “derby eterno”, quello tra Stella Rossa e Partizan. Un evento che ha aumentato la diffusione del virus e

tra Serbia e Montenegro. All’Adria Tour il pubblico sugli spalti era spalla a spalla, con una presenza di mascherine vicina allo 0%.

 

Ma non si è trattato solo delle porte aperte: l’Adria Tour ha violato le norme sanitarie in modo così grottesco che è difficile non immaginarlo come un tentativo di Djokovic di dimostrare l’inesistenza stessa del Covid-19.

 

I tennisti, oltre a giocare, erano impegnati in una serie di attività collaterali che sembrano pensate apposta per aumentare il rischio di contagio: tra il torneo di Belgrado e quello di Zara si è giocata una partita di basket che ha visto il quintetto Djokovic-Cilic-Coric-Dimitrov-Zverev sfidare la squadra professionista croata del KK Zadar; ma si è disputato anche un doppio misto (una modalità attualmente vietata dall’ATP) tra Ana Konjuh e Borna Coric, e Olga Danilovic e Novak Djokovic; poi sono saltate fuori foto di gruppo fra tennisti e raccattapalle e soprattutto - questo è il vero capolavoro - il video di una festa in discoteca: torsi nudi, maglie agitate, Bongo Music gridata, bandiere della Serbia sventolate.

 

Un autentico Covid-Party.

 

https://twitter.com/Janosikgarciaz/status/1275404275624087552?s=20

 

Sono questo tipo di immagini - assurde e infantili - che hanno portato il chairman dell’ATP, Andrea Gaudenzi, a commentare con toni di un sarcasmo irrituale: «È come quando cerchi di spiegare ai tuoi figli che devono indossare il casco per andare in bici. E loro dicono “no! no!”. Non serve».

 

Le critiche sono arrivate anche da altri tennisti, ritirati e ancora in attività. Brad Gilbert ha twittato una foto augurandosi tamponi per tutti il prima possibile, e Roddick gli ha risposto con ironia: «A quanto pare c’è una pandemia». Ma il più duro è stato Nick Kyrgios: «L’esibizione è stata un’idea da stupidi. Auguro una pronta guarigione ai miei colleghi, ma questo è quanto succede quando non si rispettano i protocolli. Non è uno scherzo».

 

Kyrgios, talento indisponente e capriccioso, è riuscito a spiccare come un esempio virtuoso in questa pandemia, prendendo posizioni conservatrici sulla ripresa e aiutando le persone in difficoltà economica attraverso donazioni dirette. Forse l’emergenza sanitaria ci ha aiutato a far venire fuori la natura del pensiero di molti sportivi di solito piuttosto riservati: vista in questo modo, quello che abbiamo trovato dentro Novak Djokovic non è stato gradevole.

 



Non stiamo parlando solo di un torneo di esibizione pazzo. Stiamo soprattutto parlando di Novak Djokovic, il numero uno del mondo, uno degli sportivi più vincenti e influenti della storia, perché quello che è successo è un incubo che sembra partorito nei minimi dettagli dalla sua testa. Dalla sua visione del mondo bizzarra e, diciamolo, in aperto conflitto con la scienza moderna.

 

Ad aprile, mentre si suggeriva la possibilità che i giocatori fossero obbligati al vaccino per viaggiare tra un torneo e l’altro, Djokovic si era detto contrario all’ipotesi. Siccome il ministro per la salute serbo lo ha criticato, ha dovuto precisare: «Personalmente sono contro il vaccino per il Covid-19 necessario per viaggiare», perché magari per qualcuno la violenza delle sue posizioni non era abbastanza chiara. Già in passato aveva espresso posizioni anti-vacciniste, guadagnandosi il buffo e riuscito soprannome di NoVax Djokovic (ora modificato in NoVax DjoCovid).

 

Nadal ha tagliato corto «Djokovic deve vaccinarsi se vuole continuare a giocare a tennis ad alto livello». Ma Nole ha altre idee. Per esempio ha dichiarato che sta cercando di capire se c’è un modo di contrastare il virus anche senza vaccino: «Sono un appassionato di benessere e spenderò la mia intera vita a capire come il corpo e il nostro metabolismo possono essere nelle migliori condizioni per difenderci contro il Covid-19». Magari Djokovic riuscirà ad arrivare prima dei centri di ricerca e delle università a un modo per combattere il virus senza ricorrere ai farmaci e chissà, magari, il torneo di Adria non era che un tentativo di diffondere nei Balcani delle basse cariche virali che facilitassero l’immunità di gregge. Scommetto che non ci avevate pensato, eh?

 

OK magari stiamo andando troppo in là, ma per capire il mondo di Novak Djokovic serve un altro episodio: quello di qualche settimana fa, quando Instagram è stato costretto a oscurare un video postato dalla sua compagna, Jelena, in cui si sosteneva che ci fosse una correlazione tra la diffusione del virus e del 5G.

 

Nel periodo di lockdown Nole ha dato il meglio di sé. Mentre gli altri atleti di alto livello facevano dirette fra loro per intrattenere ed esprimere vicinanza ai loro fan, parlando del più e del meno, Djokovic si è trasformato in una specie di Mago Do Nascimento. Col beneficio del clima millenaristico generato dalla pandemia, ha avviato una serie di dirette Instagram intitolate “The Self-Mastery Project”. Una serie a puntate in cui Djokovic discuteva di salute, fenomenologia e paradigmi esistenziali con Chervin Jafarieh, una specie di santone della medicina alternativa. Gli spunti offerti da queste dirette sono molteplici.

 

Per Jafarieh, ad esempio, un buon modo per eliminare le tossine dal corpo è usare il trampolino elastico. Un’altra sua teoria, la più discussa, riguarda il fatto che possiamo modificare le molecole dell’acqua. Come? Attraverso le nostre emozioni, e volendo anche con la preghiera. In realtà la teoria non è proprio sua ma dello pseudo-scienziato giapponese Masaru Emoto, che ha scritto delle sue conversazioni con l’acqua nel libro Messaggi dall’acqua. Forse non vi sorprenderà sapere che un altro seguace delle teorie di Jafarieh è Mike Tyson.

 

Prima di Jafarieh, Djokovic si accompagnava a un altro santone, Pepe Imaz, che lo ha introdotto ai poteri della telecinesi e lo ha convinto a eliminare le proteine animali dalla sua dieta. Dopo una crisi di risultati è stato però costretto a richiamare il suo vecchio coach, Marijan Vajda, che

e reintrodotto la carne e il pesce nella dieta di Djokovic (che rimane per lo più vegetariana).

 

Il controllo del corpo e della mente rappresenta un’ossessione crescente per gli sportivi di alto livello, ma Djokovic l’ha portata su territori oscuri e mistici. In un’intervista al New York Times ha raccontato la sua particolare routine quotidiana. Djokovic ha l’abitudine di svegliarsi prima dell’alba insieme alla sua famiglia. Insieme ammirano il sole sorgere, poi iniziano una sessione di abbracci, canto e infine yoga. Ha un rapporto speciale col mondo vegetale. Prima dell’ultimo Australian Open

che avrebbe festeggiato andando al giardino botanico e scalando un albero di fichi con cui dice di avere una relazione intima: «Ho un amico lì, è un albero brasiliano di fichi che mi piace scalare e sentirmici in contatto. È la mia cosa preferita».

 

È difficile trovare uno sportivo di alto livello così eccentrico, ma sarebbe un errore non prendere sul serio il suo misticismo. Da una parte dobbiamo riconoscere un aspetto inquietante: guardando il suo gioco, e il modo unico in cui riesce a vincere nel tennis, sembra che le sue convinzioni abbiano qualche fondamento. A tratti Nole sembra davvero in grado di usare la telecinesi per modificare la realtà circostante: nessuno come lui riesce a togliere certezze agli avversari, costringendoli a perdere il controllo mentale della partita e del loro gioco. E ci riesce in condizioni spesso avverse, con il pubblico che il più delle volte gli tifa contro.

 

Ma se questo spiritualismo ha magari aiutato il suo gioco, c’è da chiedersi come le sue convinzioni possano influenzare gli altri. Questo è il più importante motivo per cui i discorsi di Djokovic vanno presi sul serio: il fatto, cioè, che possono avere degli effetti nefasti sulla collettività, come l’Adria Tour ha tragicamente dimostrato. Su Instagram Djokovic ha più di 7 milioni di follower, che hanno avuto accesso alle dirette in cui diffondeva teorie pseudoscientifiche e pubblicizzava

per lo sviluppo delle cellule cerebrali. Djokovic non è solo uno sportivo potente, ma anche tra i pochi che hanno un profondo interesse a esercitare il proprio potere. È attivissimo nella politica del tennis, ha un’influenza incalcolabile nel mondo balcanico ed è stato più volte

di tenere posizioni nazionaliste e poco rispettose del Kosovo e dell’Albania. Poi, va detto, ha anche una fondazione con cui si occupa di filantropia, rivolta soprattutto ai bambini, ma che ha anche patrocinato l’Adria Tour.

 

Infine c’è il potere - più invisibile ma forse il più grande - che gli deriva dall’essere il più forte tennista al mondo oggi. Non esiste forse nella storia del tennis un campione tanto vincente e tanto odiato, se calcoliamo i danni di immagine che sta accumulando in questi mesi. Cosa succederà la prossima volta che scenderà in campo davanti a un pubblico? Se prima si limitavano a tifare per il suo avversario ora lo fischieranno direttamente? E come lo farà stare, visto che stiamo parlando di una persona che, almeno secondo Kyrgios, «ha un patologico bisogno di essere amato»?

 

Da agosto, o forse da settembre, Djokovic riprenderà la sua strada per diventare il tennista più vincente della storia del tennis, e lo farà con pochi sostenitori dalla sua parte. Chissà se reagirà come ha sempre fatto, isolandosi e modificando la realtà attorno a sé, sentendo “Nole! Nole!” mentre il pubblico grida “Roger! Roger!”. O se invece, per una volta, gli avvenimenti delle ultime settimane gli suggeriranno che potrebbe provare a usare il suo potere in modo diverso e ascoltare quello che le persone gli stanno dicendo davvero.

 

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